Gli anni Novanta e i primi Duemila. Scorcio di una generazione attraverso film e serie tv

Tra gli anni Novanta e i primi anni Duemila, ci sono state diverse saghe cinematografiche che hanno contribuito a creare un immaginario generazionale. Questo articolo analizzerà proprio alcune saghe legate alla comicità del periodo. All’appello mancano altre pellicole (come Bad Boys), che escono anche dal genere della commedia (basti citare Men in Black e Matrix), per non parlare di quelle serie tv generazionali e non solo (p. es. The Simpsons, Xena, Buffy, Friends) che hanno segnato questa fase. Abbiamo però suddiviso il discorso in quattro parti, che prendono le mosse da alcuni cult del periodo, per poi allargarci a considerazioni più generali.


Scream. La generazione del benessere diffuso


La saga di Scream nacque nel 1996 e l’ultimo film uscì nel 2011. Il regista Wes Craven e lo sceneggiatore Kevin Williamson raccontarono non tanto la storia di un serial killer specifico, ma di una maschera, Ghostface, divenuta iconica negli anni. Craven riuscì così a rilanciare lo slasher e il teen horror. Con un taglio ironico, furono inserite una serie di regole chiave per poter sopravvivere in un horror. A parlare è il personaggio di Randy: «E vado a incominciare. Numero uno: non si deve mai fare sesso. Mai! No! È proibito! È proibito! Sesso uguale morte! Va bene?! Numero due: mai ubriacarsi o drogarsi. No, perché è il peccato, peccato per estensione della regola numero uno. E numero tre: mai, mai e poi mai, in nessun caso dire: “torno subito”, perché non si torna più!».
Non mancavano poi i corollari: bisognava infatti evitare di rispondere al telefono, di fuggire, di aprire le porte, di urlare.
Nei sequel continuò questo approccio comico-normativo, per cui p. es. non bisognava mai pensare che il killer fosse morto; nelle trilogie, la faccenda si faceva più articolata, ed è ancora Randy a dare spiegazioni: «Primo: avete un killer super sovrumano, non servirà pugnalarlo e neanche sparargli, praticamente nel terzo capitolo dovrete congelargli la testa, decapitarlo o farlo saltare in aria. Secondo: chiunque, anche il personaggio principale può morire. [...] Terzo: il passato tornerà a mordervi le chiappe, ragazzi. Pensate di sapere tutto del passato? Non è vero, il passato non è sepolto, anche i peccati commessi nel passato stanno per tornare, vi piomberanno addosso e vi distruggeranno. Quindi, concludendo, lasciate che vi dica... buona fortuna, Dio vi guardi. E per alcuni di voi, a presto. Perché le regole dicono che alcuni di voi non ce la faranno».

Inutile dire che queste idee segnarono il passaggio dagli anni Novanta ai Duemila e condizionarono prima di tutto il genere horror, con un’infinità di pellicole perlopiù insignificanti sul gruppo di studenti massacrati da un killer, tra un party americano e l’altro. È ancora Williamson, infatti, a scrivere il primo capitolo di un’altra saga horror, ovvero So cosa hai fatto (1997-2006), mentre la saga di Urban Legend (1998-2005) cavalcò l’onda del successo dei film sceneggiati da Williamson.
In questi casi si confermò il modello imposto da Scream, ma l’ironia risulta meno marcata e si perde molto in termini di autorialità: si trattò di film derivativi, che comunque contribuirono ad arricchire un immaginario.
Scream andò oltre: la maschera divenne un’icona, di quelle utilizzate anche da chi non ne conosce realmente l’origine e il significato, alla stregua del successivo boom di maschere di V per Vendetta. E fece generazione, poiché molti in quel periodo si identificarono con quella cultura giovanile, prettamente statunitense, fatta di spensieratezza, disincanto, divertimento scemo e categorie sociali sempre più caratteristiche, a partire dai vari outsider di ogni capitolo della saga.
In termini metanarrativi, oltre all’ironico elenco di regole, si aggiunse la risposta alla grande domanda: riprodurre la violenza nella finzione (film, giochi, etc.) non è un modo per sollecitarla nella vita reale? Anche in questo caso, sulla linea di quella leggerezza anni Novanta, la risposta di uno dei personaggi, Billy Loomis, è chiara e piacevolmente sfacciata: «No, Sid! Non dare la colpa al cinema. I film non fanno nascere nuovi pazzi, li fanno solo diventare più creativi».

Con il quarto capitolo, del 2011, Craven e Williamson dimostrarono di avere ancora qualcosa da dire in proposito. In un mondo ormai liberalizzato dal punto di vista della violenza e della sessualità, e nel quale i codici narrativi implodono spesso su se stessi, ripetendosi in eterni loop, è il personaggio di Charlie Walker a parlare, prima dicendo: «Ci sono ancora delle regole, ma sono diverse. L’inaspettato è il nuovo cliché»; e poi: «Il pubblico ormai conosce le regole degli originali e l’opposto diventa il nuovo standard. In pratica come fai a sopravvivere in un film horror moderno? Il solo modo è essere gay». Prosegue la sfrontata ironia, mettendosi alle spalle ogni remora sul politicamente corretto, che tanto spaventa soprattutto oggi anche i comici più capaci.
Ma che cosa rimane di questa saga a distanza di anni? Chi visse quel periodo da giovane lo porta con sé, almeno in parte, e non più tanto per la riflessione sul cinema, che ormai è un elemento sdoganato dalle serie tv post-moderne, quanto per aver rappresentato un’epoca di vuoto piacevole, piacevole almeno all’apparenza e per i più distratti; una fase languida, dove però il vuoto era colmato dal citazionismo, da un immaginario condiviso costituito da oggetti alla portata di (più o meno) tutti, da canzoni e video trasmessi su MTV, da media che trasmettevano nel complesso l’immagine di Shiny Happy People, come ebbero effettivamente a dire i R.E.M. all’inizio del decennio (1991), per le quali “there’s no time to cry”.

E l’ambientazione prediletta dell’epoca non poteva che essere la California, dove tra l’altro si situa idealmente la città di Woodsboro, dove è ambientato Scream. Una percezione della realtà tuttavia fragile; un benessere diffuso che non poteva nascondere a lungo il malessere alla base, sia di coloro che erano rimasti nonostante tutto gli emarginati, sia di coloro che avevano vinto, senza però sapere esattamente che cosa avessero ottenuto. Solo per citare una delle tante produzioni generazionali del periodo, furono serie come The O.C. (2003-07), ambientata appunto ad Orange County, in California, a mostrare il disagio di una generazione che si era dovuta costruire da sé, talvolta attraverso passi falsi, che avevano comportato sconfitte, carcerazioni, dipendenze e, persino, la morte. Una morte non più alla Scream, avvertita in definitiva come un non-problema, un qualcosa di distante per una generazione pronta all’immortalità della rigenerazione del remake e della finzione (in fondo, è proprio il killer a dire al telefono che il tutto «È un gioco»). Una morte che è invece reale e avviene nelle strade per un incidente o per mille altri motivi, che tende a trasformare quell’evento in un evento tragico e oscuramente significativo.
D’altra parte, ancora Williamson è il creatore di una serie del periodo, di poco precedente, ovvero Dawson’s Creek (1998-2003), e, anche qui, non mancano le ombre che incombono sulle vite dei personaggi. Ombre che appaiono più nella forma di tabù da evitare, in una sorta di puritanesimo non voluto, che faceva vedere il peccato in tutto ciò che non si conosceva. Era una generazione introversa, nonostante le feste e le libertà, che poteva avere paura e isolarsi, oppure rispondere con ironica rassegnazione o con la speranza senza fine continuando a desiderare per il puro gusto del desiderio in sé. Con il rischio, però, di lasciarsi vivere dalla vita una volta terminata l’adolescenza, ritrovandosi oltre i vent’anni con troppe domande irrisolte e ben pochi strumenti per darsi una risposta.


Scary Movie. La generazione dell'attesa


La saga di Scary Movie (2000-13) consta di cinque pellicole, il cui soggetto fu ideato (tra gli altri) dai fratelli Wayans. Il personaggio di Cindy Campbell è il legame costante dei primi quattro capitoli; modello dell’eroe dei teen-horror e richiamo del personaggio di Sidney Prescott in Scream. Scary Movie prende spunto da quest’ultima saga, per estendere la parodia ai classici dell’horror e a una serie di pellicole contemporanee. Le minacciose telefonate di Scream, bisbigliate e cariche di tensione, pur nell’ironia del caso, diventano vere e proprie farse. I giovani di turno vengono colti in una serie di attività che ruotano intorno ad azioni del tutto insignificanti, rivestite però di una certa importanza, come fumare l’erba.
Si pensi a due dei dialoghi più iconici, ripetuti da schiere di studenti anche qui in Italia ai tempi delle medie e delle superiori, il primo che si condensa nella battuta del maggiordomo: «Germi miei!»; l’altra con Shorty, Douchie, un loro amico e il Killer al telefono, quando il primo riceve una chiamata dal Killer mentre fumava erba, finché tutti insieme si ritrovano a gridare senza motivo «Bellaaaa!». Per poi sentire Shorty che domanda al Killer che cosa stia facendo lui, ricevendo come risposta un ovvio e sconsolato «Niente, ammazzo… il tempo», quale completa descrizione di quell’epoca spensierata e libera, dove nemmeno la morte aveva grande rilievo.

C’è anche quell’atteggiamento che abbiamo già descritto prima, di desiderare una cosa per il puro gusto di desiderarla, anche senza sforzarsi per ottenerla, per cui troviamo un altro famoso scambio di battute, in cui George afferma: «Io ho un sogno»; Tom gli domanda: «Quale sogno?»; e George: «Avere un sogno!». La generazione che ha vissuto a pieno gli anni Novanta e i primi Duemila ha coltivato in effetti una speranza, spesso del tutto fideistica, verso qualcosa di non ben specificato.
In qualche modo, sono stati anni di attesa, di passaggio e di fiducia. L’èra dell’informatica accessibile a (quasi) tutti, della telefonia mobile, lo scalino che dava inizio al nuovo secolo e al nuovo millennio. Ma poi, sfortunatamente, non siamo caduti come Fry nella capsula del laboratorio di criogenia applicata e quel futuro esageratamente auspicato si è rivelato molto più lento e contrastato in fase di realizzazione. E non tanto (e non solo) per le forze di segno contrario, ma forse soprattutto per l’indefinitezza di quel sogno ad occhi aperti, ereditato (benché spogliato delle sue forme più concrete) dagli anni Ottanta.


American Pie. La generazione della nostalgia


Oggi i teenager hanno una serie tv come Sex Education (oltre ad altri mille canali) per trovare alcune risposte ai problemi e alle domande tipici della loro età; in maniera informale, senza passare per i canali "ufficiali". Ma la generazione di cui stiamo parlando, quando aveva circa 14-16 anni, che cosa aveva di vagamente simile? La risposta che ci siamo dati è American Pie. Con un approccio molto diverso, meno didascalico, non succube del politicamente corretto odierno. Ha fatto generazione, contribuendo a creare un immaginario a cavallo tra gli anni Novanta e i primi Duemila. Dopodiché, uscendo dal legame generazionale, furono filmetti. Ma il valore di questi film e serie tv, come appunto Sex Education, si concentra proprio in questi termini e nascono quindi di per sé con una data di scadenza, ovvero il ciclo naturale di vita della generazione a cui si rivolgono. È sufficiente dare uno sguardo a quell'"operazione nostalgia" che è l'ultimo capitolo di American Pie, del 2012.

Questa saga (1999-2012) è forse la più rappresentativa del periodo in esame, insieme ai vari spin-off (2005-09), che ne hanno in definitiva consolidato il mito.
Tantissimi gli sketches memorabili, l’iconicità dei protagonisti e di molti altri personaggi secondari. E non solo giovani (si pensi al padre di Jim e alla mamma di Stifler). L’elemento musicale è centrale, in una generazione cresciuta ad MTV, rock alternativo, pop punk, grunge, crossover e nu metal. Le band che spiccano sono prima i Nirvana, i Blur, gli Oasis, etc.; poi i Green Day, i Blink-182, i Linkin Park e moltissimi altri.
American Pie è forse il più fedele ritratto di una generazione, benché ovviamente esasperato nei tratti della demenzialità e del fattore sessuale. Tuttavia qualcosa abbiamo già detto fino a qui, attraverso i film citati, per questo ci interessa ora analizzare un altro aspetto. La nostalgia. Facendo così un salto direttamente al capitolo finale della saga creata da Adam Herz.

Veniamo catapultati dodici anni dopo il giorno del diploma, per scoprire che cosa sia successo a quei giovani di East Great Falls. L’ingresso nel “mondo degli adulti” non sembra riuscito a tutti, per quanto ognuno si sforzi di mostrare agli ex compagni di scuola una serie di risultati positivi.
Oz si è lasciato con Heather, per trasferirsi (dove?) in California; la sua vita è all’apparenza perfetta: è un famoso commentatore sportivo, vive in una casa di tutto rispetto ed è fidanzato con una donna molto attraente e rappresentata secondo una serie di stereotipi della bellezza anni Ottanta-Novanta. Kevin è sposato con una donna in carriera e ha preferito lavorare in casa, spendendo il proprio tempo a seguire le soap opera. Jim e Michelle hanno avuto un bambino e il loro matrimonio è in una fase di stagnazione. Finch, infine, è colui che rappresenta meglio il desiderio di voler apparire vincenti nei confronti dei vecchi amici: racconta di aver viaggiato intorno al mondo e le sue storie appaiono come straordinari racconti di avventura di altri tempi. Tutto troppo bello per essere vero. E infatti quel sogno si rivela tale.
E Stifler? L’icona della saga non è cambiato; è l’unico davvero sincero con se stesso, benché non lo sia pienamente con gli altri. È lui a riunire il gruppo di vecchi amici, cercando di rievocare i tempi che furono.

Il risultato, però, è che ci si accorge che non tutto è ancora possibile (p. es. Jim rinuncia a tradire Michelle con la baby-sitter diciottenne) e, inoltre, un velo di nostalgia scorre nel gruppo, al punto che spesso le battute vengono attutite da un’ulteriore considerazione o da un’espressione di amarezza. Per inciso, l’anno precedente era uscito anche il quarto capitolo di Scream, che però si era allontanato dall’approccio nostalgico, per tentare invece di aggiungere qualcosa di nuovo: se Scream 4 vedeva il bicchiere mezzo pieno (“servono nuovi codici, nuove regole? Non c’è problema”), American Pie: Ancora insieme lo vede mezzo vuoto.
E nemmeno in questo caso riesce a giungere alle estreme conseguenze. La volgarità che aveva caratterizzato la saga risulta ormai superata da una volgarità ancora più spinta e senza freni (Una notte da leoni), al punto che American Pie appare quasi conservatore. Alcuni direbbero “tanto rumore per nulla”. Perché in definitiva già il capitolo terzo aveva siglato la storia con un matrimonio e anche in quest’ultimo film le coppie non superano mai i limiti del tradimento; c’è una morale di fondo che li guida e che alla fine li riporta all’ordine, ovvero all’accettazione delle loro vite di adulti. Il film conclusivo sembra dire: è finito il tempo della libertà sessuale e della sregolatezza, perché dovete rientrare nei ruoli che vi prescrive la società. Il fatto, tuttavia, è che questa riflessione non sembra affatto condotta nel film con consapevolezza critica e risulta quindi una semplice e dolce resa, tra un abbraccio, sorrisi malinconici e inviti a indefiniti futuri per un nuovo incontro.


Una notte da leoni. La generazione costretta a crescere


Abbiamo citato la nuova generazione, che negli anni Dieci ha cominciato a contare in termini di influenza nella cultura di massa. Quella immediatamente precedente, di cui stiamo parlando, avvertiva molte cose come tabù o esagerazioni; al contrario, le nuove generazioni hanno alzato l’asticella, spingendo a livelli inediti la volgarità e la demenzialità. E questo – è bene precisarlo subito – non è detto in termini positivi o negativi, ma come semplice analisi di prodotti come le commedie degli ultimi trent’anni.
Anche dire che i confini siano stati spostati più avanti potrebbe però risultare troppo schematico. I limiti, infatti, sembrano cambiati un po’ per tutti coloro che hanno vissuto l’adolescenza dagli anni Novanta ad oggi, al punto che la “vecchia generazione” è spesso ancora alle prese con la propria crescita e maturazione, ritrovandosi a condividere “tratti di strada” delle nuove generazioni. Come, p. es., nella trilogia di Una notte da leoni (2009-13), diretta da Todd Philipps.

Quest’ultima rappresenta infatti il culmine di questo nostro discorso, rappresentando l’ideale finale per quella gioventù cresciuta tra gli anni Novanta e i primi Duemila, nel suo passaggio “lungo” all’età adulta.
La trilogia ruota ancora una volta intorno a tre matrimoni, visti come il punto di non ritorno, il passaggio verso il mondo degli adulti (solo parzialmente smentito dal personaggio di Phil Wenneck, che nonostante gli eccessi rientra sempre nel proprio ruolo di marito, genitore e insegnante). L’addio al celibato diventa così il momento in cui salutare il passato per diventare adulti, ed è significativo che i protagonisti abbiano tutti ben più di trent’anni, indicando come quella generazione abbia protratto l’adolescenza fino all’ultimo.
La trilogia di Una notte da leoni ha il merito non solo di aver ridato freschezza alla commedia demenziale, ma anche di aver offerto tre titoli di riferimento per tutti coloro che, usciti dalla fase più o meno protetta della scuola (Philipps aveva nel frattempo prodotto anche Project X, del 2012), non avevano ancora realizzato nulla di significativo nelle proprie vite. Nessuna carriera particolarmente redditizia o soddisfacente, nessun matrimonio, niente figli, nulla di evidente da poter vantare. E, tuttavia, tante speranze lasciate ad appassire.

Una notte da leoni, in questo senso, appare come lo sfogo e la rivincita di una generazione che non vuole o non può crescere, ma che potrebbe avere le carte in regola per dare il meglio di sé. È un grido che sposa la rabbia alla gioia di vivere, la frustrazione al senso di libertà, il tedio e la speranza, come avevano insegnato loro i grandi della musica, del cinema, della tv, dello sport e via discorrendo.
È, infine, la rappresentazione di una generazione che si è sovrapposta ad una nuova, trovandosi disorientata nel mare infinito di mode, atteggiamenti e condotte politicamente corrette, in un mondo in cui la morale non sembra più un canone universale, ma anch’essa un prodotto commerciale con una data di scadenza. E così, osservando il nuovo che avanza, quella generazione trova il modo di affermare la propria esperienza, di renderla concreta e, dopo un ultimo rito di passaggio, di mettersela alle spalle.

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