Arte e scienza. La trasmissione del sapere e il mito deleterio dell’evoluzione

K. F. Schinkel, Salone delle Stelle nel palazzo della Regina della Notte (1815)

Ѐ un’opinione molto diffusa ai nostri tempi quella che sostiene che nell’arte non ci siano più idee, poiché sarebbero già state tutte realizzate. Con il termine “arte” si intende evidentemente non solo l’arte in senso stretto, ma in generale la letteratura, la cinematografia, la musica e qualunque altro prodotto della mente umana a cui viene comunemente attribuito un valore artistico.
Ora, questa impressione ha origini piuttosto antiche e, per esempio, già alcuni pensatori dell’antica Roma ritenevano che il patrimonio greco avesse fornito all’umanità una base per lo più insuperabile, in particolare a livello artistico. Non a caso, il maggior pregio della cultura romana si esplicò senza dubbio nel diritto, per non parlare dell’alto livello ingegneristico di cui ancora oggi possiamo vedere le tracce. Certo, non tutti nell’antichità romana erano a tal punto filo-ellenici, tanto che l’arte romana sviluppò una propria via e segnò un notevole sviluppo soprattutto in àmbito architettonico. E tra coloro che “portarono avanti” l’arte non mancarono nemmeno personaggi che quel magnifico (spesso ideale) mondo greco lo apprezzavano e ne erano anzi profondamente influenzati.
Quest’ultimo punto mette in evidenza un elemento importante: l’arte che ci ha preceduti non solo condiziona la nostra realtà artistica (sia che la si approvi, sia che vi ci si opponga), ma attraverso l’arte che il presente produce, il passato può essere trasmesso.

Oggi siamo abituati a pensare alla conservazione del sapere attraverso il mezzo per eccellenza, il libro: prima della stampa vi erano gli amanuensi e oltre e prima della carta altri supporti, dalla pergamena, al papiro, persino alla pietra. Tuttavia, prima ancora che questo genere di trasmissione scritta prendesse il sopravvento, la trasmissione avveniva in forma orale: poteva trattarsi della trasmissione di un sapere tecnico all’interno di una famiglia; di un modo per legittimare una proprietà sulla base di una consuetudine di cui tutti erano partecipi; poteva infine trattarsi della trasmissione di saperi di ordine spirituale. Tutto ciò proseguì anche con la diffusione della scrittura, ma a poco a poco perse quasi ogni valore, in particolare proprio nel contesto spirituale.

Questa concezione si affermò largamente con l’invenzione della stampa e con la rivoluzione scientifica del Seicento, che determinò la validità di una data conoscenza solamente quando questa poteva fornire prove (dunque fonti, perlopiù scritte) della sua veridicità. Qualcosa di simile era già accaduto, per esempio, nell’Alto Medioevo, quando molti monasteri, a causa del clima politico incerto, si premurarono di individuare (cioè spesso “creare di sana pianta”) atti di fondazione o di cessione che attestavano appunto un antico diritto a possedere quella determinata proprietà. E qualcosa di simile si ritrova anche nella celebre Donazione di Costantino, riconosciuta quale falso solo a secoli di distanza dalla sua creazione.

Dunque la scrittura ci mise millenni ad affermarsi come mezzo di conservazione e trasmissione del sapere, ma alla fine ebbe la meglio. Nel Settecento ci fu un ulteriore sviluppo. Sull’onda di una ricerca di tipo enciclopedico, che ormai si apriva non più alla sola Europa, ma al resto del mondo, il modello di sapere che si affermò doveva tenere conto delle fonti, saperle indagare in forma critica, escludendo tutto ciò che in maniera piuttosto vaga e generalizzante fu definito “superstizione”.
Ѐ bene precisare subito che molto dell’eredità culturale e sociale dei millenni precedenti, che ancora sopravviveva, era a tutti gli effetti una superstizione, questo se non altro nell’ottica del metodo scientifico. Vi era però in quel sapere una memoria più antica, forse ormai inutilizzabile, forse tramandata in modo errato nei millenni, che però non poteva ridursi a banale superstizione. Fortunatamente, gli eccessi dell’età dei Lumi (fondamentale per la coscienza dell’umanità, ma comunque non scevra da eccessi) furono ridimensionati dalla nascita di poco successiva di una coscienza di ordine meno razionale e più sentimentale. Il Romanticismo, tra quest’ultime correnti, ebbe il pregio di rivalutare il Medioevo, la spiritualità e il sentimento umano, in un efficace contrappeso al razionalismo che, isolato e chiuso in se stesso, rischiava di sfociare in una fede tanto cieca quanto antiscientifica.

In prospettiva, dunque, questi due poli si confrontarono e si scontrarono, ma è evidente che risposero a due necessità espressive dell’essere umano. E la trasmissione del sapere? Proseguì in àmbito scientifico, basandosi su un metodo ormai consolidato, e in àmbito umanistico, fondandosi tanto sulla fonte scritta quanto sulla fonte orale. Il pregio di quest’ultima ricerca era ed è quello di poter affondare le mani alle origini del mondo, ma questo – è evidente – rappresenta anche il rischio maggiore. D’altra parte, la ricerca scientifica talvolta ha scoperto e scopre alternative ad un sapere tradizionale, così come – e non è raro – conferma saperi piuttosto antichi, pur adattandoli al proprio linguaggio e alla propria percezione della realtà (curiose sono le analogie tra tradizione e scoperta scientifica di cui gli scienziati ignorano l’esistenza).

Ma, all’inizio di questo testo, ricordavamo come sia un’opinione comune che nell’arte – e a questo punto diremmo anche nella scienza – non sembri più possibile creare qualcosa di nuovo. Nel contesto scientifico questo è da escludere, almeno in parte. Soprattutto negli ultimi due secoli, la scienza ha avuto uno sviluppo tale da essere diventata in molti campi di studio piuttosto specialistica e di difficile comprensione all’esterno. Una persona comune ha in mente figure come Newton, Einstein, Hawking e pochi altri: fanno parte dell’immaginario collettivo, ma nello specifico sono molto poche le persone che hanno studiato, compreso ed elaborato i loro studi. Non è in effetti cosa da tutti poter affrontare argomenti che prevedano formule, calcoli e astrazioni di una certa rilevanza. D’altra parte, la scienza non si è fermata e in ogni campo di studio prosegue la sua corsa, talvolta con rallentamenti, talvolta con cambi di rotta, ma in sostanza non è immobile.
Lo stesso si può dire, per esempio, dell’arte in senso stretto. Il Novecento, in particolare la seconda metà, ha segnato un momento di svolta non da poco nella percezione dell’oggetto artistico e del concetto stesso di artisticità. La fotografia stessa ha contribuito a questo cambiamento, ma non è che un elemento di un processo ben più ampio, che ha radici persino filosofiche. In molte opere d’arte minimali e concettuali, ad esempio, siamo di fronte ad uno scambio tra forma e pensiero che spesso pende a favore di quest’ultimo fattore, rendendo incomprensibile ai più il risultato di quanto stiano osservando nella realtà.

Nell’Ottocento, sulla scia della teoria evoluzionista, si formò quasi il dogma dell’eterno progresso: l’umanità era destinata ad evolversi senza fine verso un benessere sempre maggiore. Un pensiero del genere, sostenuto oggi, farebbe ridere chiunque, eppure una tale assurdità ha fecondato decenni di storia, influenzando e offrendo l’alibi anche alla supremazia razziale. Posto che tale pensiero era appunto frutto di un razionalismo divenuto ormai dogmatico (e la storia lo dimostra, ragion per cui non ci soffermeremo), non si può negare che nella storia dell’umanità vi siano stati dei cambiamenti tali da aver mutato anche drasticamente il pensiero, lo stile di vita, la cultura e la socialità. Sarebbe però un errore confondere l’evoluzione tecnica con l’evoluzione umana: d’altra parte è sotto gli occhi di tutti come l’eccezionale tecnica raggiunta in campo militare non abbia significato altro che un miglioramento in termini di capacità di sterminio e di minaccia.
In casi meno drastici, però, troviamo innovazioni tecniche che hanno permesso all’uomo di rapportarsi in maniera diversa con se stesso e con l’esterno (si pensi all’invenzione dell’automobile e alla riduzione dei tempi di spostamento). Se tuttavia si prova a riflettere meglio, non è la tecnica ad aver permesso all’uomo di cambiare: è pur sempre il pensiero umano che, avendo individuato una soluzione per migliorare la propria esistenza, perfeziona o inventa uno strumento che gli renda più facile l’esercizio di ciò che il suo pensiero aveva concepito.

Tutto questo porta ad una conclusione: nell’uomo non è la tecnica (l’“oggetto materiale”) a fare la differenza, bensì il processo cognitivo (il “soggetto pensante”) che sta alle origini della sua creazione. Bisogna però uscire dall’idea di evoluzione così come l’abbiamo ereditata dall’Ottocento: nel caso dell’arte, per esempio, bisogna ritornare ad apprezzarla per ciò che è e non più solo per ciò che in una prospettiva storica rappresenta. Altrimenti il rischio è quello di un disinteresse verso la ricerca stessa di nuove formule. L’Uomo non evolve, bensì indaga la propria esistenza concentrandosi a seconda del momento su un preciso aspetto del pensiero. L’Uomo in quanto tale, per dirla in altri termini, non può concepire nulla più di quanto la sua costituzione esistenziale gli consenta. Ora, l’unica vera domanda, ancora insoluta, è quale sia questo limite e se vi sia un modo per oltrepassarlo.

Rimanendo però al nostro argomento, ciò che la trasmissione del sapere scritto (e ormai multimediatico) ha permesso è la conservazione – che col tempo diviene “Storia” – dei processi di pensiero applicati dall’Uomo alla realtà. Questo vantaggio potrebbe però essere solo in parte tale: da un lato, infatti, la preservazione di informazioni del passato ci consente di adattare il presente in modo tale da evitare non solo gli errori, ma anche la ripetizione di processi di pensiero già perseguiti. Dall’altro, proprio per queste ragioni, la conservazione del sapere odierno, che ha caratteristiche persino ossessive e maniacali, comporta una stasi nell’elaborazione di ulteriori processi di pensiero.
L’idea generale sembra essere che tutto ciò che qualcuno possa pensare sia già stato concepito e realizzato da qualcun altro, che sia nel presente o migliaia di anni addietro. L’idea generale è che non sia più possibile sbagliare come genere umano e che qualunque prospettiva coraggiosa sia automaticamente da marchiare come pericolosa. Ciò ha contribuito a provocare, tra le altre cose, una tendenza all’ipercorrettismo che ormai ha il sapore del ridicolo.
L’umanità, oggi, può apprendere dal passato ad ogni generazione (e non solo dal passato recente), ma, in definitiva, quella stessa umanità si rinnova ogni giorno e tutto ciò che impara al contempo lo disimpara. L’umanità è una coscienza che, per fasi, deve fare esperienza da sé del mondo, anche ripetendosi, purché l’esistenza sia vissuta indagando tutte quelle vie che possano farle comprendere i propri confini all’interno dell’Universo. La vera necessità, al massimo, è imparare a riconoscere quelle vie che conducano alla conoscenza e non all’autodistruzione.

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