Biologia, orrore e progresso in H. G. Wells
Richard Powers, The Time Machine (2018) |
Herbert George Wells non nacque in una
famiglia aristocratica: fu grazie alle sue capacità e alle borse di studio che si
laureò in biologia e zoologia. La sua vita si riassume nella ricerca: probabilmente,
oggi Wells sarebbe un divulgatore scientifico con un canale YouTube molto
seguito. Scriveva per diverse riviste, non solo scientifiche, e i suoi articoli
assumevano anche un taglio propositivo: le sue idee diventavano uno stimolo per
il dibattito tra esperti. Quando l’ipotesi andava molto oltre le conoscenze
tecnico-scientifiche dell’epoca, ecco che la creazione fantastica prendeva il
sopravvento.
Vale la pena fare un parallelismo su
questo punto. Un suo contemporaneo, H. P. Lovecraft (di cui ho scritto qui),
aveva a sua volta competenze, benché da autodidatta, in materie come la geologia.
Negli scritti del Solitario di Providence non sono però presenti elementi volti
a creare un “legame sentimentale” con il lettore e questo fu uno dei fattori
che lo escluse dal successo in vita. Al contrario, Wells era alla ricerca tanto
del sentimentalismo quanto del sensazionalismo: nelle vicende fantastiche che
racconta non rinuncia mai anche all’aspetto avventuroso o d’evasione, che lo
avvicinava con facilità a un pubblico di massa.
D’altra parte, lo scrittore ebbe simpatie
socialiste e fu teorico dello Stato mondiale: una Nuova Repubblica, di matrice
anglosassone, che avrebbe dovuto affratellare la popolazione globale.
Lo scienziato faustiano
Copertina di The Island of Doctor Moreau realizzata da Dominic Harman per Orion Books |
L’interesse biologico di Wells emerge in
uno dei suoi primi classici, The Island of Doctor Moreau (1896). Qui lo
scienziato “costruisce” esseri mitologici unendo parti di animali diverse a una
forma umanoide. Queste creature possono tuttavia solo scimmiottare l’essere
umano, ripetendo a pappagallo una serie di leggi apprese con metodo pavloviano.
Gli animali finiscono per ribellarsi a queste catene: non perché le regole e le
leggi siano limiti di per sé, ma perché lo diventano se attribuite a creature
non umane o se vengono imposte come un dogma dai contorni divini.
Moreau ammette di non essere riuscito a
creare esseri con un’intelligenza sufficiente. Non solo: «E meno soddisfacente
di tutto è un elemento inafferrabile, non individuabile – non so esattamente
dove collocarlo –, che attiene alla sfera emotiva. Cupidigie, istinti, desideri
che compromettono l’aspetto umano, uno strano serbatoio nascosto che esplode
all’improvviso e travolge l’intera creatura con rabbia, odio, paura.» Ciò che
insomma il positivista Moreau non riesce a concepire è che l’essere umano non
sia quell’entità moralmente elevata che dovrebbe distinguerlo dalle bestie.
Uno dei punti forti dell’opera è nell’impressione
che questo esperimento suscita nel narratore, Edward Prendick, chiamato a
descrivere la regressione delle creature. Dalle sue parole, si ricava quanto
esse rappresentino, personificandola, la parte più bestiale della nostra
specie.
Dopo aver guardato in faccia tale natura,
Prendick torna alla cosiddetta civiltà, ma l’orrore del prossimo lo pervade: «Dicono
che il terrore sia una malattia; comunque posso testimoniare che, ormai da
anni, si annida nella mia mente un’incessante paura, una paura irrequieta quale
può provarla un cucciolo di leone domato a metà.» Questa paura è vedere le
persone regredire a bestie davanti ai suoi occhi: «Allora guardo i miei simili
intorno a me. E ho paura. Vedo volti acuti e brillanti, altri stolti o
pericolosi, altri volubili e insinceri; nessuno che abbia la calma autorità
dell’essere ragionevole. Mi sembra che l’animale stia per affiorare in loro,
che presto la degradazione degli abitatori dell’isola tornerà a manifestarsi su
larga scala.»
L’unico rifugio per Prendick è lontano
dalla confusione della città e delle folle, in solitudine, in un angolo in cui
possa dedicarsi alla lettura, agli esperimenti di chimica e alle osservazioni
astronomiche: «Non so come né perché, ma c’è un senso di infinita pace e di
protezione nelle scintillanti schiere celesti. Quanto in noi si innalza sopra
il livello animale deve cercare – a mio avviso – consolazione e speranza nelle
leggi grandi ed eterne della materia, non nelle cure quotidiane, nei peccati e
nei crucci degli uomini.»
In definitiva, il biologo che vive in
Wells trova conforto nelle leggi naturali, distanti anni luce dalle pretese di
dominio degli uomini sui propri simili.
Nel romanzo ritorna la figura dello
scienziato pazzo, o faustiano, molto in voga in quel periodo: si pensi, per
esempio, a Strange Case of Dr Jekyll and Mr Hyde (1886) di Robert
Stevenson, a A Thousand Deaths (1899) di Jack London e a Herbert West,
Reanimator (1921) di H. P. Lovecraft. Decenni dopo, Lord of the Flies (1954)
di William Golding può essere considerato un erede del filone. Ritorna
l’ambiente isolano, ma è tuttavia assente lo scienziato pazzo: l’esperimento
sociale è condotto direttamente dallo scrittore-osservatore. Qui le creature
umane sono le più libere e animalesche – i bambini – e si lasciano andare agli
istinti più primitivi.
Rispetto ad altri classici di Wells, The
Island of Doctor Moreau ha avuto meno trasposizioni cinematografiche e
questo, forse, ha preservato l’opera da quel rischio del “già sentito” a cui sono
sottoposti altri classici dello scrittore.
Su tutti, The Invisible Man (1897),
forse il suo romanzo più difficile da leggere oggi. Il pericolo infatti è di
avvertire un senso di noia fin dalle prime pagine. Sulla carta, il potere
dell’uomo invisibile è magnifico: può carpire segreti, entrare in possesso di
enormi ricchezze e intrufolarsi in angoli nascosti senza destare sospetto.
Jack Griffin, lo scienziato che scopre il
“segreto” dell’invisibilità, non riesce però a godere di un tale potere e
finisce per cedere alle peggiori inclinazioni: «Praticamente pensavo di poter
fare impunemente tutto quello che volevo, tutto eccetto rivelare il mio
segreto. Che importava quello che avrei fatto, che importavano le conseguenze;
non avevo nulla da temere.»
Venuto meno lo sguardo giudicante del
prossimo, l’uomo si sente libero da ogni freno inibitore. Eppure: «Passai in
rassegna le cose che un uomo considera desiderabili. Indubbiamente
l’invisibilità consentiva di ottenerle, ma impediva di goderne, una volta
ottenute. L’ambizione… a cosa serve trovarsi in un bell’ambiente, quando non ci
si può mostrare?».
Griffin esercita il proprio potere, ma non
ottiene quel controllo e quel rispetto sociale che si sarebbe aspettato:
disilluso, finisce per minacciare la popolazione, aspirando persino a diventare
una divinità che incute timore.
Quando, verso il finale, una folla riesce
a mostrare il volto di Griffin, sùbito scoppiano grida di repulsione e i
presenti chiedono che quel viso venga ricoperto. Come in The Island of
Doctor Moreau, l’orrore si manifesta nell’apparizione della bestialità in
un altro essere umano, che evoca in noi la consapevolezza di serbare in potenza
tale brutalità.
Il problema del romanzo è che l’idea
dell’uomo invisibile è ormai diventata un archetipo. Esseri invisibili
esistevano già nella mitologia greca, celtica, norrena, etc., ma in chiave
moderna questa figura è stata portata al successo da Wells. Ormai, il fatto è
che tra libri, film e serie tv, conosciamo tutte le potenzialità dell’uomo
invisibile e questo ci rende la lettura dell’originale meno piacevole rispetto
al passato.
I viaggi nel tempo…
Copertina del magazine Famous Fantastic Misteries (agosto 1950), realizzata da Norman Saunders e dedicata a The Time Machine |
Da studente, Wells fu allievo di Thomas
Henry Huxley, un accanito difensore dell’evoluzionismo darwiniano, nonno del
più noto scrittore Aldous Huxley. Il professore morì quando Wells non aveva
ancora concluso gli studi, ma egli portò avanti tali idee e le estese anche al
contesto sociale. Ciò è evidente, per esempio, in The Time Machine (1895).
Nel mondo dell’802.701, si trovano
creature considerate sublimi, gli Eloj, che non necessitano di lavoro e che
vengono serviti dai Morlock, esseri mostruosi, che non possono vivere alla luce
del sole. Tra di loro c’è una vera e propria differenza biologica, che sembra
però favorire i Morlock, in quanto, esercitando la forza, questi finiscono per
nutrirsi degli Eloj. Wells riporta un’idea netta al riguardo: «La forza è il
risultato della necessità; la sicurezza premia la debolezza.»
Facili i parallelismi tra Eloj e
aristocrazia e Morlock e classe operaia, ma Wells non si limita a questa
divisione sociale classica. Egli non perde infatti occasione di criticare
dall’interno la società borghese: gli Eloj sono la casta superiore, ma sono
esseri stanchi, che vivono in un placido e sterile benessere. Lo scrittore si
riferiva in realtà all’aristocrazia tardovittoriana, incapace di operare un
salto in avanti, di esprimere creatività e inventiva, motori dell’evoluzione
umana.
Al centro della storia l’ennesima figura di
scienziato, qui non nelle vesti faustiane, ma di un misterioso viandante: «Il
Viaggiatore era uno di quegli uomini che sono troppo intelligenti per essere
creduti: in sua presenza si aveva sempre la sensazione di non percepire tutto;
dietro la sua lucida franchezza, si sospettava sempre qualche sottile riserva,
qualche ingegnosa insidia.» A differenza di altri narratori e scienziati degli
scritti di Wells, non abbiamo qui un nome proprio e quel time traveler assume
un’aura oscura: non è nemmeno mai escluso che egli stia mentendo sul proprio conto,
se non fosse per alcune deboli prove.
Nel suo viaggio nel futuro, prima di
comprendere la suddivisione tra Eloj e Morlock, egli racconta di aver visto una
civiltà umana unificata, che in apparenza ha risolto molti problemi atavici
della nostra specie. La vita animale e vegetale è stata del tutto piegata alle
esigenze umane: l’aria è libera da moscerini e zanzare, la terra non presenta
muffe o erbacce; l’ambiente è costituito da una sorta di giardino edenico. La
medicina preventiva ha bandito le malattie e persino i processi di putrefazione
sono mutati. Il viaggiatore non vede segni di tensioni sociali e la vita
commerciale sembra abolita.
Nel corso del suo soggiorno, il
viaggiatore comprende infine il ruolo dell’aristocrazia, degli Eloj: non aveva
prevalso l’educazione morale e la solidarietà, ma lo scientismo applicato alla
sottomissione della natura e del prossimo.
Il viaggiatore non esclude che il
perseguimento di una società del benessere abbia portato a un primo stato di pace,
in cui il ricco era sicuro negli agi e il lavoratore veniva tutelato. Con il
passare del tempo, però, il primo aveva esaurito la sua carica vitale nella «grazia
effimera e fatua», il suo «sogno si era suicidato», mentre il secondo aveva
scavato nelle profondità sotterranee meccanizzando la propria esistenza.
Come conseguenza di questo benessere,
l’umanità appare indebolita: «In regime di sicurezza e abbondanza la tensione
vitale, che in noi è forza, sarebbe divenuta debolezza. Anche oggi certe
tendenze e certi desideri, un tempo essenziali alla sopravvivenza, sono all’origine
di fallimenti e sconfitte. […] È sempre stato questo il destino della virtù in
assenza di un avversario; la tensione vitale cerca appagamento nell’arte e nell’erotismo,
prima di abbandonarsi al languore e al disfacimento.» Per certi versi, un’incredibile
radiografia anticipatoria rispetto alla società del benessere in cui viviamo
oggi.
Tante le trasposizioni cinematografiche
sul tema della macchina del tempo. Il film che omaggia nel modo migliore
l’opera di Wells, pur discostandosene, è Time After Time (1979), con
Malcolm McDowell (A Clockwork Orange) nei panni del viaggiatore nel
tempo che finisce per scontrarsi addirittura con Jack lo Squartatore.
L’opera originale di Wells è però ancora
attuale quando discute sul tema del progresso. All’epoca in cui fu scritto, il
romanzo si inseriva in un contesto positivista: il narratore afferma di non
ritenere il suo tempo il più «fulgido» della storia dell’uomo, a causa delle
continue discordie e delle molte teorie frammentarie. E descrive il viaggiatore
del tempo come ancora più pessimista: «Il crescente sviluppo della civiltà gli
sembrava un cumulo che inevitabilmente sarebbe franato, distruggendo coloro che
lo avevano creato. Se è così, non ci rimane che vivere come se non lo fosse.»
…e nello spazio
Scena da The War of the Worlds, edizione belga del 1906 |
The First Men in the Moon (1901) è la
storia di due uomini – lo squattrinato uomo d’affari Mr. Bedford e lo
scienziato Cavor – che decidono di andare sulla Luna, sfruttando una sostanza
inventata dal secondo. Il romanzo ha avuto alcune libere trasposizioni
cinematografiche, tra cui The First Men in the Moon (1919) e il classico
First Men in the Moon (1964).
In questo caso, Wells si inserisce in un
filone già reso famoso dalla tradizione letteraria (Astolfo sulla Luna, nell’Orlando
furioso di Ludovico Ariosto) e ben noto alle antiche civiltà. In epoca più
recente, Jules Verne aveva scritto De la Terre à la Lune, trajet direct en
97 heures 20 minutes (1865), citato dallo stesso Wells nei primi capitoli e
principale fonte d’ispirazione per Le Voyage dans la lune (1902) di
Georges Méliès e per altre trasposizioni filmiche.
Come aveva fatto Verne, con gli strumenti scientifici
che poteva supporre trentasei anni prima, anche lo scrittore inglese cercò di
porre il discorso in termini non fantastici, ma squisitamente tecnici. Al
centro della narrazione, la scoperta della cavorite, una sostanza capace di
schermare la gravità, permettendo i viaggi interplanetari.
Molti di questi
elementi possono oggi risultare assurdi o basati su princìpi della fisica
superati, eppure il romanzo ha ancora qualcosa da raccontarci sulla natura
umana: «Improvvisamente una straordinaria possibilità mi balenò davanti. Ed
ecco che vidi, come in un sogno, l’intero sistema solare percorso da astronavi
e da sfere de luxe di cavorite. “Diritti di prelazione” fu il ritornello
che cominciò a fluttuarmi nella mente: “diritti di prelazione interplanetaria”.
E ripensavo all’antico monopolio spagnolo sull’oro delle Americhe.»
A parlare è Mr.
Bedford, l’esempio dell’uomo d’affari che coglie in una scoperta scientifica
l’aspetto commerciale e cerca di trarne un profitto personale. Venuta però meno
la figura di Cavor, rapito sul satellite dai seleniti, viene meno la
possibilità di ripetere i viaggi spaziali. Ancora una volta, Wells ci lascia con
una descrizione della società lunare che è un modo per confrontarci con la
nostra civiltà. I seleniti vivono come insetti sociali e il loro leader, il
Gran Lunare, è un cervello gigantesco. Ciò che lo sconvolge è sapere che gli
umani vivano in costante guerra tra loro.
Proprio il tema della guerra fa la sua
comparsa in The War of the Worlds (1897), forse l’opera più nota di
Wells, anche grazie agli eredi cinematografici. La narrazione è in prima
persona e racconta l’esperienza diretta di un’invasione marziana. Il testo
evoca quei memoriali che hanno valore catartico per il singolo, ma anche per la
comunità che ha vissuto la medesima esperienza.
In un primo tempo, gli umani, terrorizzati
dalla potenza dispiegata dagli invasori, tentano la via diplomatica. Si tiene
un consiglio e, poiché «evidentemente i marziani, nonostante il loro aspetto
ripugnante, erano creature intelligenti, si era deciso di mostrare loro,
avvicinandosi con la bandiera, che anche noi eravamo intelligenti.» La
deputazione si presenta sul campo, ma viene sterminata – si potrebbe dire – per
un malinteso, ovvero l’idea che l’intelligenza comporti sensibilità e buona
disposizione d’animo.
Prosegue la devastazione e il narratore entra
in contatto con un curato, il quale si domanda quali peccati abbia commesso
l’umanità per meritarsi questo. Il protagonista tenta invano di riportarlo alla
ragione, ma l’uomo lo interrompe parlando con toni apocalittici, ormai preda
della paura. E il narratore lo rimprovera: «È così spaventato da perdere il
senno. A che cosa serve la religione se crolla davanti alle avversità? Pensi a
ciò che, prima d’ora, i terremoti e le inondazioni, le guerre e le eruzioni
vulcaniche hanno fatto agli uomini. Credeva che Dio avesse concesso a Weybridge
un privilegio speciale?… Dio non è un assicuratore.»
Il narratore cerca poi di infondergli
speranza, parlandogli di come aveva visto uccidere un marziano: «Come possono
essere uccisi i ministri di Dio?» domanda il curato e il protagonista non può
che rispondergli alla maniera di san Tommaso, con l’evidenza fattuale: «Ero
presente quando è accaduto. […] Mi è capitato di essere nel mezzo della
mischia, […] e questo è tutto.»
In Wells l’elemento divino è distinto da
quello religioso e il passaggio descritto ne è una prova. Proseguendo nel
romanzo, il narratore scopre dozzine di marziani morti, questa volta non per
mano dell’uomo, ma «uccisi dai bacilli della putrefazione e del contagio contro
i quali i loro organismi non erano preparati; uccisi come stava per essere
uccisa la gramigna rossa; uccisi, dopo che tutte le macchine dell’uomo avevano
fallito, dalle più umili creature che Dio, nella sua infinita saggezza, ha
messo sulla terra.»
La divinità di Wells è nascosta nella
natura che ha creato e non si manifesta nelle forme ovvie che l’umanità si
aspetterebbe. A ciò si aggiunge una lettura in chiave quasi umanistica del
destino della nostra specie: «Mediante il tributo di milioni di morti, l’uomo
ha acquisito il suo diritto alla vita sulla terra, ed essa è sua contro
chiunque venga per conquistarla. Sarebbe ancora sua, anche se i marziani
fossero dieci volte più potenti di come sono, perché gli uomini non vivono e
non muoiono invano.»
Dico “quasi umanistica” perché in realtà nella
lotta per la vita, in chiave biologica, nulla è certo e anche una specie
dominante potrebbe estinguersi. Il narratore introduce l’ipotesi che l’umanità possa,
un giorno, muoversi nello spazio come avevano fatto i marziani: «Oscura e
meravigliosa è la visione che ho evocato nella mia mente, della vita che
lentamente si sprigiona da questa piccola “serra” del sistema solare attraverso
l’inanimata vastità dello spazio siderale. Ma è un sogno lontano. Può darsi,
d’altra parte, che la distruzione dei marziani sia rinviata. A loro, forse, e
non a noi è destinato il futuro.»
Questa lettura relativista è proprio la
conseguenza della fine dell’idea antropocentrica di un’umanità quale unica
specie senziente nell’universo, promossa peraltro da tante fedi. Wells però non
si abbandona a tale relativismo e fa sostenere al suo protagonista che
l’invasione marziana sia stata un bene per l’umanità, perché ci «ha privato di
quella serena fiducia nel futuro che è la più fertile sorgente di decadenza; ha
portato alla scienza umana un enorme impulso e ha contribuito moltissimo al
concetto di fratellanza del genere umano.»
In poche righe, troviamo la sintesi sul
rapporto tra benessere e decadenza (visto in The Time Machine) e l’auspicio
di un governo planetario con popoli fratelli, un’idea cara al Wells della
maturità. Non uno Stato che controlli con la coercizione e con la
psicopolitica, sul modello di George Orwell, ma una pacifica Repubblica.
Quella di Wells rimarrà forse un’utopia,
ma è un’idea che precede i due conflitti mondiali e che rappresenta un
messaggio di speranza per la nostra specie.
Conclusione
Ritratto di H. G. Wells, fotografato da George Charles Beresford (1920) |
Il successo di Wells ha ormai superato il
secolo di vita, mentre – per ritornare a un parallelismo con un suo
contemporaneo – Lovecraft ha conosciuto un successo di massa solo nell’ultimo
trentennio, escludendo gli apprezzamenti di singoli registi e lettori di genere
nel corso del Novecento.
Lovecraft, scoperto più tardi, sta ora
germogliando. Tra qualche anno, ci sarà il reflusso e discorsi come quello sul
suo razzismo prevarranno su qualsiasi altra analisi. Il Solitario di Providence
ha avuto emuli e discepoli, ma non degni eredi che, oltre a imitarlo, l’abbiano
superato. L’onda lunga di Wells si è invece già esaurita e ha avuto validi
successori. Per esempio, il fumettista Alan Moore, che in The League of
Extraordinary Gentlemen ha recuperato l’immaginario dello scrittore inglese
(e di tanta altra narrativa ottocentesca) e lo ha trattato come qualcosa di
archetipico, rinnovandolo.
Leggere Wells, oggi, è come scoprire
l’origine dell’universo fantastico che continuiamo a edificare.
In The Island of Doctor Moreau,
Prendick precipita in una solitudine volontaria, con tratti di misantropia: il
dottor Moreau ha violentato le leggi della natura e i suoi eccessi hanno
generato l’orrore. È solo nell’osservazione degli spazi siderali che trova
conforto.
Così, in The War of the Worlds, il
narratore conosce un altro tipo di solitudine, quella di chi si distacca dalle
contingenze ed entra nel flusso vitale dell’esistenza: «Forse sono una persona
di umore stravagante. Non so fino a che punto ciò che provo sia condiviso da
altri. A volte soffro del più strano senso di distacco da me stesso e dal mondo
che mi circonda; mi sembra di osservare tutto dall’esterno, da un punto inconcepibilmente
remoto, fuori del tempo e dello spazio, fuori della tragica tensione di tutto.»
In quelle profondità, i personaggi lovecraftiani incontrano la follia; quelli di Wells la quiete interiore.
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