Il viaggio dantesco nel Costruttore di Stapledon
La lettura de Il costruttore di stelle
di Olaf Stapledon è stata complessa. Ho compreso perché alcune persone con cui
avevo parlato, e che lo avevano già letto, non l’avevano concluso. Star
Maker (1937) ha lo scheletro di un romanzo, la struttura di un memoriale e
la forma di un saggio.
Al suo interno si trovano tematiche
sociali, antropologiche, biologiche, scientifiche e filosofiche: è ciò che io
chiamo un “romanzo di idee”, un testo che segue le orme del precedente Last
and First Men (1930). Dalla storia della specie umana a quella
dell’universo, l’opera di Stapledon mi è apparsa come un viaggio dantesco
influenzato dall’evoluzionismo; una riflessione sul rapporto tra creatore e
creazione e sull’unità intrinseca del cosmo.
La storia si può sintetizzare come segue: la
coscienza di un inglese (la sua anima?) esce dal corpo in maniera inspiegabile
e comincia a esplorare lo spazio. Per diverso tempo, visita l’Altra Terra, un
pianeta in cui la sua mente finisce per fondersi con quella di uno dei suoi
abitanti. I due riprendono il viaggio, fino a congiungersi con altre menti di
gruppo.
Nel corso dell’esplorazione, emergono
tematiche come il multiverso, l’idea delle stelle intelligenti e la connessione
telepatica non solo tra forme di vita “tipiche”, ma anche tra galassie e
persino con l’universo stesso. Il culmine è rappresentato dall’incontro con il
Costruttore, il quale si pone come un artista di fronte alla sua opera,
valutando con distacco la gioia e la sofferenza che ha provocato.
A questo punto, al narratore viene
concesso un “sogno fantastico”, un mito-documentario che gli permette di
osservare l’operato del creatore. Questi ha cominciato da un primo universo
giocattolo, in cui è la musica a-spaziale a rappresentare l’elemento più
originale, per poi proseguire con altri esperimenti, che includono l’universo
del viaggiatore, un universo trino (rappresentato da inferno, paradiso e una
realtà vissuta da un salvatore) e un universo ramificato che rimanda alla
meccanica quantistica. Affinando la sua capacità, il Costruttore giunge al
cosmo ultimo, in cui si realizza quale compimento di tutte le cose. Il
narratore può così tornare a casa, tentando di riportare alla mente concetti e
visioni ormai indecifrabili e incomunicabili.
Stapledon scrisse l’opera quando già si
percepivano venti di guerra in Europa e nel mondo. Le grandi dittature del
Novecento erano al potere e stava per attuarsi uno scontro tra visioni del
mondo divergenti. Nella prefazione al romanzo, scritta nel marzo 1937,
Stapledon, che non si sentiva un classico “scrittore impegnato”, motivò come
segue questo suo libro all’apparenza tanto distante dalle tematiche
socio-politiche della sua epoca: «E forse il tentativo di guardare questa
nostra turbolenta terra in uno sfondo di stelle può farci comprendere meglio,
non peggio, l’importanza dell’attuale crisi umana. Così come può forse
rafforzare la carità che dobbiamo avere gli uni verso gli altri.»
E, a conclusione dell’opera, tramite il
narratore si domanda come si possa affrontare un’epoca carica di tensioni
sociali, economiche e internazionali: «Due luci ci fanno da guida. La prima è
il nostro piccolo atomo di comunità, con tutto ciò che esso significa. La
seconda, il freddo ammiccare delle stelle, simbolo della realtà ipercosmica,
con la sua estasi gelida e trasparente come cristallo.»
Nel descrivere i pensieri del
protagonista, già nelle prime pagine emerge il valore dell’azione quotidiana.
Mentre grandi masse vengono manovrate da pochi uomini al potere e il singolo si
sente impotente, Stapledon invita a concentrarsi sulla realtà che ci circonda:
«Eppure quella nostra vita non era tutta soltanto una sterile fantasia. […] Non
stavamo forse tessendo insieme un’espressione autentica della nostra natura? E
dalla nostra vita non uscivano ogni giorno fili più o meno solidi di esistenza
attiva, che s’inserivano nella rete sempre crescente, nell’intricata,
eternamente proliferante trama dell’umanità?».
Dopodiché l’esplorazione ha inizio. Prima
in maniera confusa, persino involontaria; poi con sempre maggiore
consapevolezza. Solo che al principio lo «spaventoso deserto di tenebre e
sterile fuoco» annichilisce il protagonista, che inizia a percepire l’imponenza
inafferrabile dell’universo come un «Inferno particolare».
Il viaggiatore rallenta la sua corsa
incontrollata, poi la misteriosa forza locomotiva riprende ed egli capisce che
questa dipende «da una mente forte e distaccata dalla soggettività». In altre
parole: il viaggiatore deve abbandonare il suo desiderio di casa e compiere il proprio
cammino libero da catene.
Ripresa l’esplorazione, l’uomo si insedia
sull’Altra Terra e, dopo non poche difficoltà, entra nel corpo del filosofo
Bvalltu, con il quale nasce la prima unione mentale.
L’uomo impara a conoscere le peculiarità
del pianeta, a partire dal trattamento delle razze, un chiaro espediente
narrativo per parlare di un tema caldo tra i contemporanei di Stapledon: «Le
differenze razziali, che nel nostro mondo sono principalmente concepite in
termini di aspetto fisico, per gli altri-uomini erano quasi esclusivamente
differenze di sapore e di odore. […] Non solo le varie razze avevano cessato di
essere chiaramente localizzate, ma la civiltà industriale aveva prodotto una
serie di alterazioni genetiche che rendevano le vecchie distinzioni razziali
prive di significato.» Eppure, per quanto sembri chiara la posizione
dell’Autore, certe distinzioni sopravvivono: «In ogni paese un particolare
sapore veniva considerato il vero marchio di qualità della razza che lo
abitava, e tutti gli altri erano disprezzati, se non effettivamente condannati.»
Vi sono poi passaggi che ricordano le
letture sociologiche (e socialiste) di H. G. Wells, uno scrittore che peraltro
apprezzò Stapledon: «Le condizioni dei quartieri poveri potevano essere
tollerate, se si assicurava un ininterrotto rifornimento di lusso illusorio.»
Oppure, ci avviciniamo alle tematiche del
controllo di Orwell (ricordando che 1984 uscì soltanto nel 1949): «Inoltre,
si convenne di eliminare dalla Direzione Trasmissioni tutti i dipendenti
sospetti di simpatie per ideali tanto malfamati come il pacifismo o la libertà
di espressione.»
Infine – stupitevi pure! – l’Autore
anticipa un totale asservimento alla macchina, alla maniera di The Matrix,
ricollegandosi in chiusura ai temi bio-tecnologici di Huxley: «[…] fu inventato
un sistema grazie al quale un uomo poteva ritirarsi a letto per il resto della
vita e passare tutto il suo tempo a ricevere i programmi radio. Del nutrimento
e di ogni altra funzione corporale si occupavano medici e infermiere […]. Si
prevedeva perfino che, col tempo, il personale umano, dai medici agli
inservienti, non sarebbe più stato necessario. Un vasto sistema di produzione
automatica del cibo e di distribuzione del pabulum liquido attraverso tubi che
arrivavano alle bocche dei soggetti supini sarebbe stato integrato da un altro
complesso sistema di scarico.»
Il viaggiatore non si limita a conoscere
pratiche e usanze dei popoli dell’Altra Terra, ma compie dei confronti
inevitabili con il luogo da cui proviene. In particolare, di fronte
all’autodistruzione a cui vanno incontro gli abitanti dell’Altra Terra, egli
afferma che gli esseri umani, per quanto abbiano un simile atteggiamento,
avrebbero saputo risollevarsi in una situazione analoga. Da un lato, il
narratore è conscio delle problematiche della nostra specie; dall’altro, prova per
essa una genuina speranza.
Confrontandosi con Bvalltu, l’uomo
condivide una concezione ciclica degli altri-uomini, da un’età dell’oro a
quelle che portavano a una graduale decadenza. Di fronte a una tale
reiterazione di sofferenti lotte, non si può che accettare questa ciclicità, da
leggersi come «il terreno in cui cresceva lo spirito», oppure si cade
nell’orrore per l’indifferenza del Costruttore, vedendo in lui l’espressione
dell’Odio. Quest’ultima, però, è una prospettiva che denuncia la limitatezza
del punto di osservazione del viaggiatore, come si evince proseguendo la
lettura. Il narratore insegna a Bvalltu come esplorare il cosmo e i due
partono, per poi congiungersi ad altri esploratori: «Col tempo divenne chiaro
che noi, singoli abitanti di una moltitudine di mondi, avevamo una piccola
parte in uno dei grandi movimenti con cui il cosmo stava cercando di conoscere
se stesso, e anche di guardare al di là.»
Se le descrizioni dell’Altra Terra sono le
più estese, una certa attenzione viene riservata ad altre specie aliene, a
partire dagli Echinodermi, una razza che permette all’Autore di parlare di
religione, nella forma echinodermiana della “religione dell’Io”, quasi simile a
quella dell’amore terrestre, laddove: «Amore significa desiderare che l’essere
amato realizzi pienamente se stesso e, insieme, trovare nell’attività stessa
dell’amore un arricchimento, accidentale, ma vitalizzante, del proprio io.
Mentre, dall’altro canto, essere fedeli a se stessi, alla piena potenzialità
del proprio io, implica l’attività dell’amore, ed esige il disciplinamento
dell’io privato al servizio di quell’io più grande, che abbraccia la comunità e
la realizzazione spirituale della razza.»
Tuttavia, in termini pratici, gli
Echinodermi non sono diversi dalla moltitudine dei fedeli terrestri e, anziché
provare amore per il prossimo, finiscono per odiarlo e per rinchiudersi in una
mentalità tribale.
A un terzo del libro, le tematiche
spirituali si fanno centrali e il narratore, che era partito incerto e
controvoglia, afferma di avere chiara la ragione del suo peregrinare: «Il
motivo ispiratore del nostro pellegrinaggio era stata la medesima sete di
conoscenza che in passato spingeva gli uomini della Terra alla ricerca di Dio.
Sì, noi tutti, dal primo all’ultimo, avevamo lasciato i nostri pianeti di
origine per scoprire se, in relazione alla totalità del cosmo, quello spirito […]
fosse il Signore dell’Universo, o un bandito; onnipotente, o crocifisso.»
Si inserisce ancora il discorso della
ciclicità: la rinascita di una data specie permette la sua ascesa spirituale,
ma essa incontra limiti sempre maggiori quando si sviluppa in termini
industriali e meccanici. Riferendosi a una specie vegetale intelligente, scrive
l’Autore: «Infine, dopo pene indicibili, cominciarono a rendersi conto che quel
modo di vita era del tutto estraneo alla loro natura vegetale. Profeti e
personalità guida cominciarono a inveire contro la meccanizzazione, contro la
cultura dominante, scientifica e intellettualistica, contro la fotosintesi
artificiale. […] Il sistema di vita prodotto dall’industrializzazione svanì
come neve al sole. […] Le miserie del recente passato intensificavano per
contrasto l’estasi della ritrovata esistenza vegetativa.»
Certo, per comprendere piani di coscienza
superiori, le menti collettive divengono a loro volta ristrette e dunque si
rende necessaria una loro associazione in comunità, una condizione in cui
ciascuno possiede i ricordi dei singoli e ne vive le esperienze. È curioso che
Stapledon scelga di parlare di “natura umana” o dei suoi equivalenti nei
diversi pianeti, come a intendere che ogni essere vivente dotato di
intelligenza possieda una natura di fondo simile, che, forse, giustifica la
condivisione mentale.
A poco a poco, tale comunità psichica
inizia ad avvertire la presenza fisica del Costruttore nella trama stessa del
cosmo: «Sebbene nel tutto e in ogni singola cosa la temuta presenza ci stessa
indubbiamente di fronte, la sua stessa infinità c’impediva di assegnarle
qualsiasi lineamento.»
Su un piano che potrei definire “storico”,
il narratore si trova ad analizzare un’altra tipologia di associazione cosmica,
quella tra intere civiltà all’interno di una galassia. In particolare, descrive
gli “Imperi Uniti”, una forma di imperialismo religioso che mira a inglobare
civiltà – i “mondi sani” – restie al controllo del prossimo e portate al
pacifismo. Per fortuna, anzi, per provvidenza, le specie simbiotiche degli
ittioidi e degli aracnoidi permettono di portare un nuovo equilibrio nella
galassia, ma questo è solo un esempio dei molti modi del Costruttore per bilanciare
le sue creazioni.
La vera unità della galassia avviene in
forma pacifica per via telepatica, fino alla costituzione di un’“utopia
galattica”, in cui trovano spazio anche le civiltà estinte, come quella degli
uomini-piante, la cui esperienza viene «inserita nella trama della vita mentale
galattica.»
A questo punto, però, il narratore,
insieme alle altre menti, prova una certa stanchezza, convinto di aver ormai
osservato il pieno sviluppo dell’universo, osservato con piacere dal suo
creatore.
Stapledon allarga ancora la prospettiva: non
più pianeti e intere civiltà dotate di intelletto, ma persino le stelle, il cui
comportamento non è mai del tutto intelligibile. Per comprenderlo meglio, il
narratore impiega la metafora della danza e della musica, un espediente che mi
ha ricondotto alla concezione cosmica contenuta nelle opere di Tolkien: «Non
c’è dubbio che il rapporto tra le stelle sia perfettamente sociale, tanto da
ricordarmi quello che esiste tra i membri di un’orchestra, ma un’orchestra
composta da musicisti totalmente dediti allo scopo comune. Forse, ma non è sicuro,
ogni stella, eseguendo il suo tema particolare, è mossa non solo da una
finalità estetica o religiosa, bensì anche dalla volontà di dare alle sue
compagne ogni legittima opportunità di espressione.»
Con il trascorrere degli eoni, soli e
pianeti entrano in simbiosi nell’intera galassia. La mente galattica, in
qualità di unione di tutte le facoltà mentali di ogni stella, pianeta e
organismo vivente, contempla se stessa e, a ciascun membro, dice: «Io, mente
galattica, sono il paradiso in cui le mie progenitrici trovano infine la loro
ricompensa, la risposta al desiderio dei loro cuori.» In procinto di morire,
tale coscienza si prepara a salutare il grande Costruttore con «lodi adeguate».
Il viaggio volge quasi al termine e il
narratore parla di sé al plurale e si definisce una «mente comunitaria» di
portata cosmica, al punto da venire venerata «dalle moltitudini dei miei
piccoli membri» (altro che narratore onnisciente!), pur trovando ancora
inafferrabile il Costruttore. Ogni mondo utopico contribuisce a definire una
«cultura cosmica» e ciascuna galassia sviluppa una «speciale funzione mentale
creativa» che poi viene assimilata da tutti gli altri. A quel punto, la mente
cosmica si trova di fronte al Costruttore. Il viaggio dantesco ha raggiunto il
suo culmine: «All’autore umano di questo libro non è rimasto nulla di quel
millenario, eterno attimo, che pure sperimentò come mente cosmica, salvo il
sapore di un’amara beatitudine e pochi, incoerenti ricordi dell’esperienza di
cui quella beatitudine era il risultato.»
Con parole imperfette, il viaggiatore si
sforza di riportare quell’esperienza e racconta di una visione avuta oltre la
tridimensionalità, in un non-luogo, descrivendo un’abbagliante «luce
ipercosmica», «la fonte di ogni luce, vita e mente cosmiche». Allora sì,
sopraggiunge la definitiva presa di coscienza, il significato dei significati:
«“È abbastanza essere stato creato, aver incarnato per un momento il tuo
spirito tumultuosamente creativo. È infinitamente più che abbastanza essere
stato usato, servirti come abbozzo per qualche creazione perfetta”. Allora una
strana pace e una strana gioia riempirono il mio spirito.»
Al narratore viene dunque fornito il
sogno, o mito, in cui la narrazione si esemplifica: il Costruttore, in qualità
di spirito assoluto, contempla le sue opere fuori dal tempo, mentre, in
qualità di forma creativa dello spirito assoluto, attua le sue
creazioni. Si potrebbe leggere il Costruttore come un’entità che è al contempo
essere e divenire; o, meglio, un’entità assoluta che include il divenire: «il
Costruttore di Stelle, nella sua forma finita e creativa, era di fatto uno
spirito in sviluppo, in risveglio. Che fosse tale, e insieme perfetto
nell’eternità, è naturalmente inconcepibile per l’uomo.»
Inoltre, attraverso il mito, il narratore
può scoprire le “forme prime” degli universi. Nella definizione di spazio,
torna un concetto che è anche tolkieniano: «Lo spazio […] apparve per la prima
volta in un cosmo di musica, come sviluppo di una dimensione non spaziale.»
Seguono le creazioni dei vari universi, in cui lo spazio-tempo è o meno la
realtà fondamentale. Descrivendo l’universo in cui sono presenti inferno,
paradiso e mondo redento, il narratore precisa le caratteristiche del
Costruttore: «io m’inchinavo a Lui come unità di entrambi gli spiriti, il
“buono” e il “malvagio”, il mite e il terribile, l’umanamente e
l’incomprensibilmente disumano.»
Il mito descrive i vari universi, sempre
più maturi, fino al cosmo finale: «il Costruttore di Stelle creò il suo ultimo,
più mirabile cosmo, di cui tutti gli altri non erano stati che preparazioni. Di
questo universo, io posso dire soltanto che abbracciava nel suo tessuto
organico le essenze di tutti i suoi predecessori; e molto di più. Era come
l’ultimo movimento di una sinfonia, che può includere, con il significato dei
suoi temi, l’essenza dei movimenti precedenti; e molto altro ancora.»
Posto dinanzi al Costruttore quale spirito
eterno e perfetto, la luce che inonda il viaggiatore lo spinge a una naturale
venerazione, un misto di orrore e di meraviglia, in cui «forse c’erano tutta la
pietà e tutto l’amore, ma dominati da una gelida estasi.» A dire il vero, il
Costruttore è «ineffabile» e anche solo parlare di spirito è fuorviante. In
esso vi è un «di più» che è «un mistero terribile, che costringeva
all’adorazione.»
Caposaldo della letteratura
fantascientifica, Star Maker ha definito tematiche come l’ingegneria
genetica e il rapporto con società aliene molto diverse dalla nostra. Non solo:
Stapledon ha scritto un vero e proprio manuale sulla creazione mitologica.
Arthur C. Clarke ne trasse ispirazione – è evidente, per esempio, nel ciclo di Rama – ritenendola «l’opera di immaginazione più potente mai scritta»; Brian W. Aldiss lo definì il «grande libro sacro» della fantascienza. Come dicevo al principio di questa analisi: un viaggio dantesco influenzato dall’evoluzionismo, dall’idea che ogni forma di vita tenda per natura ad allargare la propria coscienza, fino a trovarsi di fronte al suo creatore.
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