Oculus. Il paranormale che non si rinnova













Da gennaio, dopo Carrie, attendevo un film che potesse risollevare le sorti dell’horror, dal momento che questo genere si è ormai rinchiuso nelle possessioni più o meno demoniache, scopiazzando qua e là i modelli del passato e creando una sintesi deludente. Oculus, purtroppo, non è escluso da questo quadro d’insieme.

Tralasciamo il continuo salto temporale tra passato e presente dei due fratelli, proposto in maniera fin troppo sequenziale, senza svelare nulla che lo spettatore già non sappia: è tutta colpa dello specchio. Un vecchio, vecchissimo specchio comprato da uno sviluppatore di software, tale Alan Russell, che invece di riempire il proprio studio con qualche cosa che si addica al suo lavoro, decide di darsi all’antiquariato. De gustibus. Andiamo oltre.

Assistiamo, nel corso della pellicola, ad una trasformazione del padre (o meglio ancora, della madre), sulla scia del cambiamento di carattere di Jack Torrance in The Shining, senza con questo voler fare paragoni inappropriati.
Assistiamo anche ad una sorella (Karen Gillan) più psicopatica del fratello “omicida” (Brenton Thwaites), che in un undici anni di vita non ha fatto altro che inventarsi dei modi per “fregare uno specchio burlone”.

Il tema vero del film sembra essere, ancora una volta, il legame tra realtà e finzione: propriamente esistono entrambe, sebbene in due mondi differenti, e l’elemento di tensione dovrebbe (dico dovrebbe) essere innescato dall’interferenza del mondo paranormale (per noi fittizio) nella realtà che conosciamo.

Ma il problema vero di questa pellicola, al di là di un’idea di fondo che è scontata, è la totale assenza di climax. Non c’è una tensione crescente nel finale; i continui salti temporali sfruttano qualche banale colpo di scena facilmente prevedibile, e infine ritornano alcuni elementi classici dell’immaginario horror, dalle unghie insanguinate alla figura spettrale, emaciata, con un vestito chiaro che ti guarda sorniona. Ah sì, ed è sempre troppo occupata a spaventarti per prenderti una buona volta e ucciderti.

Il regista Mike Flanagan si ispira certamente a bei modelli, ma non va oltre la solita messa in scena a cui gli amanti del genere sono tristemente abituati da qualche anno a questa parte. Il film in sé si salva solo per l’assenza di una degna concorrenza.

Tralasciamo poi il finale. Arrivi ai titoli di coda chiedendoti che cosa sia successo, e non perché non sia tutto fin troppo evidente, ma perché ti domandi che cosa hai fatto di male perché il film si chiudesse così, in tutta fretta, con la più ovvia delle conclusioni: che, all’apparenza, i pazzi restano pazzi, e lo specchio è solo una metafora, invece che una realtà, per quanto terrificante.

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