Ritornare sulla strada con McCarthy

 


Lessi questo libro per la prima volta alle superiori, più di dieci anni fa, e l’ho riletto di recente grazie a un gruppo di lettura. Rimane, per me, la migliore storia su un rapporto padre-figlio, benché l’opera tratti anche altre tematiche.

 

Cormac McCarthy ci propone una visione brutale di un mondo post-apocalittico, in cui un ragazzino e suo padre percorrono un territorio devastato, in direzione sud, cercando di sopravvivere. Il paesaggio – un personaggio a sé stante – è desolato e ogni specie animale sembra essersi estinta. La civiltà è caduta; gli esseri umani vagano come fantasmi, prede e predatori, buoni e cattivi, secondo la nomenclatura manichea che organizza le giornate dei due protagonisti.

Il loro cammino sulla strada è il simbolo di una tenace resistenza («Chissà cosa incontrerai lungo la strada. Siamo sempre stati fortunati.»), che non accetta l’inutilità della vita e di tutte le cose, per quanto si sia perso ogni appiglio morale o di semplice umanità.

 

In un contesto tanto deformato, il bambino si domanda spesso che cosa significhi essere “buoni”, essendo posti di continuo di fronte a decisioni di vita o di morte.

Il padre è una figura protettiva, che cerca disperatamente di proteggere il figlio, sul piano fisico e morale, instillandogli l’idea di dover “portare il fuoco”. Vede in lui qualcosa di messianico, oltre che una bussola: «Nel sogno da cui si era svegliato vagava in una caverna con il bambino che lo guidava tenendolo per mano.»

 

Lo stile di McCarthy è scarno e essenziale, privo di virgolette o di segni di interpunzione tradizionali, un aspetto che conferisce al testo una qualità cruda e immediata, come di una materia primordiale spogliata da ulteriori costrutti sociali o grammaticali. Tale semplicità stilistica si riflette nella spoliazione totale del mondo descritto, ridotto ai suoi elementi più basilari: non vi sono orizzonti da scrutare, né cieli dai quali trarre ispirazione.

Il paesaggio è un corpo freddo e privo di vita: gli alberi cadono, il cielo è sempre coperto e non vi sono tracce al suolo di un rinnovamento o di una rinascita. Lo stato del mondo esterno riflette quello interiore dei personaggi, restituendo al lettore un senso di inesorabile fatalismo: «I giorni si trascinavano uno dopo l’altro, innumerevoli e innumerati.»

 

La relazione tra padre e figlio è il cuore del romanzo. Il giovane rappresenta l’unica ragione di vita per il padre, anche perché in lui vede una sorta di purezza morale incarnata che egli stesso fatica a mantenere.

I loro dialoghi sono essenziali, spesso monosillabici, eppure carichi di significato, e l’Autore riesce a esprimere l’intensità del loro legame con un’invidiabile economia di parole. Il rapporto tra i due personaggi costituisce quindi un microcosmo di ciò che resta di umano in un mondo che non è più a misura d’uomo.

 

Il punto di forza de La strada risiede – a mio parere – nella costante tensione tra desiderio di cedere alla disperazione («Il moto gelido e spietato della terra morta senza testamento.») e instancabile volontà di andare avanti. E non a ogni costo, ma sforzandosi di mantenere una bussola morale interiore. Il romanzo non offre soluzioni al dramma che inscena, ma si concentra sull’esperienza umana di una lotta contro gli elementi e contro i propri simili.

La prosa spoglia, la narrazione lenta e riflessiva, il dosaggio centellinato delle parole («Il sacro idioma privato dei suoi referenti e quindi della sua realtà.») rendono questo libro uno dei principali gioielli stilistici di McCarthy. È un testo che non indulge in sentimentalismi (tutto il contrario), ma che si rivela profondamente umano.

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