La follia come concetto culturale attraverso alcuni personaggi del cinema



Reinterpretando un comune modo di dire, la follia si trova negli occhi di chi guarda. In una prospettiva antropologica, potrebbe essere proprio così: riteniamo folle oppure osceno, bellissimo, ragionevole o privo di senso tutto ciò che risponde o meno ai nostri codici culturali.
Se Erodoto poteva raccontare (Storie, IV, 106) come ad Oriente vi fossero popolazioni che si cibavano delle carni dei propri defunti, facendo inorridire i Greci, ma mettendo anche in luce una diversa “verità”, si possono individuare dei tratti universali nel concetto di follia?
Essa può essere legata ad aspetti sociali, ed è applicabile tanto a soggetti che vivono nella miseria quanto a coloro che possiedono estreme ricchezze. Talvolta infatti è proprio il potere dominante a dimostrarsi – se non altro a posteriori – come totalmente folle. Vittime e carnefici si scambiano i ruoli tra le classi sociali e il fascino del male non conosce confini che non siano condivisi da tutti gli esseri umani.

L’essere folle può avere tuttavia atteggiamenti ambivalenti: da un lato potrebbe essere violento, e la sua potrebbe configurarsi come una vita intesa quale lotta per la sopravvivenza, in un contesto in cui le risorse divengono sempre di meno rispetto all’aumentare della popolazione. E in cui il potere di turno viene additato come colpevole di una disumanizzazione senza precedenti. Ma quale potere? Quale nemico invisibile? Il folle, generalmente, sembra avere le idee chiare in proposito, ma sembra che ai cosiddetti “normali” questa chiarezza non sia per niente accessibile.
Dall’altro lato, il folle può anche assumere i contorni di una persona non violenta, anzi tremendamente fragile e sensibile, capace talvolta di esprimersi attraverso forme artistiche precluse ai “comuni mortali”. Anche in questo secondo caso, il folle è più vicino all’eccezione, al genio, alla completezza. Ma è proprio quest’ultima a renderlo inviso ai più, tanto da farlo apparire nelle vesti della Cassandra di turno, una profetessa che dice sempre la verità, ma che per una maledizione non è mai creduta.

È forse questo aspetto di eccezionalità che porta al generale disprezzo dei folli, al loro isolamento dalla società, così come anche al loro apprezzamento, quali unici interpreti di un ordine in un caos regolamentato come è quello della società odierna?
Ci sono vari approcci per trattare questo tema, da quello antropologico a quello psicologico, da quello filosofico-letterario a quello, p. es., cinematografico. E tratteremo soprattutto di quella tipologia di folli violenti, collegando l’argomento ad altri articoli già pubblicati in questo blog (ne abbiamo parlato qui e in altri articoli citati nel testo).

Arancia meccanica, regia di Stanley Kubrick, uscì nelle sale nel 1971. Come per tutti i grandi classici di ogni forma d’arte, si sono spese pagine su pagine in merito alla pellicola.
Il protagonista, Alexander DeLarge, è uno di quei ragazzi che con un eufemismo si potrebbe definire “turbolento”. Fa uso di alcool e di droghe, ma il massimo del piacere lo realizza con l’ultraviolenza. Finito in prigione e sottopostosi spontaneamente alla “cura Ludovico”, un programma finanziato dal governo, Alex riesce (almeno all’apparenza) a guarire, tanto da affermare «Io voglio essere buono. Voglio essere, per il resto della mia vita, solamente un atto di bontà».
Ben presto però la spirale degli eventi lo porta a dover pagare il debito morale che aveva accumulato in anni di soprusi e di violenze. Alex rischia la morte e si salva in extremis: a quel punto interviene nuovamente il Ministro dell’Interno, che – nel tentativo di recuperare consenso politico nell’opinione pubblica – assicura al giovane che da quel momento il governo avrebbe curato i suoi interessi, da vero amico.

Alex non si può definire un folle in senso stretto. È violento e l’abuso di alcool/stupefacenti e il contesto in cui vive lo portano ad essere la persona che è. Il tutto, ovviamente, sancito dalla sua volontà di compiere il male, che rimane in ogni caso una facoltà intoccabile. Fino a un certo punto, però. Perché se al principio Alex è violento in maniera quasi passiva, o meglio, non davvero riflessiva, durante il film viene costretto ad essere buono (il che si rivela la vera follia, in quanto diviene incapace di applicare il più basilare istinto di conservazione animale), per poi tornare violento una volta per tutte. La scena finale è infatti emblematica e aperta alle interpretazioni: sullo sfondo sonoro della musica di Beethoven, Alex ha una sorta di visione, nella quale lo si vede fare sesso sulla neve, applaudito da una folla di gente. Le persone che lo circondano sono benestanti e potrebbero rappresentare la società borghese che lo incita ad utilizzare la sua potenza animale, ma secondo i tempi e i modi di quella stessa società.
Un particolare in più: i colori di questa visione sono piuttosto saturi e poco naturali, al punto da sedurre l’osservatore e al contempo torturarlo. In un passaggio del film, Alex diceva «È buffo come i colori del vero mondo diventano veramente veri soltanto quando uno li vede sullo schermo».
Nel finale, dunque, Alex sceglie la violenza con una consapevolezza spregiudicata ben maggiore: la sua malvagità si è acuita proprio affinandosi e raffinandosi nel recinto della civiltà. Da quel momento, non sarà più un folle, un sociopatico o un diverso, ma un apparente integrato, utilizzato come strumento del potere contro i suoi simili.

Un altro detto recita: “Si nasce incendiari e si muore pompieri”. In questo caso, però, il detto più corretto sarebbe qualcosa come “Si nasce anarchici e si muore dittatori”.
Eppure quanto fascino risiede nella sua figura? C’è un carisma indiscusso che più volte smuove qualcosa di atavico dentro lo spettatore, che difficilmente è vera e propria ripugnanza. Anzi, in fondo è in personaggi cinematografici (o letterari, etc.) come Alex che si costruisce una sorta di idolatria e una non celata ammirazione. Basterebbe citare i vari Dracula, Hannibal Lecter, Napoleone, Travis Bickle e la lista potrebbe andare avanti all’infinito, spaziando tra personaggi diversissimi tra loro e presi in prestito tanto dalla finzione quanto dalla realtà storica. Personaggi e persone che, nell’immaginario collettivo, sono accomunati dall’aver compreso qualcosa, dall’essere stati colpiti come… «come da un diamante», direbbe il colonnello Kurtz.

Vi è poi un aspetto di Arancia meccanica e dell’introduzione di questo articolo che è rappresentato al meglio da Qualcuno volò sul nido del cuculo (1975), per la regia di Miloš Forman.
Parliamo del fatto che non si possa sempre considerare la deviazione dalla norma nei termini di una patologia. Questo sembra ovvio, ma solo perché tendiamo a pensare al termine patologia come a qualcosa che viene “attribuito” da un esperto in materia al proprio paziente. In realtà, la tendenza a patologizzare un soggetto o un gruppo di soggetti è un’attitudine che coinvolge ognuno di noi e che parte dalla semplice etichetta sociale, per poi, in molti casi, degenerare. In genere, siamo tentati a considerare patologico (nel senso di anormale, eccessivo) tutto ciò che è più distante dal nostro modo di concepire la realtà, insomma dalla nostra cultura, sociale e personale.

In questo senso, sarebbe come pensare ad uno di quei mangiatori di cadaveri orientali, di cui ci parla Erodoto, trapiantato nella Grecia di allora e giudicato da tutti come il peggiore scempio del genere umano. Un sub-umano, uno schiavo.
In Qualcuno volò sul nido del cuculo, il mangiatore di cadaveri è metaforicamente Patrick McMurphy. Criminale recidivo, riesce a farsi trasferire nel reparto psichiatrico del carcere, in modo tale da non lavorare. È astuto, o così crede, e si finge folle, finché non è coinvolto personalmente nel sistema del reparto, vero e proprio riflesso cronicizzato del funzionamento della società.
McMurphy comincia ad indignarsi per il trattamento che l’infermiera Ratched riserva ai pazienti e insiste nel dire che non si possano considerare dei malati di mente. Diversi, questo sì; un po’ anormali, questo anche, ma non «più pazzi della media dei coglioni che vanno in giro per la strada, ve lo dico io». Qualcosa di simile a quanto diceva lo psichiatra Ronald D. Laing in L’io diviso (1955), sostenendo che nella società contemporanea siamo tutti schizofrenici, benché in gradi diversi, e che in questi termini sia persino assurdo pensare a malati che curino altri malati.

Verrebbe qui da aggiungere una considerazione: che cosa fanno due persone che condividono uno stesso problema e che sanno di trovarsi “sulla stessa barca”? Cercano una soluzione, insieme, per interesse comune e, se scoprono che non c’è una soluzione, possono se non altro consolarsi a vicenda. In una prospettiva societaria, tuttavia, finisce che chi dei due ceda per primo nella ricerca di una soluzione si trasformi in paziente e che l’altro malato, forte dell’aver dato un significato al proprio tempo e una colpa esterna a se stesso a cui attribuire la negatività, si erga a modello di sanità.
Di fronte a questo scenario, il folle – che come abbiamo visto è più simile a noi di quanto crediamo a causa di una dissociazione – può trovare due estreme soluzioni. La morte, certo, oppure la fuga nel silenzio, come fa l’indiano Grande Capo nella pellicola di Forman, in senso fisico e metaforico. Annullando la comunicazione, facendo venire meno la parola, con la quale l’essere umano tenta di dominare l’altro e che è oltretutto la principale causa di incomprensioni, Grande Capo riesce a mantenere una propria libertà rispetto al sistema.

Se in questo film è l’ambiente di cura a stigmatizzare il paziente, anziché reintrodurlo nella società (non può farlo, in quanto tale ambiente è rappresentazione della deviazione della società stessa), in Joker (2019), che vede alla regia Todd Phillips, la follia si realizza in una città molto particolare, Gotham.
Arthur Fleck è un clown fallito, che aspira a fare il comico e che vive con la madre anziana, Penny. La forza di questo Joker sta nel riconoscimento che gli dà la folla e non tanto per il suo genio criminale, quanto per il simbolo di liberazione che viene a rappresentare. Joker è quel genere di folle che sa che non vi può essere dialogo tra pazienti-autoconsiderati-sani e pazienti-ritenuti-malati, e che tuttavia non accetta di starsene in silenzio e di vivere nell’isolamento. Al contrario, grida il suo disprezzo e si pone in modo carismatico come colui che ha capito il meccanismo depravato che sostiene il rapporto tra sanità e malattia, ovvero il rapporto di potere. E scatena il caos. Per null’altro fine che il caos stesso, ovviamente. Ed esiste anche un esempio storico ben noto per spiegare il meccanismo con cui il potere stabilisce coloro che sono i “puri” e coloro che sono “malati”.

A ciò si aggiunge un ulteriore elemento, che è lo sdoganamento del tema della malattia mentale negli ultimi vent’anni. C’è un pubblico di massa che, convinto o meno, considera le malattie mentali con sguardo positivo e tra il serio e il faceto si proclama “folle”, “psicopatico” e orgogliosamente “diverso”. Si fa un po’ di confusione? Sì e no. Sì, se parliamo da una prospettiva medica o sociale; no, se osserviamo il fenomeno da un punto di vista culturale, in quell’accezione che abbiamo citato prima di anormalità ed eccesso.
In questa accezione, il Joker di Nolan può apparire più vicino a questo grande pubblico, poiché la sua ribellione è in qualche modo ironica, persino leggera, benché spietata. È più pop. Mentre il Joker di Philipp è per molti versi respingente proprio per la sua malattia, che è sanzionata da cosiddetti esperti. Egli viene incontro alle aspettative della folla solo quando agisce per se stesso, esprime una propria volontà: quando assume la “maschera”, Joker diventa un leader e un’icona (si pensi alla sua posa da Cristo sulla croce), tanto per la massa di Gotham quanto per gli spettatori.

Qui il tema si allarga dunque dal singolo alla massa. Ma forse che l’intera massa possa definirsi folle? Ancora una volta, no: la massa può essere ignorante, manipolata, oppure cosciente e ben organizzata, ma folle… può vivere momenti di follia quando agisce come (in)coscienza collettiva e non più come singoli individui, ma si tratta appunto di questo: momenti.
La follia – lo abbiamo detto all’inizio e poi ripetuto – è eccezionalità, è genio, che si realizza nel bene e nel male, o in entrambi. Non è una questione che riguardi la massa, che può però essere guidata da un singolo individuo e ridotta a strumento. Per assurdo, inoltre, il folle necessita del riconoscimento della massa affinché la sua eccezionalità sia apprezzata da se stesso (altrimenti può esserci dubbio, che conduce a pessimismo esistenziale o autodistruzione); ma a sua volta il folle è usato dalla folla come capro espiatorio. A lui è concesso di esagerare a nome di tutti, deresponsabilizzando la massa stessa e fungendo così a sua volta da strumento.

Nella violenza, le masse disilluse e arrabbiate vedono un male necessario, l’unica soluzione per ottenere ciò che davvero desiderano, la giustizia, intesa come riequilibrio di potere tra ricchi e poveri. Rabbia e frustrazione sono però tenute a freno dai codici culturali (etica, religione, senso comune), che per quanto criticati agiscono quotidianamente nel pensiero collettivo. Questo limite viene meno quando un individuo osa fare quel passo in più, e scopre che la violenza è in grado di farlo riappropriare di una parte del suo potere sulla realtà.
Joker sembra agire in questo modo: compie il gesto eccezionale, folle, benché non possa definirsi genio nel modo in cui siamo soliti intenderlo e quindi siamo abituati a definirlo in altri termini, come criminale, malato mentale, diavolo.
Eppure, che cosa dice il discorso completo del colonnello Kurtz, che prima abbiamo solo accennato?

«Ricordo quando ero nelle forze speciali, sembra siano passati mille secoli. Siamo andati in un accampamento per vaccinare dei bambini. Andati via dal campo, dopo averli vaccinati tutti contro la polio un vecchio in lacrime ci raggiunge correndo, non riusciva a parlare. Allora tornammo al campo, quegli uomini erano tornati e avevano mutilato a tutti quei bambini il braccio vaccinato, stavano lì ammucchiate, un mucchio di piccole braccia. E mi ricordo che ho pianto, io ho pianto, come una povera nonna. Avrei voluto cavarmi tutti i denti non sapevo neanche io cosa volevo fare, ma voglio ricordarmelo non voglio dimenticarlo mai e a un certo punto ho capito, come se mi avessero sparato, come se mi avessero sparato un diamante, un diamante mi si fosse conficcato nella fronte e mi sono detto: “Oddio che genio c’era in quell’atto”. La volontà di compiere quel gesto: perfetto, genuino, completo, cristallino, puro. Allora ho realizzato che loro erano più forti di noi perché riuscivano a sopportarlo, non erano mostri erano uomini, squadre addestrate. Questi uomini avevano un cuore, avevano famiglia, avevano bambini erano colmi d’amore, ma avevano avuto la forza di farlo. Se avessi avuto dieci divisioni di uomini così, i nostri problemi sarebbero finiti da tempo. C’è bisogno di uomini con un senso morale e allo stesso tempo capaci di utilizzare il loro primordiale istinto di uccidere senza sentimenti, senza passione, senza giudizio perché è il giudizio che ci indebolisce».

Nel genio, nella follia, bene e male si confondono nella loro eccezionalità. Ma non basta dire che i due aspetti non esistano affinché si fondano l’uno con l’altra, dal momento che è la scelta – direbbe Kierkegaard – a determinare un’azione sostanziale in una delle due direzioni.
Ritornando a Joker e ad altri personaggi, la critica che giustifica la violenza proviene dal fatto che l’antagonista non abbia una controparte moralmente valida a combatterlo. Poiché coloro che dovrebbero rappresentare la massima espressione morale sono coloro che hanno il potere e che hanno un debito che è appunto morale nei confronti dei dimenticati.
Un debito che nasce dal fatto che il potere ha la necessità primaria di conservarsi. Oltre al già citato esempio di Arancia meccanica, si pensi a Travis Bickle in Taxi Driver (1976), che viene elevato ad eroe proprio dalla classe dominante, sfruttandolo più o meno consapevolmente (è il ben noto bisogno di “eroi”). Il potere sfrutta tutto e il contrario di tutto per potersi preservare. E si noti: non stiamo parlando in una prospettiva ideologica (marxismo, etc.), ma che si potrebbe definire post-ideologica. Stiamo parlando di una sorta di dato empirico: proprio per lo status del potere, che prevede un’egemonia di pensiero, esso è in grado di prendere l’elemento eversivo, separarlo dal proprio ambiente naturale e trasformarlo nell’esatto opposto.

Così come il potere aveva abusato di lui e dei suoi simili prima della “rivolta”, così perpetra l’abuso anche in seguito. E l’eversivo, isolato e sublimato, diventa un vincitore nella lotta di una società individualista, dove però è vincitore non sugli individui al potere, ma sui poveri da cui si distacca. Questa è una prospettiva complementare a quella citata del leader-strumento di massa: elevato dalla folla ad un ruolo superiore e simbolico, il diverso ottiene indirettamente un risultato personale frutto di quell’ambizione individualista che lo aveva accompagnato per tutto il tempo. Il riconoscimento – come detto – è la condizione essenziale con cui il folle-genio può continuare ad esprimere se stesso senza cadere nel pessimismo.
Joker dice non a caso: «Per tutta la vita, non ho mai saputo se esistevo veramente. Ma io esisto. E le persone iniziano a notarlo».

Abbiamo dunque citato folli come malati mentali o come concetti culturali; folli al potere o contro di esso; folli geniali per la loro superiorità morale o diabolici per la loro spregiudicatezza; infine, folli che strumentalizzano e che sono strumentalizzati.
Ma queste divisioni concettuali, utili a comprendere il folle nella sua fenomenologia, rischiano di non far comprendere la sua vera natura, che è una commistione in percentuali diverse di tutti questi elementi solo apparentemente contraddittori. E la comprensione stessa per via logica di un’entità così eccezionale e irrazionale non è comprensibile se ci poniamo dall’alto di una prospettiva di sanità e di conformismo. Se è vero che un malato difficilmente potrà curare un altro malato o ritenersi migliore di lui, è altrettanto vero che nessuno meglio di un “malato” può comprenderne un altro per ragioni e sentimenti. Forse, è tutta una questione di libera volontà nel momento in cui diviene possibile uscire dai propri recinti di sicurezza.

Commenti

  1. I folli non piacciono, vengono considerati strani e isolati. Ma se sono cattivi allora vengono osannati. Rappresentano la personificazione di molti nostri desideri nascosti. Il cinema è pieno di questi personaggi e negli ultimi tempi questa moda del "bel cattivo" si sta diffondendo sempre di più. Sembra che essere cattivi paghi di più che esser buoni e tutti aspirano alla crudeltà che identificano anche come libertà di poter fare tutto ciò che si vuole.

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    1. Concordo perfettamente con quello che dici; solo per citare uno degli ultimi prodotti sul mercato, c'è il film 'Cruella', che ormai non nasconde più l'estetizzazione della malvagità, ma anzi la rende sempre più desiderabile.

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