Salomè nelle arti fino a Jung

 


Salomè era una principessa ebrea, figlia di Erode II e di Erodiade. Nipote di Erode il Grande e figliastra di Erode Antipa, compare nel Nuovo Testamento, dove non viene nominata esplicitamente, e in un passaggio delle Antichità giudaiche (Libro XVIII, Capitolo 5,4) di Flavio Giuseppe. Secondo quest’ultimo, fu prima sposata a uno zio e poi a un cugino, che la rese regina dell’Armenia Minore dopo il 34 d.C.

 

Le fonti antiche

 

Nel Vangelo di Marco, emerge che Erodiade nutrisse rancori nei confronti di Giovanni Battista, per aver affermato che il suo matrimonio fosse illegale. La figlia della principessa aveva danzato per Erode Antipa in occasione del suo compleanno, e l’uomo rimase talmente ammaliato da dire: «Qualsiasi cosa mi chiederai, te la darò, fino alla metà del mio regno.» Confrontatasi con la madre, la donna chiese su un piatto la testa di Giovanni. Il re ne fu dispiaciuto, ma volle mantenere la promessa e mandò un boia a decapitare l’uomo. Il Vangelo di Matteo conferma i particolari della vicenda, ma alcune versioni greche del Vangelo di Marco lasciano intendere, forse per errore, che fosse Erodiade stessa la danzatrice.

Il nome di Salomè compare infine in qualità di discepola di Gesù, testimone della crocifissione in Marco 15:40, mentre nel Libro apocrifo della Resurrezione di Cristo, attribuito all’apostolo Bartolomeo, si dice che la tentatrice Salomè fu tra le donne che si recarono al sepolcro vuoto.

Seguendo il Dizionario delle antichità greche e romane del linguista William Smith, non stupisce la confusione: nella dinastia erodiana, vi erano almeno tre donne chiamate Salomè, ovvero la sorella di Erode il Grande, la figlia di quest’ultimo e la figlia di Erodiade.

 

Come simbolo nell’arte

 

In seguito, per l’episodio a cui viene associata, Salomè divenne la personificazione della donna lasciva e tentatrice, che allontana gli uomini dalla salvezza. Non si conosce la natura della sua danza, ma nell’iconografia cristiana vengono sottolineati gli aspetti erotici, nonché la freddezza di una donna pronta a tutto pur di soddisfare la madre. Poche interpretazioni si concentrano, invece, sui dati forniti da Flavio Giuseppe, il quale indica che Salomè si sposò due volte e crebbe diversi figli.

In genere, l’arte ci consegna la figura di una donna vestita con abiti riccamente decorati, che con una mano regge il piatto con la testa mozzata. Non sempre è risolta l’ambiguità tra Salomè e Erodiade, e talvolta la rappresentazione può confondersi con l’episodio di Giuditta che decapita Oloferne. Gustav Klimt, per esempio, giocò su questa ambiguità in Giuditta I (1901) e in Giuditta II (1909), in cui la donna del titolo, considerata pia nelle Sacre Scritture, diviene figura di efferata crudeltà, rifacendosi proprio alla figlia di Erodiade.

Vale la pena notare un fatto curioso: Salomè non compie l’atto della decapitazione e non danza in maniera macabra con la testa sul piatto, eppure viene ritratta in un’accezione negativa per il fatto di aver agito passivamente alle richieste della madre. Al contrario, Giuditta compie in prima persona la decapitazione: non nella maniera “chirurgica” del boia, ma con rabbia e violenza; tuttavia, è motivata da una ragione superiore, poiché protegge il suo popolo e uccide il tiranno, e per questo viene elevata allo status di eroina. Giuditta è temuta per la sua forza d’animo e la sua risolutezza, mentre a Salomè vengono attribuiti poteri seduttivi posticci per giustificare la mancanza di carattere di Erode e per rivelare una misoginia non troppo latente.

 

Prima che la rappresentazione di Salomè fosse congelata nella figura della danzatrice, Masolino da Panicale la ritrae in un affresco del 1435 del Battistero di Castiglione Olona, in provincia di Varese, denominato Banchetto di Erode, parte del ciclo di Storie di San Giovanni. La scena è divisa da uno scorcio centrale secondo le regole della prospettiva lineare centrica: a sinistra, troviamo il banchetto con Erode a capotavola; a destra, invece, vediamo Salomè che consegna la testa a Erodiade, mentre una fanciulla dai lineamenti fini si ritrae orripilata.

Nel ciclo di Storie di San Giovanni Battista (1453-1466) di Filippo Lippi, Salomè è ritratta danzante: il panneggio trasforma il vestito bianco in una nuvola angelica e i due nastri alle spalle della donna contribuiscono al movimento sinuoso del corpo. L’espressione del volto appare quasi triste e mancano elementi seduttivi. Al contrario, ne La danza di Salomè (1461-62) di Benozzo Gozzoli, conservata alla National Gallery of Art di Washington DC, sono i colori caldi e l’oro a sedurre l’osservatore, prima ancora che la figura femminile. Nella rappresentazione, si avverte qualcosa di losco, che in effetti avviene a sinistra, nella scena appartata della decapitazione.

 

Decenni dopo, si accresce il gusto per il macabro e per i particolari dei volti, che mirano a riflettere l’animo del soggetto. In Salomè con la testa del Battista (1527 ca) di Bernardino Luini, il dipinto mostra la complicità tra la donna e la vecchia madre, in uno scambio silenzioso e in un mezzo sorriso leonardesco. La vecchia, pur raffigurata con notevole realismo, appare al contempo come un simbolo, un fantasma della cattiva coscienza che grava sulle spalle della protagonista.

Al Museo Nacional de Arte Antiga di Lisbona, troviamo invece la Salomè (1510 ca) di Lucas Cranach il Vecchio: i dettagli anatomici della testa decapitata sono ancora più precisi e l’artista sceglie di far parlare gli abiti della donna, esprimendo tramite questi un senso di lussuria.

La Salomè (1515 ca) di Tiziano, realizzata pochi anni dopo e conservata alla Galleria Doria Pamphilij di Roma, riprende gli elementi indiretti sulla natura della donna, enfatizzando il contrasto tra il volto innocente della giovane e la testa mozzata.

Anche Caravaggio si cimentò sul soggetto, in più di una versione: nella Salomè con la testa del Battista (1609 ca), conservata al Palazzo reale di Madrid, la protagonista viene mostrata pensierosa, quasi preoccupata, con occhiaie e rughe che sembrano indicarne il tormento interiore. Dietro di lei, mortifera, la madre emerge dal busto di Salomè contribuendo a creare l’impressione di una figura bicefala.

 

Dal Seicento, cominciano a diffondersi le versioni orientaleggianti della scena, incentrate sugli abiti e sul trucco della donna. Così è la Salomè con la testa del Battista (1630-35) di Guido Reni, in cui il copricapo e le guance rosate della protagonista rubano la scena alla testa decapitata, pure offerta in omaggio all’osservatore.

Si indagano poi nuovi punti di vista, per esempio ne La decollazione di Giovanni il Battista (1640 ca) di Carel Fabritius: l’impostazione luministica rembrandtiana mette al centro la figura del boia, ma, ancora una volta, è Salomè, a destra, a rubare la scena. A ben guardare, la donna è più vecchia dell’età apparente, definita dalle piume sulla testa e dalla posa bisbetica. Alle sue spalle, a completare l’opera, la madre osserva la testa sul piatto, come per accertarsi sulla qualità del lavoro.

Gli orientalismi esplodono a Ottocento inoltrato, nelle pregevoli versioni di Henri Regnault (Salomè, 1870) e di Georges Antoine Rochegrosse (): sono donne che impugnano le lame, che guardano l’osservatore con maggiore consapevolezza e con aria di sfida. Non hanno più bisogno di un boia che faccia il lavoro sporco: sono loro al centro della scena, quali donne libere, o pronte a tutto per esserlo.

 

Tra Ottocento e Novecento, questo filone sembra diramarsi in due diversi sviluppi. Le versioni di Henry Ossawa Tanner e di Franz von Stuck (1906) ci mostrano personalità pericolose e asfissianti, che emanano un’aura oscura tale da impregnare le ambientazioni. I volti sono in ombra, i sorrisi appena percepibili, perché a dominare la scena sono i corpi seminudi, vero nucleo di una rappresentazione a tratti ossessiva.

Altre opere, come quelle di Lovis Corinth (1900) e di Federico Beltran-Masses (1910), proseguono il filone erotico, ma lo declinano in una maniera meno velenosa: sono donne libere e fiere, e per questo temibili, ammantate da un’aura autoritaria del tutto peculiare.

Infine, tra le innumerevoli versioni del soggetto, bisogna citare a parte la produzione di Gustave Moreau, definito “il pittore delle Salomè”, poiché riprese il tema diverse volte. Con motivi simbolisti, medievali e nordici, egli declinò in forma personale il motivo della femme fatale di moda durante il Decadentismo. In controtendenza, Moreau spoglia la donna della sua carica erotica e la riporta a una dimensione di innocenza, che tuttavia contrasta con il suo ruolo perverso. È un angelo caduto che diventa sacerdotessa di un male di cui non ha il controllo.

 

Nelle altre arti dall’Ottocento a oggi

 

Ho dato ampio spazio alla rappresentazione di Salomè nell’arte, ma la figura venne affrontata nella letteratura, nella musica e nel cinema, con alcuni esiti di rilievo.

È nel racconto Erodiade (1877) di Gustave Flaubert che divenne comune chiamare Salomè la donna legata all’episodio di Giovanni Battista. Lo scrittore francese attribuisce la responsabilità della decapitazione alla madre e ai sacerdoti, che temono il potere religioso di Giovanni. Salomè è raccontata come una ragazza fedele alla madre, che dimentica persino il nome dell’uomo di cui chiede la testa. Pochi anni dopo, l’opera Hérodiade (1881) di Jules Massenet, ispirata proprio a Flaubert, seguiva la medesima chiave di lettura.

 

Le arti si influenzano e, nel 1884, venne pubblicato il romanzo À rebours (Controcorrente) di Joris-Karl Huysmans, emblema della letteratura decadentista, in cui viene citato il dipinto di Moreau. Lo scrittore definisce la protagonista del dipinto «l’incarnazione simbolica dell’antico Vizio, la dea dell’immortale Isteria, la Maledizione della Bellezza suprema su tutte le altre bellezze dallo spasmo catalettico che agita la sua carne e rinforza i suoi muscoli, – una mostruosa Bestia dell’Apocalisse, indifferente, irresponsabile, insensibile, avvelenante.»

La tragedia di Oscar Wilde, Salomè (1892), consacrò l’immagine di questa donna quale temibile femme fatale. Nell’opera simbolista, la protagonista nutre fantasie perverse nei confronti di Giovanni Battista e lo fa giustiziare a séguito di un rifiuto. Nel finale, Salomè si spinge persino a baciare la testa mozzata dell’uomo.

A chiudere il secolo, merita una menzione la poesia Salomè (1896) di Costantino Kavafis, in cui la donna tenta di attirare l’interesse di un giovane sofista facendo morire Giovanni. Il sofista riceve da Salomè la testa del santo, ma commenta scherzosamente di preferire quella della donna, la quale, infatuata dell’uomo, si lascia decapitare.

 

Nella prima metà del Novecento, la figura di Salomè continua a influenzare le arti. Richard Strauss si ispirò a Wilde per realizzare una sua opera, presentata nel 1905 a Dresda, e resa famosa dalla Danza dei sette veli. Poco dopo, nel 1907, Florent Schmitt creò un balletto dedicato alla storia di Salomè e, l’anno successivo, Antoine Mariotte realizzò un’altra opera basata sul testo di Wilde.

Negli anni Trenta, all’interno del ciclo di Conan il Barbaro, Robert E. Howard scrisse il racconto A Witch Shall Be Born (1934): qui compare una malvagia strega preistorica chiamata Salomè e, nel testo, emerge l’idea che in ogni secolo sia nata una strega con tale nome, che ha intrappolato i cuori degli uomini e ha fatto cadere le teste dei saggi a suo piacimento.

La donna è stata al centro di molte altre produzioni, anche in àmbito cinematografico, con la famosa interpretazione di Rita Hayworth nel film Salomè del 1953. Infine, nel teatro, si ricorda la rivisitazione moderna della storia operata dal drammaturgo Doric Wilson in Now She Dances! del 1961.

 

Salomè in Carl Gustav Jung

 

Carl Gustav Jung trasformò Salomè in una personificazione del piacere all’interno del suo Libro Rosso. Interagendo con lei, Jung apprende come abbia trascurato il lato emotivo della sua personalità e come sia difficile accettare quella parte di sé.

Nel Liber Primus, egli entra in una casa in cui si trovano il vecchio Elia, accompagnato da un serpente nero, e la figlia Salomè, che risulta essere cieca. Jung si domanda se non sia invece la figlia di Erode, che definisce «assetata di sangue», ma Elia lo ammonisce a non giudicarla. Questi sostiene che i due siano uniti fin dall’inizio e che vi sia un legame tra la sua capacità profetica di vedere e la cecità di Salomè. La donna domanda a Jung se la ami e questi risponde indignato. Elia lo invita a riflettere sul fatto che Salomè amasse Giovanni Battista, un profeta come lui. Jung entra in uno stato di angoscia e si domanda come possano convivere due realtà opposte.

 

Nei Ricordi, Jung definisce Salomè una rappresentazione dell’Anima, cieca perché incapace di vedere il significato delle cose. Elia, invece, è la personificazione del vecchio saggio, del Logos, laddove Salomè rappresenta l’Eros. In Mysterium coniunctionis (1955-56) precisa: «Ho inteso con Logos la facoltà di discriminare, giudicare e riconoscere, e con Eros la capacità di “porre in relazione”.»

Il prepensare viene accostato a Prometeo, colui che dà forma all’elemento caotico; il piacere è però la forza che desidera e mette in movimento il prepensiero. «Non giova nascondersi nel pensiero», scrive Jung, perché ci si irrigidisce: per un rinnovamento, è necessario il prepensare materno, che conduce a Salomè: «Il pensatore sente il lato ripugnante presente nel sentimento, poiché il suo sentimento è principalmente ripugnante. Colui che sente si immagina invece il lato ripugnante dei pensieri, poiché il suo pensare è principalmente ripugnante. Dunque il serpente si pone in mezzo tra chi pensa e chi sente. Entrambi sono veleno e guarigione l’uno per l’altro.» Per presagire la totalità, è necessario abbracciare il principio opposto, ovvero – nel caso di Jung – amare Salomè.

 

La notte seguente, il nuovo incontro con i due fa comprendere a Jung che il confluire del prepensiero nel piacere faccia nascere il Dio e che il Dio in lui intendesse farsi uomo. Elia e Salomè gli sorridono perché sono lieti del suo arrivo, per quanto egli tremi ancora per il fatto di trovarsi nella più profonda oscurità. Salomè gli rivela di essere sua sorella e che la loro madre è Maria. Sorpreso in un primo momento, Jung comprende che Maria rappresenti colei che è senza colpa, l’amore e non il piacere, e scrive: «Da pensatore ho osservato le cose dal punto di vista del mio pensare, altrimenti avrei potuto comprendere che Salomè, in quanto figlia di Elia, è un prodotto del pensare, e non il principio stesso, che ora appare sotto forma di Maria, l’immacolata Vergine Madre.»

 

Nel Liber Secundus, Salomè riacquista la vista e Elia la dà in sposa a Jung, il quale la rifiuta. Egli sostiene di avere già sulle spalle il peso del proprio destino e di non avere la forza per caricare anche la parte di Salomè. Elia conferma che ciascuno debba portare il proprio fardello, che ognuno debba appartenere prima di tutto a se stesso. In definitiva, il dono di Salomè di offrirsi all’uomo non deve essere guidato dal desiderio, bensì dalla pienezza. Così conclude Jung: «Salomè, io ti ringrazio per il tuo amore. Se mi ami davvero, danza dinanzi alla folla, cerca di piacere alla gente, in modo che essa elogi la tua bellezza e la tua bravura. E se avrai un ricco bottino, gettami dalla finestra una delle tue rose, e quando traboccherà la fonte della gioia, danza e canta una volta anche per me. Io desidero la gioia degli uomini, la loro sazietà e il loro appagamento, e non il loro stato di bisogno.»

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