Disordine mondiale. Memorie del Coronavirus. Parte V
Pieter Bruegel il Vecchio, Triumph of Death (1562 ca) |
Nuove fake news
Non solo si
susseguirono per tutto il mese di marzo una serie di fake news, ma numerosi furono anche i titoli tendenziosi e gli
isterismi provocati dal prolungamento della quarantena.
Furono talmente
tante queste notizie che farne un resoconto completo sarebbe dispersivo e alla
lunga anche noioso. Ho però voluto riportarne alcune, partendo dall’Italia e
spostandomi a livello internazionale, ad indicare come ormai la pandemia avesse
coinvolto effettivamente una gran parte del mondo, portando con sé il panico
che noi italiani avevamo già sperimentato a fine febbraio. Certe nazioni, come
gli Stati Uniti, erano in effetti settimane dietro a noi rispetto alla
diffusione del Coronavirus e dunque osservare le loro reazioni sociali fu un
po’ come guardarsi indietro, a ciò che noi avevamo già trascorso, a partire
dalla discriminazione degli orientali allo scetticismo rispetto a questo nemico
invisibile.
Parliamo però
delle fake news. Il 23 marzo, il
virologo Roberto Burioni – figura ormai nota sui media da alcuni anni – scrisse
un tweet riportando l’ultima bufala in circolazione, ovvero che il Coronavirus
non colpisse gli extra-comunitari poiché erano stati vaccinati contro la
tubercolosi. Con ironia, Burioni invitò i più temerari a raggiungerlo al San
Raffaele di Milano, per controllare di persona come ciò non fosse vero.
Oltretutto, la TBC era ed è dovuta ad un batterio e non a un virus.
La sua attività
di debunker era quanto mai necessaria, unitamente ad altri siti
anti-bufale che in questi mesi ebbero molto da fare. In precedenza, in un altro
tweet, il ricercatore aveva allargato il discorso con queste parole esaustive:
«Il farmaco russo, il preparato giapponese, la vitamina C, la pericolosità
dell'ibuprofen, i proclami sugli ACE inibitori che i somari scrivono ECA hanno
una cosa in comune: sono tutte scemenze. Le novità vi arriveranno dalle
autorità sanitarie, non dai social o da YouTube».
La bufala
italiana forse più clamorosa riguarda però un video circolato nell’ultima
settimana di marzo: un servizio del ‘Tgr Leonardo’ che faceva riferimento a un
Coronavirus prodotto nei laboratori cinesi, attraverso topi e pipistrelli, e
che divenne virale su chat e social. A cavalcare la presunta notizia si schierò
in prima fila la ‘Lega’, ma alla lunga l’effetto che ottenne fu probabilmente
più negativo che altro. Il servizio, infatti, era un approfondimento di ben
cinque anni prima e l’argomento trattato si riferiva alle ricerche aggiornate
ovviamente a quella data.
Ancora una
volta, Burioni scrisse per assicurare che il Coronavirus avesse una derivazione
naturale al 100%, spiegando che l’ipotesi di un esperimento di laboratorio era
stata nel frattempo smentita, per esempio in uno studio pubblicato su Nature
Medicine, secondo cui le analisi mostravano che il virus non avesse alcuna
origine artificiale.
Anche la
virologa Ilaria Capua, direttrice del ‘One Health Center of Excellence’
dell’Università della Florida, intervistata al ‘Tg1’ confermò che il Covid-19
derivasse sicuramente dal «serbatoio selvatico» e che comunque il programma non
stesse parlando del Sars-CoV-2. Ad ogni modo, tutta la faccenda fu ben
ricostruita da un articolo di David Puente su ‘Open’, dal titolo Il video di TGR Leonardo del 2015 e il
coronavirus ingegnerizzato in laboratorio: non è il Sars-cov-2.
Sappiamo però
che nemmeno le rassicurazioni degli esperti, suffragate da dati scientifici,
possono fare nulla di fronte al complottismo e al concetto che era ormai sempre
più diffuso del “diteci la verità”. Il vero aspetto curioso era che proprio in
Italia la comunicazione del governo e delle istituzioni era subito stata
piuttosto trasparente, forse anche troppo secondo alcuni analisti, tanto più al
confronto con tanti altri Stati, come la Russia, i cui numeri di contagiati e
di morti era inspiegabilmente basso.
Proseguo quindi
con altre fake news, che
coinvolgevano anche altre nazioni. Intorno al 23 marzo, circolò la notizia che
in Russia il presidente Vladimir Putin avesse liberato per le strade oltre cinquecento
leoni, per costringere le persone a restare in casa. Qui è difficile anche
capire chi potesse credere a qualcosa del genere. La realtà era che l’immagine
che circolava di un leone solo di notte per le strade di una città proveniva da
Johannesburg: il felino, che apparteneva ad una troupe televisiva, si chiamava
Columbus e nel 2016 stava passeggiando per la città sudafricana.
Altre bufale
erano invece più serie, poiché coinvolgevano il rapporto tra Stati e le
considerazioni delle opinioni pubbliche dei Paesi interessati. Mi riferisco a
tutti quei carichi di mascherine, tamponi e respiratori che presumibilmente il
governo italiano stava vendendo ad altri Stati in difficoltà, quando il nostro
Paese doveva invece avere la priorità. Il discorso si può spiegare in due
modalità: innanzitutto, regolarmente circolarono notizie di carichi clandestini
di questi materiali sequestrati dalle forze dell’ordine, che dunque, tutelando
gli italiani, fecero effettivamente in modo che tali materiali rimanessero a disposizione
del Paese. In secondo luogo, è vero che ci furono spedizioni regolari
indirizzate per esempio negli Stati Uniti. Ma di che cosa e perché? Intorno al
20 marzo si parlò di tamponi inviati negli Stati Uniti da Brescia. Era tutto
vero, ma non c’era alcuno scandalo: l’azienda che li produceva ne aveva già
forniti oltre un milione all’Italia e stava al contempo rispettando ulteriori
commissioni estere. In Italia non c’era infatti il problema del numero dei
tamponi a disposizione, bensì la difficoltà di analizzarli in tempi rapidi,
poiché la capacità dei laboratori era al limite, considerando che non dovevano
occuparsi soltanto di tali analisi.
Queste dunque
alcune delle notizie più virali della seconda metà di marzo: le notizie false
erano talmente tante che sul sito del Ministero della Salute italiano si creò
una sezione dedicata alle bufale. Eccone alcune: i gargarismi con la candeggina
proteggono dal Coronavirus; i bambini non possono essere contagiati;
correlazione tra l’epidemia e la rete 5G (per assenza di ricerche a sostegno e
perché gli studi attuali non segnalano alcuna correlazione causale); mangiare
aglio può aiutare a prevenire l’infezione (basandosi sulle sue proprietà
antimicrobiche, ma senza evidenze scientifiche legate al Coronavirus); bere
acqua, bevande calde o alcoliche uccide il virus. E via discorrendo per molte
altre bufale.
Le notizie di
questo genere erano all’ordine del giorno. Alcune erano talmente fantasiose e
assurde che ci si domanda come qualcuno potesse crederci e ricondividerle.
Proprio per la loro assurdità non potevano che nascere spesso dalla noia o
dalla malafede di qualcuno.
In altri casi,
le notizie erano tristemente vere ed erano proprio il frutto della
disinformazione e dell’isteria che essa contribuiva ad accrescere. Un articolo
del 23 marzo di Erika Edwards e Vaughn Hillyard su ‘NBC News’ titolava Man dies after taking chloroquine in an
attempt to prevent coronavirus.
La clorochina
era infatti uno dei vari farmaci studiati dagli scienziati in tutto il mondo,
nel tentativo di riuscire a trovare una cura. Clorochina o idrossiclorochina
erano infatti antimalarici impiegati da oltre mezzo secolo e utilizzati
soprattutto in Francia per trattare i pazienti affetti da Covid-19: a fine
marzo, stavano però emergendo diversi problemi, tra cui disturbi del ritmo del
cuore e arresti cardiaci che in alcuni casi portarono alla morte dei pazienti.
Si cominciarono ad utilizzare anche farmaci anti-Hiv, perché stavano dando
indizi incoraggianti per la terapia, ma il fatto era che mancavano i risultati
degli studi clinici avviati dall’Agenzia del farmaco.
La cura non era
ancora stata trovata e il fai-da-te doveva essere evitato, perché significava
giocare con la propria vita. Come scrisse ancora Burioni, a proposito del
farmaco antimalarico Plaquenil: «In mancanza di studi clinici è sbagliato
assumere questo farmaco, anche perché poi non è disponibile per chi ne ha
davvero bisogno».
La pandemia
Come scritto in
precedenza, l’Organizzazione Mondiale della Sanità, con le parole del direttore
generale Tedros Adhanom Ghebreyesus, aveva dichiarato ufficialmente lo stato di
pandemia l’11 marzo.
Da metà mese, il
Coronavirus divenne nei fatti un problema di tutti. Fare un riepilogo della
situazione in ogni nazione sarebbe dispersivo, per questa ragione mi limiterò a
brevi descrizioni di alcuni Stati in particolare.
Al 2 aprile, i
dati internazionali sul numero di contagiati, di guariti e di morti non
corrispondevano in tutti gli istituti che si occupavano di queste informazioni.
Cito dunque alcune fonti affidabili e impiegate maggiormente dai media. Secondo
l’OMS, c’erano circa 900mila infetti (altre cifre facevano salire il numero
oltre il milione), di cui circa mezzo milione in Europa, e 46mila decessi:
secondo la statunitense John Hopkins University, le vittime salivano oltre i
51.500. Sempre per la JHU, i guariti si attestavano poco oltre i 200mila.
Infine, circa quattro miliardi di persone erano costrette a vivere in
quarantena.
Facciamo però il
punto sulla situazione internazionale citando alcuni casi eloquenti. In Corea
del Sud i contagi stavano calando da settimane, dopo aver superato le diecimila
unità, con un numero di morti inferiore ai duecento. Altri Stati asiatici erano
ricorsi alla quarantena, come Thailandia e Filippine.
In quest’ultimo
caso, il presidente Rodrigo Duterte ordinò alle forze dell’ordine di sparare
per uccidere chiunque avesse creato disordini. Fortunatamente il capo della
polizia, Archie Gamboa, comunicò che gli agenti non avrebbero rispettato
l’ordine, sostenendo che il presidente si fosse fatto prendere troppo la mano.
La minaccia sembrava ispirata da una protesta scoppiata a Quezon City,
sull’isola di Luzon, per chiedere aiuti al governo: Duterte affermò che, pur in
ritardo, il governo sarebbe intervenuto per non far morire nessuno di fame.
Preoccupante
anche il caso dell’Indonesia, che ai primi di aprile aveva raggiunto il maggior
numero di vittime registrate in Asia dopo la Cina (circa 170). Inoltre,
migliaia di detenuti furono liberati per impedire la diffusione del virus, in
carceri che nel sud-est asiatico soffrivano particolarmente per le precarie
condizioni igieniche. L’ordine di rilascio comprendeva minorenni e detenuti
adulti che avevano scontato almeno i due terzi della pena.
In Australia,
invece, i contagi erano saliti oltre le cinquemila unità, ma la situazione era
tenuta sotto controllo. Interessante anche l’iniziativa della tv pubblica
australiana, la ABC, di iniziare a trasmettere lezioni di materie scientifiche
da metà aprile, avvalendosi di insegnanti qualificati e finanziati in parte dai
dipartimenti dell’istruzione del New South Wales e del Victoria. L’ABC avrebbe
offerto migliaia di video gratuiti e risorse interattive, in linea con il
curriculum nazionale.
In Iran, che era
uno dei principali focolai internazionali a marzo, ai primi di aprile il
bilancio si attestava su circa 50mila casi di contagi e oltre tremila morti: al
confronto con l’Europa, dunque, la situazione sembrava in leggero
miglioramento.
Crescevano
invece i numeri in Israele: anche il primo ministro Benjamin Netanyahu si era
posto in isolamento, per poi ritornarvi una seconda volta, a causa della
positività al Coronavirus da parte del ministro della Salute, Yaakov Litzman.
Come Netanyahu, anche Yossi Cohen, a capo del Mossad, fu costretto
all’auto-isolamento, per aver incontrato in quel periodo Litzman.
Anche nel Centro
e nel Sud America, cominciarono ad essere estese le quarantene e i coprifuoco,
con critiche in particolare al Brasile per il fatto di non fornire i dati
completi e reali della diffusione del Coronavirus. Il presidente Jair
Bolsonaro, infatti, non aveva ancora stabilito la quarantena, continuando con
la retorica che il virus fosse poco più che un’influenza. Per il primo ministro,
il Brasile non poteva permettersi la chiusura, con il rischio di cadere nella
spirale di violenza in cui era già caduto il Venezuela in tempi recenti.
Ma il Brasile
non era il solo a temporeggiare: il Messico era entrato in quarantena solo il
31 marzo, mentre in Guatemala si annunciò persino una marcia “L’amore ai tempi
del Covid-19”.
Se già in Italia
e in Europa la chiusura (quasi) totale di ogni attività stava mettendo a dura
prova i lavoratori, nelle Americhe la situazione era ancora più grave, sia per la
povertà diffusa in alcune aree sia per il debole sostegno da parte degli Stati
a livello socio-sanitario.
Nel continente
africano, la situazione sembrava apparentemente migliore. In realtà, il rischio
continuava a crescere, concentrandosi soprattutto in alcune aree, come il Nord
Africa, la zona costiera dalla Costa d’Avorio al Ghana e il Sudafrica. Un
articolo su ‘Open’ del 2 aprile, a firma di Giulia Marchina, titolava: Senza aiuti l’Africa rischia di «diventare
un’incubatrice» per il Coronavirus: l’epidemia potrebbe tornare in Europa.
L’articolo riportava grafici interessanti sulla diffusione del Covid-19 in
Africa: l’OMS aveva dichiarato che il continente sarebbe stato completamente
colpito e le Nazioni Unite avevano stimato in tre trilioni di dollari gli aiuti
economici necessari per sostenere i Paesi in via di sviluppo. Anche tenendo
conto di quanto stava accadendo in Cina, con la ripresa parziale della
quarantena, si sosteneva che una volta domata l’epidemia in Europa, questa
sarebbe potuta ritornare proprio dall’Africa.
Concludo questa
sintesi internazionale parlando di Russia, Stati Uniti e Cina. Sempre ai primi
di aprile, in Russia i casi confermati erano circa tremilacinquecento, con
trenta morti totali. Ci fu la possibilità che il presidente Vladimir Putin
fosse stato contagiato da un medico, Denis Protsenko, che lo aveva visitato una
settimana prima, ma – sottoposto ai test – Putin risultò negativo.
Nel frattempo,
il 25 marzo, aveva già parlato alla nazione, annunciando il rinvio del referendum
sulla riforma costituzionale, che era previsto per il 22 aprile: la modifica
prevedeva un limite complessivo di due mandati per ciascun presidente,
conteggiati dal momento dell’approvazione della legge. In questo modo, la
riforma avrebbe permesso a Putin di candidarsi nuovamente alla presidenza, pur
essendo al suo secondo mandato.
In questa fase,
la Russia continuava ad aiutare altri Paesi in difficoltà, come l’Italia, non
senza ovviamente un ritorno in termini di immagine pubblica. Fece anche notizia
l’invio russo di materiale medico agli Stati Uniti, che il presidente Donald
Trump riconobbe come un bel gesto, sottolineando che anche gli Stati Uniti
stessero fornendo sostegno ad altre nazioni.
La situazione
degli USA era piuttosto grave: si superarono le mille morti giornaliere, con un
dato ancora peggiore di quello italiano, che il 27 marzo aveva toccato i 969
morti. I contagiati erano oltre le 240mila unità; le vittime circa seimila. Il
2 aprile, ci fu anche un picco riguardante le richieste di sussidi alla
disoccupazione. Le misure adottate dagli Stati Uniti mettevano in campo molti
miliardi, ma a livello di contenimento la situazione era preoccupante, perché
le chiusure erano parziali e divise a macchia di leopardo a seconda dello
Stato. Tra le città in maggiore difficoltà c’era New York.
Gli Stati Uniti
si ritrovarono ad affrontare questa emergenza con un sistema sanitario che
storicamente discriminava i pazienti sulla base di una assicurazione, dunque in
base al fattore ricchezza/povertà. In quei giorni mi capitò di leggere un dato
sulla guerra in Iraq. Al principio del conflitto era stata prevista una spesa
di quaranta miliardi, che alla fine della guerra era salita ben oltre i
duecento miliardi. Il ‘New York Times’ aveva scritto a suo tempo che il governo
avrebbe reperito i soldi dai fondi destinati alla previdenza sociale.
Tutto questo mi
fece pensare a quanto fosse costoso mantenere una nazione in cima alla catena
alimentare dei diversi Stati. E il costo non era mai solo economico, ma
soprattutto sociale. Era da capire se gli USA avrebbero accettato di pagare il
debito (non solo monetario) contratto dai propri rappresentati legittimamente
eletti, oppure se, alla lunga, avrebbero “cambiato corso”.
I miei pensieri
si intrecciarono ad un’intervista ascoltata su ‘Sky TG24’, dove un giornalista
di ‘Limes’ sosteneva che noi italiani non avremmo dovuto giudicare con il
nostro metro la situazione statunitense, cinese, russa, etc., perché avremmo
confrontato le priorità di potenze egemoni a livello globale con Stati minori
come l’Italia (che a livello di peso politico internazionale era “gregaria”
della NATO a guida USA).
Che cosa
significava questo? Che se una nazione come gli Stati Uniti si fosse fermata
come l’Italia, avrebbe corso il rischio di essere superata da altre potenze.
Nel nostro piccolo, a dire il vero, potevano notare questo sulla nostra pelle,
con il Made in Italy messo a rischio
dalla concorrenza. E nemmeno la Cina aveva mai bloccato totalmente l’intera
nazione: aveva chiuso una regione con il numero di abitanti dell’Italia – era
vero – ma sull’ordine di un miliardo di cittadini complessivi.
Qualcuno allora
avrebbe potuto dire che la salute doveva venire prima degli interessi
economico-politici. Sì e no: dipendeva da quale nazione dovesse compiere questa
scelta, se avessimo voluto guardare la realtà e non la pura teoria. Perché che
cosa sarebbe accaduto agli Stati Uniti se avessero perso la loro egemonia
globale nei dieci anni successivi? I numeri dei morti per Coronavirus sarebbero
stati probabilmente nulla al confronto.
C’era, infine,
la situazione della Cina. La provincia dell’Hubei e il capoluogo Wuhan,
epicentro della pandemia, stavano sperimentando da alcuni giorni un graduale
ritorno alla normalità. Ai primi di aprile, tuttavia, la contea di Jia, nella
provincia dell’Henan, confinante a sud con l’Hubei, fu costretta ad introdurre
una serie di restrizioni per la diffusione di nuovi contagi. L’obiettivo
primario della Cina era infatti stroncare sul nascere la possibilità di un
cosiddetto “contagio di ritorno”.
Il 28 marzo,
uscì su ‘The Atlantic’ un articolo di Timothy McLaughlin dal titolo: Get Used to It: This Lockdown Won’t Be the
Last. Il testo si apriva parlando di Hong Kong: la città si era isolata in
modo ottimale dalla fine di gennaio, ma quando a marzo cominciarono a riaprire
alcune attività, i contagiati tornarono a crescere. L’unica certezza era che
dovessimo prepararci ad affrontare, anche in Europa, un ritorno del virus per
“ondate”, cercando di contenere di volta in volta la sua diffusione. L’articolo
riportava poi un’intervista a Gabriel Leung, uno dei maggiori esperti al mondo
sulle epidemie da Coronavirus, che sosteneva che la soluzione sarebbe passata
attraverso questi “cicli successivi” di contenimento, fino al raggiungimento di
un’immunità di gregge o alla scoperta di un vaccino. Dovevamo quindi prendere
atto di questa convivenza forzata con il virus, almeno per diversi mesi a
venire.
L’impasse
economico europeo
Per affrontare
la situazione europea dalla metà di marzo fino ai primi giorni di aprile,
occorre forse partire dalle prese di posizione della BCE. Il 19 marzo, fu
annunciato un nuovo quantitative easing di ben 750 miliardi di euro di titoli,
all’interno del cosiddetto ‘Pandemic Emergency Purchase Programme’ (PEPP). Come
ho raccontato in precedenza, le Borse erano crollate e gli spread stavano
toccando picchi preoccupanti (in Italia in quel periodo superò i 320 punti
percentuali).
La presidente
della BCE, Christine Lagarde, dopo alcune prime dichiarazioni che preoccuparono
i mercati, rilasciò nuovi comunicati per incoraggiarli: «Tempi straordinari
richiedono azioni straordinarie» e «Non ci sono limiti all’impegno della BCE
per l’Euro». In qualche modo si stava confermando la “linea” di Mario Draghi
sintetizzata dalla formula “whatever it takes”.
Il PEPP fu il
frutto di una riunione di emergenza spinta anche dalla Germania e dalla
Francia, in un primo tempo restie ad affrontare la crisi del Coronavirus con le
necessarie aperture a Paesi come l’Italia. D’altra parte, anche i differenziali
di Stati quali Francia e Olanda si stavano allargando. La situazione era
critica per tutti e il 28 giunse anche una triste notizia di cronaca che in
qualche modo contribuì a rendere più cupa la questione: il responsabile delle
finanze del Land dell’Assia, Thomas Schaefer, morì suicida e – secondo le
parole di chi lo conosceva – aveva compiuto il gesto estremo per lo stress
causato dall’emergenza, nell’angoscia di non poter soddisfare le enormi
aspettative della popolazione.
Il 27 si era svolto
un vertice europeo in videoconferenza per discutere i cosiddetti “Coronabond”:
ne era uscita una netta divisione tra l’Europa del Nord e del Sud, la prima
rigorista e per una soluzione della crisi individuale per gli Stati e la
seconda più favorevole ad un debito comune, che permettesse di condividere i
rischi e le risorse.
La cancelliera
tedesca Angela Merkel disse alla fine del vertice: «Ho spiegato che noi
preferiamo il MES come strumento, che è stato fatto per le crisi». Sulla stessa
linea il cancelliere austriaco Sebastian Kurz, la cui affermazione fece molto
discutere in Italia: «Respingiamo una mutualizzazione generalizzata dei
debiti». Con loro, anche Olanda e Finlandia. Queste dichiarazioni fecero certo
il gioco di molti sovranisti e anti-europeisti italiani e a conti fatti questa
era la prova decisiva per la tenuta dell’Euro e soprattutto dell’intera UE.
Se il fronte dei
rigoristi era quanto mai unito, anche all’opposto l’Italia poté contare su una
moltitudine di Stati a favore dei Coronabond, tra cui Spagna, Portogallo,
Belgio, Grecia, Lussemburgo e persino la Francia. L’unica nota positiva, era
che nel frattempo la BCE aveva avviato il PEPP da 750 miliardi.
Ma per capire
più a fondo le posizioni prese dai Paesi europei, è bene precisare che cosa
fossero questi due strumenti, il MES e i Coronabond.
MES (in inglese
ESM) indica il Meccanismo Europeo di Stabilità: creato nel 2012, sostituì il
Fondo europeo di stabilità (Fesf), il cosiddetto “Fondo salva-Stati” del 2010.
I due meccanismi rimasero distinti a livello giuridico e poterono contare su un
capitale teorico di oltre 700 miliardi di euro. Qual era dunque il problema?
Che per utilizzare il MES, uno Stato dovesse sottoporsi a condizioni molto
stringenti, che a lungo termine ne avrebbero potuto impedire l’effettivo
rilancio dell’economia.
I Coronabond,
invece, non erano altro che gli eurobond di cui si era già parlato ai tempi
della precedente crisi economica, tra il 2011 e il 2012, e che erano stati
messi da parte per l’opposizione della Germania e dei suoi alleati. Si trattava
dunque di uno strumento per distribuire in modo solidale i debiti tra gli Stati
dell’eurozona, creando obbligazioni del debito pubblico dei Paesi in questione.
Per tale ragione, uno Stato come la Germania, che seguiva il mantra del
pareggio di bilancio, non era d’accordo con questa condivisione del debito, da
cui avrebbe solo potuto perderci.
Certo, la
questione aveva un impatto più ampio dell’economia e delle finanze, e
riguardava il significato effettivo dell’Unione, che avrebbe dovuto includere
anche aspetti politici e sociali, a partire dalla solidarietà e dal passaggio
storico necessario e inevitabile da pseudo-Confederazione a Federazione vera e
propria.
L’impasse tra le
due linee di pensiero permaneva ancora ai primi giorni di aprile, ma il
direttore generale del MES, Klaus Regling, aprì uno spiraglio, affermando che
sarebbe stato sufficiente garantire che i fondi fossero spesi per il sostegno
alla sanità e all’economia. Significava la possibilità di utilizzare il MES
senza condizioni macroeconomiche a cui sottoporre gli Stati in difficoltà,
controllando però che i fondi fossero impiegati in modo efficiente. Ancora una
volta, l’apertura seguì la linea tedesca, espressa dal ministro delle Finanze
Olaf Scholz, il quale dichiarò: «Siamo
pronti alla solidarietà, ma a una solidarietà ben pensata».
Il contagio in
Europa
In Italia, le
elezioni previste in primavera erano state rinviate. Il 15 marzo, invece, i
francesi furono chiamati alle urne per le elezioni municipali, nonostante i
quasi cinquemila contagiati e i novantuno decessi. Fortunatamente, l’astensione
superò il 50%. I candidati di Macron subirono in generale una sconfitta, mentre
gli ecologisti segnarono una fase di svolta; anche l’estrema destra guidata da
Marine Le Pen ottenne buoni risultati. Nel discorso alla nazione del 16, Macron
scelse di cambiare rotta: rinviò così il secondo turno delle elezioni
municipali e ispirandosi al modello italiano, proibì gli assembramenti e
introdusse le norme per il distanziamento sociale. Al 2 aprile i contagi
toccavano quasi quota 60mila e i morti erano circa 4.500. La Francia divenne
inoltre il sedicesimo Paese, sui ventisei totali che appartenevano all’area
Schengen, a chiudere i confini interni fino al 30 ottobre.
Con l’inizio di
aprile, la Germania divenne il quarto Paese con il maggior numero di
contagiati, secondo i dati della Johns Hopkins University con più di 84mila
positivi e oltre mille vittime: faceva discutere proprio quest’ultimo dato, per
la bassa mortalità (meno dell’1%) al confronto con Stati come la Spagna e
l’Italia (circa l’8%). Il dato dipendeva da diversi fattori, come il numero
maggiore di tamponi effettuati, che quindi rapportava il numero dei morti ad un
totale più “realistico”. Inoltre, in Italia venivano classificati come morti
per Coronavirus tutti coloro che erano deceduti per un’altra principale causa
di morte, ma che erano affetti da Coronavirus.
Merita una
menzione anche il caso ungherese, per la relazione indiretta tra il virus e i
diritti democratici. Il 30 marzo, il primo ministro ungherese Viktor Orbán si
fece attribuire i pieni poteri dal parlamento con il pretesto di combattere
l’epidemia. L’opposizione gridò al colpo di Stato, ma l’Europa in quel momento
era ancora meno nella posizione di agire rispetto al consueto stato delle cose.
L’Ungheria poteva inoltre contare sull’appoggio della Polonia per impedire il
raggiungimento dell’unanimità necessaria a far scattare le sanzioni contro il
Paese. Orbán avrebbe potuto governare per decreti a tempo indeterminato, con la
possibilità di abrogare le leggi votate dal parlamento.
Per mostrare un
parallelo democratico, il governo britannico aveva ottenuto i poteri
eccezionali per massimo due anni, con l’obbligo di un consenso ogni sei mesi da
parte della camere dei comuni per il rinnovo.
A proposito di
Regno Unito, dopo una prima linea che si potrebbe definire “anti-quarantena”,
il premier Johnson annunciò la chiusura del Paese dalla sera del 20 marzo a
tempo indeterminato. Furono chiusi in particolare pub, ristoranti, discoteche,
palestre, cinema, ma rimasero attivi il sistema dei trasporti e i servizi a
domicilio. Il governo garantì il pagamento dell’80% degli stipendi fino a 2.500
sterline al mese a tutti i dipendenti britannici costretti a stare in quarantena;
congelò l’IVA fino al 30 giugno e previde aiuti alle imprese.
In merito ai
numeri, il 2 aprile si registrava un nuovo picco per il Regno Unito, con 569
morti in un giorno, per un totale di circa tremila morti e circa 33mila
contagiati. Tra questi, lo stesso presidente Johnson, in auto-isolamento da
diversi giorni, che nel frattempo lamentava come nel regno vi fossero ancora
troppe persone in circolazione. Anche la famiglia reale contava importanti
contagi al suo interno. Il principe Carlo, erede al trono, risultò positivo il
25 marzo e fu costretto all’auto-isolamento, con sintomi lievi. I primi giorni
di aprile, il principe fece un discorso alla nazione attraverso i canali
social, parlando del proprio stato di salute, che era in miglioramento, della
situazione d’emergenza che richiedeva coraggio e speranza, e del ringraziamento
che andava rivolto a tutto il personale medico e volontario impegnato in questa
sfida. Le sue rassicurazioni erano quanto mai necessarie, considerando che da
settimane circolavano voci su un possibile contagio della regina Elisabetta II
(per esempio, un suo valletto era risultato positivo). Per non parlare del
misterioso caso del principe consorte della regina, il novantottenne Filippo,
che i tabloid britannici avevano dichiarato morto. Lo staff reale non
commentava mai le indiscrezioni sulla famiglia, ma le voci erano state smentite
in via ufficiosa. Di certo, la notizia di una morte del principe consorte o del
legittimo erede al trono non avrebbe aiutato il morale britannico, che pure al
momento sembrava sopportare bene la crisi socio-sanitaria.
In notevole
difficoltà era invece la Spagna. A fine marzo, giungevano notizie di malati
lasciati a terra nei corridoi e di case di riposo abbandonate dagli operatori
con all’interno i cadaveri dei residenti. Il contagio cresceva a ritmi
vertiginosi per diverse ragioni, come il fatto che migliaia di operatori
sanitari fossero stati contagiati per la mancanza di dispositivi di protezione
personale. Ai primi di aprile, la Spagna aveva superato l’Italia per numero di
contagi, con oltre 117mila persone coinvolte, circa 56mila ricoverate e i
decessi attestati quasi ad 11mila persone in totale.
Questa era la
situazione di alcuni Stati europei; c’erano poi le polemiche a vario titolo.
Per esempio, fece discutere, a metà marzo, il fatto che papa Francesco si
muovesse per le strade di Roma, per raggiungere la chiesa di San Marcello al
Corso. La polemica si esauriva da sé: non era necessario essere credenti per
comprendere che, sceso dall’auto, il pontefice avesse fatto pochi passi, in
solitaria e con lo staff a distanza. E chi sosteneva che dovesse dare il buon
esempio, la risposta più ovvia era che lo stesse facendo: ricoprendo un ruolo
internazionale per milioni e milioni di persone, aveva il compito di infondere
speranza in quei credenti. Storico l’evento del 27 marzo, quando papa Francesco
pregò sul sagrato della Basilica di San Pietro con la piazza vuota, per poi
realizzare la benedizione Urbi et Orbi.
Vicino a lui, l’icona bizantina Salus
populi romani, venerata nella Basilica di Santa Maria Maggiore a Roma, e il
crocifisso ligneo della chiesa di San Marcello al Corso, che protesse l’Urbe
dalla “grande peste” e davanti alla quale il pontefice si era già inginocchiato
il 15 marzo.
Una polemica che
fu invece particolarmente sentita fu la questione delle mascherine trattenute
in Repubblica Ceca. Il governo ceco aveva sequestrato 110mila (secondo alcuni
addirittura 680mila) mascherine e 28mila respiratori, ma una parte di quel
carico era un dono della Croce Rossa della Cina all’Italia. La Repubblica Ceca
garantì all’Italia lo stesso quantitativo sequestrato, acquistato a proprie
spese, ma di certo il caso diplomatico non fece bene ai rapporti tra i membri
dell’Unione.
Ad ogni modo, in
Italia giunsero aiuti umanitari da diversi Paesi, tra cui appunto Cina, Russia,
Cuba e Albania. C’era ovviamente anche un aspetto di pubblicizzazione di sé in
tutto questo, ma in generale si può dire che questi aiuti furono mossi da reale
spirito di solidarietà. In particolare, fu molto sentito il discorso del primo
ministro dell’Albania, Edi Rama, quando a fine marzo si preparò ad inviare in
Italia trenta tra medici e infermieri. Si trattava di un contributo piccolo in
termini assoluti, ma molto importante considerando le capacità del piccolo
Stato balcanico. Rama parlò di solidarietà e dello stretto legame che legava i
due popoli (e che ha radici che superano i cinque secoli): certamente vi fu
anche un interesse politico in questa scelta, soprattutto perché l’Albania stava
attraversando il lungo processo per essere ammessa nell’UE, e oltretutto i
propri medici e infermieri avrebbero potuto acquisire informazioni utili per la
lotta al Coronavirus. Talvolta però – come in questo caso – non era così
difficile intravedere a tutti gli effetti anche l’aspetto prettamente solidale.
L’Italia tra
decreti, sanzioni e numeri dell’emergenza
Quando arrivò il 3 aprile, per un attimo ebbi la sensazione
di ricordare un universo parallelo, al ricordo di come quella data, al
principio, avrebbe dovuto segnare la fine della quarantena.
Da metà marzo ai primi di aprile, in Italia fu un
susseguirsi di decreti, norme regionali e notizie varie che crearono spesso
molta confusione. Di sicuro, le misure restrittive si fecero più stringenti,
perché sembrava che il virus non stesse ancora toccando il picco dei contagi e
perché le persone creavano ancora assembramenti cercando di trovare le “falle”
nelle regole.
Di seguito riporto alcuni decreti con le principali norme,
per dare un’idea complessiva di come si affrontò l’emergenza in Italia.
Il 17 marzo era stato emanato il cosiddetto decreto legge
“Cura Italia”; questi alcuni dei provvedimenti: cassa integrazione in deroga
fino a nove settimane; annuncio di un’indennità di seicento euro per gli
autonomi; divieto di licenziamento per due mesi da parte delle aziende;
sospensione dei versamenti per imprese, professionisti e settori più colpiti;
sospensione dei mutui sulla prima casa; congedo parentale straordinario o in
alternativa voucher baby sitter; bonus di cento euro per i lavoratori in sede;
fondo per il reddito di ultima istanza per garantire un’indennità ai lavoratori
che avevano ridotto o sospeso il loro lavoro; settanta milioni per i computer
destinanti agli studenti meno abbienti; cinquanta milioni per viveri agli
indigenti.
Il 20 marzo, il governo emise una nuova ordinanza a firma
del ministro della Sanità, Roberto Speranza, che prevedeva un’ulteriore
stretta: fu vietato l’accesso a parchi, ville, aree gioco e giardini pubblici;
lo sport all’aperto restava consentito a livello individuale, benché nei pressi
della propria abitazione e rispettando il distanziamento sociale. I supermercati
rimasero aperti anche nel week-end (dopo una discussione sul tema), ma il
Veneto li chiuse con un’ordinanza regionale.
Il 21 ci fu un discorso alla nazione del premier Giuseppe
Conte, che divenne ormai un appuntamento settimanale fisso, in un momento in
cui i dati sui contagi e sui decessi erano ancora gravemente negativi. Conte
affermò che si trattasse della «sfida più difficile dal dopoguerra»; assicurò i
cittadini che lo Stato fosse presente e che i rifornimenti fossero sotto
controllo, per cui non c’era motivo di fare accaparramenti ingiustificati. La
frase «uniti ce la faremo» divenne un vero e proprio slogan, che si unì ad
altre frasi già pronunciate da Conte. D’altra parte, pur sottoposto alle
critiche dell’opposizione e di tutti quei lavoratori che ancora attendevano
misure a loro tutela, il primo ministro cominciò sempre più ad acquisire
consenso tra la popolazione, stando ai sondaggi che uscirono nei giorni
successivi (uno degli ultimi fu quello realizzato dall'istituto Ixè, per il
programma 'Cartabianca' su Rai 3, anche se la Supermedia dei sondaggi della
prima settimana di aprile mostrava un elettorato che tornava in parte a
guardare alle opposizioni).
Il discorso di quella sera fu dettato in realtà anche da una
ragione più pragmatica: sindacati, piccole imprese e opposizioni stavano
premendo per la chiusura della attività industriali non strategiche, poiché
molte fabbriche ancora attive stavano mettendo a rischio la riuscita della
quarantena. Oltretutto, i governatori delle regioni stavano correndo ai ripari
con le restrizioni precedendo il governo: così accadde per esempio in Lombardia
e Piemonte, dove furono chiusi uffici pubblici, studi professionali, cantieri e
attività all’aperto.
Il 25 fu emanato un nuovo decreto, che comprendeva misure
urgenti per evitare la diffusione del Covid-19 e introduceva ulteriori sanzioni
e controlli; inoltre, si parlava più nel dettaglio della pulizia straordinaria
degli ambienti scolastici.
In quei giorni nacque anche un piccolo “caso”, quando
riguardo alla bozza del nuovo decreto si cominciò a parlare della data del 31
luglio e molti si allarmarono, pensando che fosse la nuova data indicata per la
fine della quarantena. In realtà, indicava soltanto il giorno in cui si sarebbe
concluso lo stato di emergenza di sei mesi, dichiarato il 31 gennaio 2020.
Nel frattempo, Guido Bertolaso, consulente personale per
l’emergenza del presidente della Lombardia Attilio Fontana, fu ricoverato il 24
al San Raffaele di Milano, dopo essere risultato positivo al Coronavirus. Il
giorno dopo circolò la voce che il capo della Protezione Civile, Angelo
Borrelli, avesse la febbre: queste due notizie non fecero certo bene all’umore
del Paese, ma il giorno successivo Borrelli risultò negativo al Coronavirus.
Per quanto riguarda il rispetto delle norme restrittive,
servirono ovviamente pene più severe. Si doveva portare con sé
un’auto-certificazione, il cui modello, ai primi di aprile, era cambiato ormai
quattro volte. Il decreto del 25 riorganizzava le pene e le sanzioni per la
violazione della quarantena senza giustificato motivo: continuò ad avere
rilievo penale l’infrazione commessa da parte di chi era risultato positivo al
test del Coronavirus, mentre per gli altri indisciplinati si passò ad una
sanzione amministrativa pecuniaria, elevata in una fascia dai 400 ai 3000 euro,
aumentabili qualora la violazione fosse stata commessa utilizzando un veicolo.
Sui media e sui social uscirono spesso notizie assurde che
riguardavano le sanzioni: coppie che facevano sesso in auto (come a San Bonifacio,
Verona), visite ai partner (per esempio un giovane di Arco, Trento), amici che
si muovevano con improbabili scuse (come a Genova, dove tre ragazzi furono
multati e uno di loro aveva utilizzato la scusa che stesse andando a lavorare
in un ristorante), persone che fuggivano dal clima teso in casa per andare a
fumare uno spinello (così un ragazzo del Sulcis, in Sardegna). Storie come
queste ce n’erano a non finire.
In merito ai numeri – aggiornati ai primi di aprile – i
positivi erano circa 124mila, i morti circa 15mila e i guariti quasi 21mila. Le
terapie intensive cominciarono a diminuire per la prima volta, attestandosi a
poco meno di 4.000 casi. Per quanto riguardava i nuovi contagi, da giorni i
casi erano in lieve ma ancora incerto calo.
Sopravvivere ogni giorno alla quarantena
Il virus
ovviamente non fece distinzioni tra ricchi e poveri, cittadini comuni o persone
famose. Ho già citato in precedenza la positività al Coronavirus da parte del
principe Carlo d’Inghilterra e del premier britannico Boris Johnson, così come
ho citato anche altri politici e persone famose come Tom Hanks e la moglie Rita
Wilson (entrambi ormai ritornati in buona salute negli Stati Uniti).
Nominare tutti i
politici e personaggi famosi a livello internazionale sarebbe dispersivo e
oltretutto molti di questi nomi risulterebbero semi-sconosciuti in Italia.
Ricordo però anche le notizie (alcune dubbie) sulla positività riscontrata in
Placido Domingo, Idris Elba, Harvey Weinstein, come nel già citato Luis Sepúlveda,
in Lucia Bosè (morta a Segovia il 23 marzo) e in Eddie Large (morto a Bristol
il 2 aprile).
Mentre queste
notizie si succedevano, intristendo i fan, le persone continuarono la
quarantena cercando sempre nuove distrazioni. Nel nostro Paese, la richiesta
massiccia sui social portò il canale ‘Italia 1’ ad avviare la consueta maratona
annuale della saga di Harry Potter,
distraendo per quelle ore serali milioni di persone. Ma queste scelte furono
intraprese da tutti coloro che si occupavano di arte e di intrattenimento, dall’offerta
di piattaforme streaming come ‘Netflix’ e ‘Disney+’ all’attività di personalità
della cultura, di attori, musicisti, scrittori e fumettisti. Questi ultimi, in
particolare, misero a disposizione moltissime loro opere digitalizzate in modo
gratuito: si pensi per esempio ad alcune opere di Roberto Recchioni o alla
serie di video intitolati Rebibbia
Quarantine, realizzata da Zerocalcare.
Certo è che i
colossi del web – come ‘Netflix’ e ‘YouTube’ – avevano ridotto la velocità
dello streaming e Mark Zuckerberg si era detto preoccupato per il sovraccarico
dei servizi Facebook. Il temuto black-out di internet comunque non si realizzò
e le reti ressero l’“onda d’urto” del traffico aumentato. Era inoltre da
aspettarsi che anche a fine quarantena tale traffico avrebbe continuato a
mantenersi su valori superiori alla fase pre-emergenza, per tutta quella serie
di attività scoperte per la prima volta da molti utenti (video-lezioni,
software per le video-chiamate, sedute psichiatriche a distanza, etc).
Non era però
tutto positivo. Con le ulteriori restrizioni di metà marzo e il crescente senso
di insofferenza, sui social si poterono leggere storie di persone che
continuavano ad insultare e a filmare sconosciuti per strada, i quali se ne
stavano in solitaria senza disturbare nessuno. Dai video non c’era motivo di
credere che stessero facendo qualcosa di sbagliato o contro le norme: erano
solo sfoghi di persone frustrate, che gridavano dai balconi o persino dalle
macchine, registrando mentre erano alla guida. Vidi anche un video, che
probabilmente era stato fatto per ridere, di una persona che gridava ad un
passante e gli sparava con una pistola giocattolo a pallini, e che in realtà di
divertente non aveva nulla.
Il problema non
riguardava solo coloro che non rispettavano le norme e facevano i furbi;
interessava anche quelle persone che aggredivano indiscriminatamente i passanti
senza saperne niente. A fine quarantena sarebbero rimasti i menefreghisti, ma
anche gli isterici e i nevrotici avrebbero guadagnato numeri. C’è da dire che
la situazione di emergenza aveva irritato non poche persone – anche
legittimamente per certe categorie di lavoratori molto provate – ma spesso la
cattiveria era del tutto gratuita. Le persone, sotto pressione, avevano
abbandonato la maschera. E ciò aveva senza dubbio qualcosa di ironico. Tra
coloro che dovettero subire più di tutti la maleducazione, la supponenza e la
cattiveria altrui ci furono sicuramente in testa i lavoratori dei supermercati
e delle farmacie. Da questi luoghi provenivano storie davvero incredibili:
clienti che andavano più volte a settimana in farmacia anche solo per chiedere
consigli su un prodotto di cosmetica; una cassiera infettata a Mestre da una
cliente positiva, che le aveva liberamente tossito in faccia; persone che
facevano spese da quattrocento euro a settimana.
Da un lato, si
cercò di promuovere il mantra che diceva che tutto sarebbe andato bene. E in
molti si attivarono per sostenere in qualche modo chi fosse in difficoltà,
soprattutto ad un livello psicologico. Alcuni cercarono nel loro piccolo di
proporre “guide” per reagire alla tristezza. Nicola Barone scrisse un articolo
il 20 marzo, su ‘Il Sole 24 Ore’, dal titolo Coronavirus, 7 modi per non cedere alla sindrome da notizie allarmanti.
Tra questi, in sintesi: evitare interpretazioni catastrofiche, mantenendo una
prospettiva storica (l’umanità aveva affrontato calamità ben peggiori); non
limitarsi ai primi titoli dei media ed evitare di leggerli prima di andare a
dormire; concentrarsi su ciò che era possibile risolvere, e via discorrendo.
Questi aiuti e
consigli erano certamente utili, ma il fatto era che non sarebbe affatto andato
tutto bene e nel profondo tutti ne eravamo consapevoli. Non si trattava di
pessimismo, ma di comune buonsenso. Avrebbe forse aiutato un maggiore realismo
unito ad un pragmatismo stoico, ma non era una prospettiva facile da realizzare
in così poco tempo, ancor più perché significava cambiare una mentalità
collettiva. Gli esperti comunque cominciarono con sempre maggiore insistenza a
far capire che con questo virus fosse necessario convivere, in attesa del
momento opportuno per liberarcene.
Mentre
attendevamo la fine della quarantena, nella speranza della scoperta di un
vaccino nei mesi successivi, la fitta attività sui social portò anche a
risultati positivi in termini di lotta per i diritti. Per esempio, prima
scoppiò la bolla dei siti porno, in merito a quelle donne umiliate contro la
loro volontà; poi quella di un gruppo (anzi, più gruppi) su ‘Telegram’, che
diffondeva immagini e video di persone prese dai social senza consenso o
tramite hacking. Le vittime più
danneggiate erano donne, spesso minorenni, e bambini: non solo circolavano
questi file, ma anche numeri di telefono e commenti aberranti, che riflettevano
il peggio della misoginia di ogni tempo. Un articolo sul tema, che riassumeva
bene il problema, era stato scritto da Simone Fontana il 3 aprile, su
‘Wired.it’, e si intitolava Dentro il più
grande network italiano di revenge porn, su Telegram.
Definisco questi
casi come “bolle” dal momento che i due problemi esistevano già da anni, direi
persino dagli albori dell’internet per le masse. D’altra parte doveva esserci
voluto tempo per far crescere un gruppo, come quello di ‘Telegram’, che
addirittura contava oltre i 43mila membri. Come sempre, bisognava poi essere in
grado di distinguere le persone dagli strumenti, poiché molti auspicarono la
chiusura totale del servizio di messaggistica, senza accorgersi che
quell’atteggiamento era parallelo a quello di chi diceva «Se l’è meritato perché
portava la minigonna». I colpevoli non potevano che essere quegli utenti, al
limite i diretti responsabili del servizio, ma comunque persone fisiche: come
avrebbe potuto essere colpevole un servizio?
In quei giorni
si era giustamente mosso qualcosa per rendere evidente una situazione
“sommersa” da diversi anni, che non era colpa di nessuno strumento tecnologico
in particolare, ma di una certa umanità rimasta ancorata alla parte più deviata
e istintiva del genere umano. Che si credeva (ma chi poi lo credeva davvero?)
superata dal tempo e dalla modernità. Qui si poteva aprire un lungo discorso,
ma il punto era un altro. Pensai a quanto si fosse mosso, all’impatto che le
persone potevano realmente avere nel sollecitare le autorità e i media ad agire
per la loro tutela. Questo era meraviglioso. Mi chiesi allora perché non si
riuscisse mai a creare movimenti così estesi e coesi anche (e sottolineo anche)
su tematiche come – solo per citarne una tra mille – l’incarcerazione ingiusta
di giornalisti e politici in Turchia per “reato di opinione” (era di quei
giorni la notizia che Erdoğan stesse discutendo il rilascio di circa 90mila
detenuti per l’emergenza sanitaria, escludendo dalla lista le centinaia di
giornalisti e reclusi appunto per “reato di opinione”).
E inoltre mi
domandai perché di fatto esistessero diritti che avevano la priorità su altri.
In fondo, un diritto acquisito da qualcuno non diventava forse l’occasione per
rendere più liberi anche se stessi? Pensai che la lotta per le libertà passasse
attraverso la difesa anche di quei diritti che non sembravano interessarci
direttamente, ma che di fatto diventavano patrimonio di tutto il genere umano.
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