Il mondo in cui vivo

Stanisław Wyspiański, Eos, Phosphoros, Hesperos, Helios (1897)

The Shining – è superfluo sottolinearlo – è leggenda. Dal romanzo di Stephen King alla celebre pellicola firmata Stanley Kubrick. Gli ingredienti c’erano tutti: un’ottima storia, un grande scrittore, un grande regista, ma soprattutto la diffusione di idee fresche tutte da sperimentare.
Sono passati tanti anni (era il 1977) dall’uscita del romanzo di King, eppure abbiamo dovuto attendere il 2014 per sapere che fine avesse fatto il piccolo Danny Torrance. Nel frattempo molto è cambiato e The Shining è diventata l’icona di un certo periodo, un oggetto sacro. Non per forza perfetto, ma intoccabile… e a ragione.

Intanto Kubrick è morto. Di registi capaci – ad essere onesti – se ne trovano anche ai nostri tempi. Anzi, questi farebbero (e talvolta hanno realizzato) un’opera perfetta, ma discutibile… e sempre a ragione. Che cosa manca allora? Il genio, la follia, lo spirito, l’estro, persino la tanto acclamata fame alla Steve Jobs? Io non credo. Tutto questo c’è, in abbondanza, e in tutte le forme: abbiamo il mediocre convinto di essere un genio e sostenuto a gran voce dalla società che lo applaude; abbiamo il folle che è totalmente idiota e ottiene consensi e il folle emarginato che scade, nel migliore dei casi, a stereotipo della mediocrità depressiva.
Non solo. Abbiamo lo spirito giusto per poter fare ogni cosa: lo spirito alcolico del sabato sera, lo spirito al bar con gli amici, lo spirito da nominare ad ogni risata o pianto… persino lo spirito – questa volta comico - per ridere delle disgrazie e giustificare il nostro fallimento. Come persone. Come società.

Citiamo Hemingway e i suoi problemi con l’alcol per giustificarci grandi scrittori, o comunque dei geni, riprendendo la ricerca scientifica di turno come dimostrazione autorevole. Ah già, perché oggi scienza è sinonimo di verità inconfutabile. Eppure lo facciamo per gioco, perché nessuno ci crede per davvero. Quando credi in qualcosa ti sacrifichi, ma noi ci sentiamo troppo preziosi per abbandonare la campana di vetro.
Allo stesso modo nessuno risponde citando altre fonti sull’argomento. Così mi permetto di riprendere ancora Stephen King, quando afferma:
«L'idea che lo sforzo creativo e le sostanze che alterano la mente siano strettamente legati è una delle grandi mistificazioni pop-intellettuali del nostro tempo. I quattro scrittori del ventesimo secolo il cui lavoro è soprattutto responsabile di questa mitologia sono probabilmente Hemingway, Fitzgerald, Sherwood Anderson e il poeta Dylan Thomas. [...] Lo scrittore tossicodipendente è nient'altro che un tossicodipendente, sono tutti in altre parole comunissimi ubriaconi e drogati. La pretesa che droghe e alcol siano necessari per sopire una sensibilità più percettiva non è che la solita stronzata auto-giustificativa. [...] Hemingway e Fitzgerald non bevevano perché erano creativi, diversi o moralmente deboli. Bevevano perché è quello che fanno gli alcolisti. Probabilmente è vero che le persone creative sono più vulnerabili di altri all'alcolismo e alla dipendenza dagli stupefacenti, e allora? Siamo tutti uguali quando vomitiamo ai bordi della strada».

Ecco che cosa significa uscire dalla campana di vetro. Guardare in faccia la realtà, che non significa smettere di sognare. Significa guardare un film come The Wolf of Wall Street e rendersi conto che il gioco è bello finché guardi la vicenda dalla prospettiva del lupo. E l’aspetto tragicomico è che tre quarti di noi crede di essere il lupo. L’altro quarto è solo travestito da pecora. È così che la nostra società, che noi giochiamo al cannibalismo.
Perciò, riprendendo da dove siamo partiti, il secondo capitolo di The Shining, al cinema, è presto caduto nel dimenticatoio. Ma perché? Di certo la regia è stata sottoposta ad una grande prova, i cui esiti erano abbastanza prevedibili. Sebbene, di base, non mancasse quasi nulla. C’era tutto, e anche più di quello di cui ci fosse bisogno.
Ecco, forse oggi manca il Kubrick della situazione, la scheggia impazzita che può fare male oppure stimolare una reazione; manca il John Lennon degli operai, manca la scelta politica assicurata dalla sottomissione ideologica al partito. No, non era davvero tutto così perfetto ed era quello il segreto. Forse manca solamente una disciplina intellettuale, purché originata dall'artista stesso, una frenesia incanalata in un sistema valido per esso, che possa seguire una logica metodica o anche solo una illogica verità.

Mi domando: ricorderemo tutti insieme l’immagine fotografica della nostra generazione, la canzone storica che ha segnato un’epoca, gli scontri politici che hanno determinato la nostra storia di individui e di membri di una società? Oppure sarà stato solo un lungo sonno, costellato da frammenti confusi di emozioni, da fotogrammi senza né capo né coda?
Forse è vero che non manca proprio niente, ed è la nostra condanna. Noi non abbiamo affatto la fame creativa di Steve Jobs. Siamo solo ingordi di nuove prospettive e incapaci di valorizzare i mezzi più semplici a nostra disposizione. Eppure, nel torpore umano, la natura potrebbe tornare a esigere che si torni a parlare di significati, mettendo in discussione i nostri nuovi, rigidi, credi.

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