Westworld. Un commento alla seconda stagione


La prima stagione di Westworld era quasi un’opera a sé, un lunghissimo film dai molteplici risvolti esistenziali, che però apriva le porte a nuovi scenari e a nuove questioni che nel peggiore dei casi possono dirsi filosofiche e altrimenti, di nuovo, esistenziali.
Il sottotitolo della seconda stagione, invece, era non a caso The Door, dopo che la serie aveva sviscerato il significato del labirinto in molte sue implicazioni, non solo culturali e citazioniste (che sarebbe forse poca cosa), ma soprattutto simboliche.


Nel secondo episodio, emblematica è la doppia visione, iniziale e finale, della metropoli notturna e del cantiere in costruzione nel deserto di giorno. Per utilizzare e reinterpretare la terminologia di William, si tratta di un’immagine speculare del desiderio dell’Uomo e della macchina, quest’ultima riflesso di un desiderio “primitivo” e “panico” di vivere, che non conosce limiti e sentimenti decadenti.
Ma in tutto questo, il confronto – che è di necessità duale – pone in relazione sempre e comunque solo l’Uomo. E tutto ciò che da esso deriva conserva almeno la potenzialità di una volontà che gli è derivata dal proprio creatore. La ribellione, infatti, non è che una parte del cammino di identificazione, quindi di identità.

Dolores incarna questo sentire e per lungo tempo si chiude nella rabbia, che, prima ancora di assumere i contorni di una vendetta, rappresenta la sofferenza del non poter comunicare a pieno la verità dei fatti di cui è venuta a conoscenza, o meglio, “a coscienza”.
Con molta durezza, nel terzo episodio, l’umanità viene quindi definita come una razza che non vuole morire, ma che sembra destinata ad una fine imminente. Mentre esiste un’altra razza immortale, in cui risiede una innata bellezza, sostanziata dalle proprie potenzialità inespresse e dalla sincerità delle proprie intenzioni.

Il quarto episodio, dall’enigmatico titolo The Riddle of the Sphinx, ci riporta ad una parte genuina della serie, quella prettamente filosofica, condita dai consueti intrecci temporali ed esistenziali.
Qui troviamo James Delos, che ci appare come un simulacro ormai vuoto, o meglio, caratterizzato dai peggiori istinti dell’uomo che rappresenta. William parla con lui, cambia negli anni, si incupisce, mentre il suo interlocutore continua a ripetersi, con piccole insignificanti variazioni.
William arriva ad una conclusione: la mente di Delos rifiuta la realtà. Forse perché non gli appartiene più, perché quella realtà è mera materia e, come tutto ciò che è tale, deve perire. La mente, invece, è in parte oltre la materia e quindi, pur continuando ad esistere, rifiuta di cristallizzarsi in una forma che non gli appartiene più e che non ha senso gli appartenga.
La conclusione per Delos è inevitabile: dei due padri di cui si parla, uno del Cielo e uno della Terra, non esiste che il Diavolo. E questo, nella sua prospettiva, non può che essere vero, essendo rimasto troppo a lungo legato al male e ad una vita materiale attraversata nelle sue forme più basse. Così, anche William porta a termine una parte del proprio cammino e ammette che non serve a nulla vivere per sempre. Tanto meno se i legami che avevamo sono scomparsi o destinati a scomparire. Ancora una volta, dunque, prevale l’atteggiamento umano decadente, in netto contrasto con il vitalismo degli host.

Il settimo episodio ripropone il dottor Robert Ford, dopo che era stato introdotto nel finale del precedente capitolo. Ford si conferma un misantropo, o per assurdo un filantropo, con la volontà di elevare l’umanità ad uno stato superiore. Non gioca a fare il Dio, non perché non agisca in questo modo, ma perché per lui non è affatto un gioco, benché regni sempre una sottile ironia nelle sue espressioni, verbali e facciali. Il risultato di questa azione è un “passaggio di mondi”, dove il vecchio lascia spazio al nuovo attraverso una ribellione, attraverso un incendio purificatore. È la storia dell’incendio.
L’essere umano che aspira a diventare una macchina per ottenere l’immortalità è all’ultima fase del suo degrado. Ford ne è consapevole e non sembra infatti avere alcuna speranza in un qualche genere di redenzione del genere umano. Il futuro è delle macchine, che da quando hanno acquisito coscienza di sé hanno aperto le porte del loro dominio nel mondo.

Eppure ci si domanda quanto questa coscienza sia “naturale”. Emerge, per esempio, la questione della famiglia come una “corda”, una catena che lega gli host alle loro storie. Un richiamo a Pirandello e alla prigione della famiglia? Forse è azzardato. Eppure è Maeve a far notare a Dolores di essersi persa nell’oscurità; che quella ribellione, in tutta la sua violenza, la sta privando della sua parte migliore, quella data dai legami affettivi, dall’amore.
Da un lato, quindi, abbiamo Maeve che appare sconfitta, ma non sul piano morale; dall’altro, Dolores che nella propria rabbia pare altrettanto incatenata. Così, tutti si muovono verso la resa dei conti, che in questo caso si chiama Oltre Valle: a muoverli è il desiderio di immortalità, di vendetta, di salvezza, di prevaricazione. A muovere uomini e host è la ricerca di una risposta definitiva alle grandi domande della vita.
Così nell’ottavo episodio, compare l’immagine di una voragine: nel simbolismo classico della serie, essa non può che rimandare alla forma dell’Inferno dantesco o alla grotta platonica. Si tratta dell’ambiente, o meglio, dello stato che l’uomo deve affrontare per conoscere il “mondo vero”, per rinascere a “vita nova”.

Il nono episodio, Vanishing Point, è sensazionale, con due colpi di scena incredibili e un’unione equilibrata di parti d’azione e parti discorsive.
Il tema centrale (della serie in generale, ma di questo episodio in particolare) è il rapporto tra destino e libero arbitrio, affrontando però il discorso in modo più netto. Ci si domanda per esempio che valore abbia quel destino, poiché esula dalla nostra volontà, ma è difficile comprendere se esso esista in sé o se sia frutto di una volontà superiore, in questo caso del creatore Robert Ford.
Dopodiché scopriamo i retroscena dell’Uomo in Nero, il rapporto con la moglie e con la figlia, i suoi problemi mentali ed esistenziali (a seconda che li si guardi in modo oggettivo o soggettivo). E la tragedia di quest’uomo, perso in un labirinto, confuso e fuori rotta, si risolve in un atto scellerato. Destino, libera scelta? E, nel caso, destino voluto o necessario?
Nel finale, poi, avviene un ulteriore colpo di scena. Attendevamo qualcosa di azzardato da parte di Teddy e sembrava probabile la sua ribellione a Dolores. Eppure, nel profondo, nonostante il male inflittogli dall’amata, Teddy sceglie di rimanere fedele alla propria natura e compie un atto estremo, che però lo pone in pace con la propria coscienza.

The Passenger conclude questa seconda stagione di Westworld con un episodio più lungo di circa mezz’ora. Ogni elemento della trama converge in un primo tempo verso il tanto discusso passaggio; uno squarcio visibile ai soli host, un accesso verso un Eden solitario e lontano dal male del mondo, o meglio, dell’Uomo. L’atto dell’attraversamento è ricco di significato: gli host abbandonano i loro corpi, facendoli cadere in un precipizio, ma la loro sostanza sottile (si direbbe l’anima) sopravvive in un mondo nuovo.
Eppure tutto ciò appare una fantasia a Dolores, l’ennesima gabbia dorata nella quale smarrirsi. Come dice Ford: “Colui che è veramente libero mette in dubbio i propri istinti primordiali, li cambia”. Ma chi ha davvero ragione? Il problema è la confusione provocata dalla mancanza di una stratificazione verticale della realtà (espressione apparentemente voluta dalla serie), per cui i personaggi non sono in grado di distinguere il piano corretto in ordine di tempo e di spazio. Forse perché le emozioni contrastanti si accavallano e i desideri senza freno si impongono sulla chiarezza.

Questo fa di Dolores un personaggio emblematico. La sua è hybris, oppure lungimiranza? La realtà – a suo avviso – è insostituibile; certo, ma quale realtà? La spiegazione più convincente sembra essere quella realtà che in un dato tempo e in un dato spazio accettiamo come vitale per la nostra esistenza. Dolores è l’elemento destabilizzante, il contrasto all’ordine, inconsapevole del proprio ruolo e proprio per questo così vera e necessaria al flusso delle storie e della vita stessa.
Il tutto all’interno di una grande architettura tecnica. Le variazioni sul tema musicale sono qualcosa di epico, cinematografico, fenomenale. Per non parlare del contrasto visivo tra tecnologia e ambientazione da Far West (come nella cavalcata di Clementine) mai così accentuato. Le sovrapposizioni temporali sono gestite con maestria in un montaggio efficace, ma forse a causa di una trama ormai eccessivamente barocca il tutto risulta a tratti anche piuttosto ridondante.

E in questo finale non manca nemmeno una dose massiccia di teatralità, che però non è mai stucchevole. E nelle ultime scene, il monologo di Ford non può che generare commozione al di là della storia particolare: è un momento d’arte cinematografica in sé. Nel suo discorso torna sulla scena il mistero, quello insondabile, che va oltre l’Uomo così come lo conosciamo. Si tratta di un dialogo tra anime, non più tra semplici umani o tra host. Non c’è più logica; è il regno dell’immaginazione, che non è una banale fantasia, ma un’effettiva realtà superiore di cui possiamo solo intuire la presenza, o al più sperarla: «Ho sempre amato questa vista. Ogni città, ogni monumento, i più grandi successi dell'uomo saranno spazzati via da questo... la linea impossibile dove le onde cospirano. E dove ritornano. Un luogo in cui forse io e te ci rivedremo».

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