Trump e la Siria
Il 4 aprile un attacco chimico
a Khan Sheikoun ha provocato decine di vittime: subito la notizia ha fatto il
giro del mondo, puntando i riflettori (letteralmente) sulle vittime più
giovani. Il 6 aprile gli Stati Uniti hanno risposto con un’azione militare ai
danni della base aerea siriana, presunta fonte dell’attacco chimico.
Nel 2013, l’allora presidente
Barack Obama aveva indicato come “linea rossa” da non oltrepassare l’utilizzo
di armi chimiche da parte di al-Assad. Il 21 agosto 2013, nel contesto degli
scontri per il controllo di Damasco, l’ONU riportò che nel quartiere Ghuta
erano morti civili e militari di entrambe gli schieramenti, uccisi dal gas
sarin.
Obama si disse subito
preoccupato per l’avvenimento, tuttavia si riservò di analizzare meglio le
responsabilità. La lezione dell’Iraq era un ottimo deterrente: in un’intervista
a New Day, programma della CNN, il presidente rimarcò la necessità di creare
una coalizione che spartisse l’onere dell’intervento. «E se gli Stati Uniti partono
e attaccano un altro paese senza un mandato delle Nazioni Unite e senza che
possa essere presentata una prova evidente, allora nascono domande in termini
di come il diritto internazionale lo supporti; abbiamo una coalizione per farlo
funzionare e questi sono fattori che noi dobbiamo prendere in considerazione».
Allo stesso modo,
nell’intervista a Goldberg nel 2016, Obama riconfermò la cautela assunta in
quel momento: «Un presidente non prende decisioni isolate. Non può fare tabula
rasa. Credo che dopo oltre un decennio di guerre, che continuano tuttora a
gravare notevolmente sulle nostre risorse, e di impegno in Afghanistan, dopo
l’esperienza dell’Iraq, con lo sforzo a cui ha sottoposto il nostro esercito,
qualunque presidente saggio avrebbe esitato a impegnarsi nuovamente nella
stessa regione, con le stesse dinamiche e con le stesse possibilità di ottenere
un risultato insoddisfacente».
Il 6 aprile 2017, Trump ha
rovesciato questa logica. Anche in questo caso, a caldo, sono emerse le prove che l’attacco fosse stato compiuto
dal governo siriano. Il ministro degli Esteri Walid al-Mouallem ha precisato più volte che
al-Assad non ha mai fatto uso di armi chimiche; la spiegazione è stata che
l’aviazione siriana aveva bombardato un deposito di armi chimiche dei ribelli.
Innanzitutto bisogna chiarire
questo: nel contesto della guerra civile in Siria non è possibile stabilire con
matematica certezza chi sia in possesso o meno di armi chimiche, nel dettaglio
del gas sarin. Questo perché dal 2011 ad oggi i territori conquistati o contestati
dalle parti in causa (tra cui anche altri attori come ISIS e i Curdi) sono
stati più volte soggetti a variazioni. In questo teatro così caotico, non è ben
chiaro quindi determinare chi sia in grado di attuare questo genere di
attacchi.
Si aggiungono poi altri tre
elementi. In primo luogo, al G20 di San Pietroburgo (2013), Russia e Stati
Uniti raggiunsero un accordo su una proposta di Putin, che sfociò nell’adesione
del governo siriano alla Convenzione sulle armi chimiche. Fu così che alla fine
di settembre dello stesso anno, il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite
approvò la Risoluzione 2118, che sanciva la distruzione dell’arsenale chimico
siriano. Ad oggi, questa è la posizione ufficiale della Siria.
Il secondo elemento è di
ordine propagandistico: data la situazione confusa e la possibilità da parte di
uno schieramento di avere accesso a tali armi, va da sé che esse possano essere
utilizzate a scopo ritorsivo, nel tentativo di provocare una risposta
internazionale, in un senso come nell’altro. Questo discorso è puramente
teorico, ma serve ad individuare quelle che sono effettive possibilità.
Terzo ed ultimo punto: la
convenienza. Forse davvero al-Assad ha utilizzato armi chimiche in passato e
persino di recente; forse davvero esistono le prove (prove concrete, asettiche,
non prefabbricate). Eppure la vera domanda è: che profitto ne trarrebbe
al-Assad? Questo considerando che l’interesse occidentale per la Siria non
stava diminuendo, ma acquistando nuovo colore. L’appoggio di Putin, della Cina
(anche se in forma silenziosa, come di consueto) e di alcuni Stati chiave della
regione (Iran in testa) si legava ad un atteggiamento “morbido” da parte di
Donald Trump. Il tutto, negli ultimi tempi, stava concorrendo per una soluzione
diplomatica, che avrebbe favorito probabilmente lo stesso al-Assad. Da cui la
domanda rinnovata: che profitto ne avrebbe tratto?
Nel frattempo, ad attacco
avvenuto, il resto del mondo si è mobilitato. Stati Uniti, Gran Bretagna e
Francia hanno proposto una risoluzione al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni
Unite, andando ovviamente incontro alla netta opposizione russa. In generale il
mondo occidentale ha condannato l’azione, individuando nel cosiddetto regime
siriano il colpevole. L’Unione Europea, sempre più stanca e incapace di una
politica estera autonoma, si è schierata fideisticamente dalla parte di chi avrebbe
le prove. Sarebbe facile fare un
parallelismo con l’Iraq, ma mettiamo da parte le cose ovvie.
Quel che conta è che le
Nazioni Unite stiano facendo, anno dopo anno, la fine della Società delle
Nazioni. Il diritto internazionale sembra essere diventato da tempo uno
strumento nelle mani di chi vuole affermarsi militarmente per i propri
interessi. Al contrario, tale diritto dovrebbe essere oggettivo, laicamente sacro
e non manipolabile dalla politica. Con la scelta di Trump, ci troviamo di
fronte ad un’azione unilaterale statunitense che è ben lontana dalla
moderazione e sottigliezza di Obama. Siamo, in definitiva, tornati indietro. Ai
tempi di G.W. Bush, per esempio. Ma non corriamo, perché il processo di
disgregazione delle Nazioni Unite è ancora relativamente lontano. La prima a
crollare – è probabile – sarà l’Europa.
Per il momento, i fatti ci
dicono che non ci sarà alcuna escalation interventista. Gli Stati Uniti sono
soli, sebbene Regno Unito e Francia siano sempre pronti in questo senso. Come
in Libia, dopotutto, quando ai primi entusiastici bombardamenti della
coalizione (Francia in testa) seguì un distacco sorprendente, che portò gli
Stati Uniti ad assumersi la maggior parte delle responsabilità. Obama allora
definì quegli alleati “opportunisti”: ancora di più oggi, non c’è motivo di
credere che il loro atteggiamento sia cambiato. Soprattutto in Francia, che è
in piena campagna elettorale, e in cui gli slogan sono tanto facili quanto
inconsistenti.
In definitiva, l’atteggiamento
di Trump si è rivelato impulsivo anche in politica estera. Con la differenza
che in questo àmbito la posta in gioco è ben più seria. Di fatto, quello che ad
una prima occhiata sembra un atto di forza, a ben pensarci si può leggere come
un fattore di debolezza. Trump, insomma, ha mostrato al mondo che è pronto a
reagire sull’onda dell’emozione, di fronte alle immagini di una strage. E
dietro a questo non sembra esserci alcuna strategia, né di breve né di lungo
termine. L’impulsività del presidente americano si lega alla sua limitata
conoscenza dello scenario internazionale, aspetto che rischia di renderlo
succube delle decisioni dei suoi consiglieri.
O peggio, succube di una parte
dell’elettorato. Quello che nei commenti ai video dei suoi recenti discorsi
cita (uno pseudo) Edmund Burke, affermando che «tutto ciò che è necessario per
il trionfo del male è che gli uomini di bene non facciano nulla». E dice che in
città «c’è un nuovo sceriffo. E questo [l'intera vicenda] è quello che un
vero presidente chiama una “linea rossa”». O ancora quell’elettorato che
benedice il presidente e la giustizia americana, unica fonte di salvezza per la
pace nel mondo.
Insomma, il rischio del POTUS
è di cedere alla cosiddetta destra religiosa o, più semplicemente, alla più
elementare emotività.
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