Bookstagrammer. Il divario tra visibilità e qualità
Non parlerò dei grandi bookstagrammer, da decine di migliaia di follower. In questo caso capacità, lungimiranza e abilità nel progettare hanno reso possibile la creazione di profili di libri eccezionali. Che stimolano la lettura, anche di titoli meno noti, con un’attenzione particolare ai contenuti scritti e visuali. Questa cura non è solo frutto dell’ingegno, ma anche degli investimenti, un fattore che la gran parte di coloro che desiderano avere successo sui social dimentica.
Si potrebbe qui parlare dei libri intesi come merce e del
fatto che essi abbiano un valore più estetico, figurativo, che sostanziale. Il
fattore popolarità passa attraverso la visibilità dell’oggetto-libro, dal
momento che il suo contenuto è meno immediato da mostrare e tende a rimanere
nell’animo di chi legge. Ma nei casi virtuosi dei bookstagrammer, quelli da
decine di migliaia di follower, tale aspetto risulta secondario, a maggior
ragione in un Paese in cui la lettura è una chimera per i più e questi stimoli
possono solo giovare.
Opera di Jonathan Wolstenholme |
Parlerò invece dello sterminato mondo delle pagine di libri
da centinaia o poche migliaia di follower, che pure insieme influiscono su un
sistema.
Molti lettori, appassionati di storia, arte e letteratura
hanno pensato di aprire un nuovo profilo su Instagram. Prendendo un interesse,
hanno così creato l’ennesima pagina standardizzata a tema, senza una
progettazione o una vaga idea su come impostarla. Data la facilità di una tale
creazione, altrettanto semplice risulta ispirarsi a un modello. E i modelli
diventano proprio quelle pagine di successo, che dettano le linee guida a tutta
la categoria. Con il risultato di generare profili derivativi, che in modo
impacciato ricalcano gli originali, come in una posa artificiale, alla quale
tuttavia si crede per davvero.
Dicevo, tanti amanti della lettura sui social hanno
pensato almeno una volta di creare una pagina di libri. Personalmente, ho
frenato l’impulso dopo una serie di considerazioni.
Per prima cosa, ci sarebbe da aprire una grande parentesi
sulla fastidiosissima omogeneità delle letture da profilo a profilo. Non è solo
una questione che riguardi i social: p. es. nella biblioteca in cui lavoro, che
conta ben oltre centomila libri, le persone prendono in prestito sempre gli
stessi venti/trenta libri. Che noia. E così, solo poche pagine propongono di
tanto in tanto temi nuovi, inesplorati e non banali, ma sono l’eccezione e non
vi è purtroppo costanza in questa scelta.
Anche dal punto di vista visivo l’omogeneità si ripete, ma
qui si può riconoscere la buona volontà di alcune pagine nel reinventarsi e nel
tentare una via più indipendente rispetto agli standard.
Concentriamoci però sulla nota più dolente di tutte. Le
recensioni. Tralasciamo il fatto che per alcuni una recensione equivalga a
redigere quattro righe su un libro, confondendo la critica letteraria con il
gusto personale. Certo, una pagina può benissimo limitarsi a proporre libri
basati sul binomio mi piace/non mi piace, appare tuttavia insopportabile l’appropriazione
indebita del termine “recensione”. Semplici riassunti, magari ripresi da
Wikipedia; lettura veloce che non permette nemmeno di ricordare i personaggi
secondari.
Inoltre, ammetto di non essere in grado di capire come si
possano sfornare recensioni e opinioni sui libri al ritmo di una catena di
montaggio ottocentesca degna del peggior sfruttamento del lavoro minorile
dickensiano. (Perdonate il lungo sfogo senza punteggiatura).
Ma forse è un limite personale. Solo se fossi pagato per
farlo e fosse a tutti gli effetti il mio lavoro, potrei immaginare di
trascorrere intere giornate a leggere e leggere, per poi recensire. Altrimenti
è davvero difficile comprendere dove si trovi il tempo necessario per farlo.
Se avessi un profilo dedicato ai libri, farei recensioni di
titoli poco conosciuti; non seguirei i trend di lettura a meno che non mi
interessi quel dato libro. E, soprattutto, scriverei due o tre recensioni al
mese, o poco più, ma nella forma di analisi minuziose (e che in realtà
richiederebbero lo spazio di un blog o di un canale dedicato).
Recensioni che – ancora una volta – richiedono energie, di
fronte alle quali si impone una scelta di priorità. Sia per una gestione
proficua del proprio tempo personale, sia per il rispetto verso chi quel tempo
lo dedica a ciò che condividiamo.
Certo, la merce di oggi non è solo l’oggetto in sé, quanto
la popolarità che può generare. E la facilità di questo sistema, che non
richiede per forza una grande qualità di contenuti per essere notati, svilisce
chi ci mette l’impegno e appiattisce il senso critico di chi fruisce.
Il discorso può ovviamente estendersi ad altri prodotti, come nell’ambito del giornalismo musicale, della cosmetica, dell’alimentazione, del fitness, etc. Nella corsa alla visibilità, che viene prima dei contenuti, le varie testate e i vari singoli profili monetizzano (quando ci riescono) con le visualizzazioni. Finché rimarrà questo sistema, permarrà la morte dei contenuti.
Ho comunque notato che anche i più arguti (arguti, non
capaci) recensori del web, pur impiegando una retorica più complessa e
articolata, di fatto non facciano altro che esprimere opinioni. Insomma, non
stanno proponendo una critica in senso stretto, non stanno analizzando l’opera
e non ne stanno cogliendo l’essenza. Stanno solo esprimendo suggestioni
personali, integrandole a loro riflessioni, il più delle volte estranee alle
intenzioni stesse dell’autore.
E allora mi fermo qui. E penso che in effetti queste pagine
abbiano la necessità di pubblicare di continuo, per rimanere in testa nelle
visualizzazioni, per mantenere vivo lo scambio con i follower. Riprendendo il
più citato e abusato dei nostri tempi: “Parlarne bene o parlarne male non
importa, purché se ne parli”.
O meglio, non importa tanto mostrare contenuti di qualità o
originali, quanto essere visibili a prescindere. Ma, per carità, sempre con
eccezioni, affinché chi si senta coinvolto da queste parole possa comunque
ritenersi l’anomalo virtuoso.
Son d'accordo con tutto l'articolo: penso che le cosidette "recensioni", forse dovrebbe essere definite "commenti"!
RispondiEliminaE anche i commenti comportano un minimo sforzo intellettuale (penso, ad esempio, a descrivere lo stile di un'opera, i suoi personaggi e via dicendo), ma sono lontani anni luce da una critica vera e propria.
Sì, si potrebbero chiamare commenti; io nelle mie due rubriche le ho definite "impressioni", proprio perché non voglio avere alcuna pretesa, riconoscendo di non avere abbastanza tempo - al momento - da dedicare alle analisi propriamente critiche.
Elimina