Un esperimento sociale nel condominio di Ballard

 

La copertina della prima edizione

Ho letto Il condominio (High-Rise, 1975) di J. G. Ballard nell’edizione Feltrinelli del 2007, che presenta una copertina con un particolare de La città nuova (1914) dell’architetto futurista Antonio Sant’Elia. Questi morì ad appena ventotto anni, nel 1916, combattendo sul fronte carsico, e la maggior parte dei suoi progetti non venne realizzata. Si attribuisce a lui l’idea di esporre gli ascensori sulle facciate, anziché tenerli nascosti, e il regista Fritz Lang si è ispirato alle sue architetture per la scenografia di Metropolis.

Alcune delle intuizioni di Sant’Elia interessarono anche il gruppo olandese De Stijl e l’opera di Le Corbusier. Quest’ultimo, nella sua raccolta di saggi Vers une architecture (1923), delineava una città delle torri improntata all’efficienza, in cui il rapporto tra tempo libero e lavoro si faceva più serrato. A una certa quota, Le Corbusier prometteva «la calma assoluta e l’aria purissima».

Secondo Ballard, proprio l’ordine e il razionalismo degli edifici modernisti spingerebbero le persone alla rivolta contro un meccanismo che tende a trasformarli nella parte di un congegno più grande (e importante) di loro.

 

Ora, è bene precisarlo: ho apprezzato davvero High-Rise solo dopo aver individuato le correlazioni con la storia dell’architettura, con gli esperimenti sociali del Novecento e con la biografia dello stesso Ballard. Questo perché il romanzo si può definire apodittico: lo scrittore ci mostra l’imbarbarimento degli inquilini di un mega-condominio in maniera troppo repentina e, in certi casi, poco credibile. Non ci viene spiegato perché l’essere umano ceda agli istinti con tanta facilità: il lettore deve accettare gli eventi così come vengono riportati.

Questo perché Ballard vuole dimostrare un’idea prima ancora che narrarci una particolare vicenda. A ciò si aggiunge uno stile di scrittura in cui i dialoghi sono quasi aboliti, i periodi sono spesso di lunghezza media o lunga, e abbondano le descrizioni, come se il narratore stesse riportando i dati di un esperimento.

 

L’edificio…

 

Antonio Sant'Elia, La città nuova (particolare, 1914)
 

In fondo, le storie degli inquilini non sono rilevanti. Il vero protagonista è l’edificio stesso: quaranta piani scanditi da venti ascensori, una struttura imponente che ricorda gli odierni progetti arabi di grattacieli-mondo nel deserto. Le torri sembrano sfidare il sole – scrive Ballard – e il condominio genera ombre sull’asfalto che hanno qualcosa di sinistro.

Il libro presenta un incipit che spiazza e che il lettore è chiamato a rileggere: «Era trascorso qualche tempo e, seduto sul balcone a mangiare il cane, il dottor Robert Laing rifletteva sui singolari avvenimenti verificatisi in quell’immenso condominio nei tre mesi precedenti.»

Perché una persona si trova a mangiare un cane sul balcone? La frase suonerebbe meno strana se ci trovassimo in Cina, dove in effetti nacque lo scrittore. Era adolescente quando insieme alla famiglia, tra il 1943 e il 1945, fu internato in un campo di prigionieri occidentali dell’esercito giapponese, che occupava allora la Cina. In parte raccontò la vicenda in Empire of the Sun (1984).

High-Rise conserva l’idea di una comunità internata – qui per propria scelta – e il romanzo rappresenta la conclusione di una tetralogia informale che include The Atrocity Exhibition (1970), Crash (1973) e Concrete Island (1974), incentrati sullo stesso meccanismo.

 

Il grattacielo sembra racchiudere in sé tutta la vita possibile: supermarket, parrucchieri, negozi di liquori, piscine, una scuola materna e così via. Il lettore ricava informazioni dal mondo esterno in modo indiretto: un gruppo di poliziotti che si avvicina all’edificio per capire come mai vi sia tanta incuria, un inquilino che conduce un notiziario ma si rifiuta di parlare degli stravolgimenti che stanno avvenendo al suo domicilio, etc.

Nei primi capitoli, le tensioni sono ancora sotterranee. Le persone più ricche organizzano festini con cricche di attori e fiumi di alcool; c’è chi parla – ai piani bassi – anche di un bordello in piena regola. Si odono diversi rumori da sotto e i non invitati non possono che immaginarsi, malignamente, a che cosa corrispondano.

Il primo serio conflitto si apre tra i padroni dei cani e i genitori di bambini piccoli, una rivalità che polarizza gli inquilini. I primi abitano i piani superiori, i secondi quelli inferiori: nel mezzo, un gruppo di appartamenti cuscinetto dal decimo al trentesimo piano. Presto però la situazione degenera a ogni livello: aumentano le lamentele indirizzate all’amministratore, in concomitanza con i malfunzionamenti degli ascensori, del sistema elettrico e idraulico. Le problematiche si moltiplicano e, anche a causa di una malagestione, gli inquilini iniziano ad attuare rappresaglie, che rispondono talvolta a un sentimento di invidia, come quello che coinvolge le donne dei piani superiori, ritenute per qualche oscura ragione più belle delle altre.

 

Dopo una serie di peripezie, che occorrono in poche settimane, il narratore scrive che il grattacielo era ormai diviso nei tre gruppi sociali classici. I primi nove piani appartenevano al “proletariato”, una classe medio-bassa di tecnici cinematografici e hostess; il decimo piano segnava una linea di confine tra loro e le classi più agiate.

Due terzi della parte centrale del condominio formava la classe media – la borghesia – con medici, avvocati e contabili. Ballard è cinico con loro: «Puritani in grado di disciplinarsi da sé, avevano l’alto grado di coesione di coloro che desiderano ardentemente piazzarsi secondi.»

Agli ultimi cinque piani, l’oligarchia di magnati e imprenditori, attrici e accademici arrivisti. Erano loro ad avere i servizi migliori, a stabilire le regole della struttura e a tenere a bada la classe media con ipocrita amicizia e senso di approvazione.

 

…e i suoi abitanti

 

Trellick Tower

 

Uno dei personaggi principali appartiene a questa borghesia: il dottor Robert Laing lavora al cittadino istituto di fisiologia, a pochi minuti dal condominio. È un trentenne che abita al venticinquesimo piano ed è in cerca di isolamento. Conosce Charlotte, una donna egocentrica che si fa portavoce delle lamentele degli inquilini. Sebbene Laing cerchi al principio di non farsi coinvolgere dallo scontro tra piani, il suo cambiamento è repentino. Dall’iniziale desiderio di isolarsi, l’uomo finisce per partecipare ai festini; appare un voyeur, un riflessivo conscio del fatto che qualcosa stia per scatenarsi. E alla fine, in mezzo a morti, feriti e fuggitivi, egli sopravvive e si ritaglia un suo micro-regno, costituito da un rapporto incestuoso con la sorella Alice e con l’inquilina Eleanor. Il legame con Alice è avvertito come conflittuale, perché a Laing ricorda «fastidiosamente» la madre, ma il senso di sicurezza che gli offre vince su ogni moralismo.

Un giorno, Laing si scopre felice, perché è sopravvissuto: riconosce la propria autonomia, l’abilità nel procurarsi il necessario e si compiace di aver dato sfogo alle proprie perversioni con le due donne. Quando nota che in un altro grattacielo c’è stato un guasto all’impianto elettrico, la sua soddisfazione giunge al culmine e si sente pronto a dare il benvenuto a quelle persone nel caos del selvaggio.

 

La storia di Laing si svolge quasi in parallelo rispetto a quelle di Anthony Royal e di Richard Wilder. Royal è l’architetto del grattacielo: primo abitante della struttura, vive in un attico che si è ritagliato su misura; in pochi, ai piani bassi, l’hanno visto e su di lui aleggia un’aura di mistero.

L’architetto viene così a rappresentare la personificazione di un tabù e, in una condizione di disinibizione, diventa il simbolo del potere “sacro” da detronizzare. In più, Royal stesso finisce per avvertire gli atti di vandalismo al grattacielo come offese personali: «Il disfacimento dell’edificio in quanto struttura sociale era per lui una ribellione nei suoi confronti […].»

Egli nota la nascita di enclave tribali e ritiene che possano essere l’anticipazione di un nuovo ordine di civiltà. Royal però è il primo a disprezzare l’enclave di cui dovrebbe fare parte. Vede nella moglie aristocratica, Anne, una donna insicura e terrorizzata dalla perdita di controllo, alla costante ricerca di una riaffermazione sulla vetta della piramide. E disprezza i suoi simili, per il loro buongusto che sa di maniera e per l’assenza «di ogni fioritura colorata», ovvero di ogni originalità e inventiva: «Royal detestava quella ortodossia degli intelligenti.» Un’idea cara a un altro scrittore, H. G. Wells, che in The Time Machine (1895), parlando della casta aristocratica degli Eloj, ma riferendosi in realtà alla borghesia tardovittoriana, la definiva sterile e compiaciuta, priva di vigore intellettuale, e quindi di futuro.

 

In Wells, l’espressione vitalistica è affidata ai Morlock, lavoratori del sottosuolo che sembrano mossi soltanto dall’istinto e dalla necessità. In High-Rise, Ballard costruisce qualcosa di analogo intorno alla figura di Wilder, per cui vale l’espressione latina nomen omen: il suo cognome, che significa “più selvaggio”, è un presagio di quanto tenterà di fare.

Si può dire che Wilder avverta l’appartenenza a una classe sociale inferiore e individui nella realizzazione di un documentario sul condominio uno strumento di emancipazione. Questa decisione ponderata e persino saggia si tramuta presto in ben altro. L’uomo è condizionato dalla moglie Helen più di quanto lasci trasparire. La donna lamenta la troppa ostilità dell’edificio, soprattutto verso i bambini: «In realtà, non sono davvero gli altri inquilini. È il palazzo…» dice al marito e questa intuizione diverrà propria di Wilder.

Anch’egli identifica il palazzo con il suo creatore, Royal, e comincia la scalata ai piani alti: il suo è un tentativo «di venire a patti con il palazzo, accettare la sfida fisica che gli proponeva e poi dominarlo.» La notte, Wilder percepisce le tonnellate di cemento dell’edificio su di sé, indirizzate volontariamente da Royal. La sua diventa una lotta personale contro il palazzo, di cui è almeno in parte cosciente. Qualcosa di simile si può ritrovare nell’oppressione a cui è sottoposto Jack Torrance, protagonista di The Shining (1977) di Stephen King: su di lui agiscono però forze soprannaturali, mentre l’edificio ballardiano è una rappresentazione tutta psico-sociologica.

Per Wilder, come per Torrance, il tentativo di ascesa sociale – l’affermazione come regista documentario o come scrittore – si tramuta in una regressione fatale.

 

Un esperimento sociale tra urbanistica e psicogeografia


Le Wendell O. Pruitt Homes e il complesso dei William Igoe Apartments

L’architetto Minoru Yamasaki, ideatore delle torri del World Trade Center di New York, aveva realizzato, tra il 1954 e il 1955, il progetto urbanistico di edilizia residenziale Pruitt-Igoe, a Saint Louis, Missouri. Nel 1972 cominciò la demolizione del complesso, che si protrasse fino al 1976: il teorico dell’architettura Charles Jencks definì l’evento la fine del modernismo e l’inizio del postmodernismo.

Yamasaki raccontò di essere rimasto colpito dalla violenza distruttiva delle persone e dal vandalismo che aveva coinvolto le trentatré torri del complesso. Già negli anni Sessanta, la zona versava in condizioni di estrema povertà, con alti tassi di criminalità e degrado. Probabilmente Ballard sapeva della situazione di Pruitt-Igoe; certo conosceva Alison e Peter Smithson, architetti del New Brutalism e progettatori delle discusse lastre dei Robin Hood Gardens, a Londra. Inoltre, a cavallo tra gli anni Sessanta a Settanta, sempre nella capitale inglese, Ernő Goldfinger aveva completato la Balfron Tower e la Trellick Tower in stile brutalista. Con gli anni, il fascino della vita in grattacielo si era però trasformato nella paura di essere aggrediti da chi vedeva, in quelle torri, un simbolo di potere da abbattere.

 

Oltre alla dimensione esteriore, Ballard ci descrive la vita interna al grattacielo. L’ambiente vive di un tempo proprio, che segue dinamiche diverse rispetto all’esterno. Nonostante crescano le violenze, il condominio di Ballard prosegue nella sua routine, sempre più alterata, come una torre dell’orologio inconsapevole dell’incendio che sta per distruggerla.

Il narratore ci dice che Wilder, a un tratto, avesse preso coscienza che quello sfacelo piacesse ai condomini e che proprio lo scontro e il lamento fossero diventati il collante che «metteva fine al glaciale isolamento dei mesi precedenti.»

 

Al di là del discorso sull’architettura modernista e sul rapporto delle persone con essa, Ballard sembra aver lasciato altre riflessioni dedotte da esperimenti sociali tipici del secondo Novecento. Tra questi, il cosiddetto “esperimento marshmallow”, uno studio condotto nel 1972, alla Stanford University, dallo psicologo Walter Mischel. L’oggetto della ricerca era la gratificazione differita: a seicento bambini fu detto che, se avessero resistito a mangiare i dolci che gli erano stati presentati, avrebbero potuto consumare il doppio della razione dopo un quarto d’ora. Un terzo riuscì a resistere e l’esperimento confermò l’ipotesi che l’età determinasse la capacità di differire la gratificazione. In studi successivi sullo stesso gruppo, si evidenziò che quel terzo aveva maturato atteggiamenti più responsabili degli altri e aveva ottenuto maggiori punteggi nei test d’ingresso all’università. Si erano dunque inseriti nella società con meno disagi.

Ecco, qui Ballard avrebbe forse da ridire, poiché High-Rise è un monito a quanto la società tenda a mutilare l’impulso alla vita quando esso non corrisponda al sistema di regole costituite dal potere. I residenti del grattacielo colgono l’inganno e si ribellano: per quanto caotico e selvaggio, il loro micro-mondo è garanzia di libertà e per questo si rifiutano di chiedere aiuto all’esterno.

All’esperimento marshmallow se ne può accostare un altro classico, quello della prigione di Stanford, condotto nel 1971 da un team di ricercatori diretto da Philip Zimbardo, anch’egli della Stanford University. Gli sperimentatori scelsero ventiquattro studenti universitari, tra i più equilibrati e meno violenti, e li suddivisero in detenuti e guardie. Dopo appena due giorni, già cominciarono a compiersi atti di sopraffazione e di violenza. Zimbardo impiegò l’espressione “effetto Lucifero” per indicare il processo per cui l’aggressività fosse condizionata dal contesto in cui si trovi l’individuo.

Negli anni sono state mosse critiche all’esperimento, ma la conclusione dello studioso aiuta a spiegare anche come, in appena tre mesi, nel grattacielo ballardiano siano potuti avvenire cambiamenti tanto radicali.

 

Per finire, merita una breve parentesi anche il cognome del personaggio Robert Laing, che è forse un richiamo allo psichiatra Ronald Laing, associato al movimento anti-psichiatrico: egli riteneva che l’emozionalità espressa dal paziente non andasse trattata come semplice sintomatologia, ma come espressione di un’esperienza vissuta. Meritava dunque un’attenzione diversa rispetto all’accidentalità del sintomo.

Ballard forse condivideva alcune idee di Laing, rapportandole al piano socio-politico; una frase famosa dello scrittore è: «In una società totalmente sana, la follia è l’unica libertà.»

In High-Rise è proprio la figura di uno psichiatra, Adrian Talbot, a far presagire il pericolo. Egli è tra i primi a notare che qualcosa stia mutando nell’atmosfera del grattacielo e si domanda se ciò abbia a che fare con «il buon umore e l’amicizia». La risposta che si dà è l’esatto contrario di questi sentimenti.

Talbot non fa una bella fine; viene scelto come capro espiatorio dai residenti e ci lascia con una descrizione fin troppo “scientifica” di quanto stia accadendo:

 

Questo palazzo doveva essere una vera centrale di rancori… stanno tutti liberando la più straordinaria mole di aggressività infantile arretrata che si sia mai vista. […] Ma è un errore pensare che stiamo tutti spostandoci verso uno stato di felice primitivismo. Qui il modello non sembra essere il buon selvaggio, piuttosto, direi, il nostro sé post-freudiano e nient’affatto innocente, violentato da un’educazione all’evacuazione troppo indulgente, dalla devozione per il nutrimento al senso e dall’amore genitoriale… una miscela ovviamente più pericolosa di qualsiasi cosa abbiano dovuto sopportare i nostri antenati vittoriani. I nostri vicini hanno tutti avuto un’infanzia che più felice non si poteva, ma sono comunque arrabbiati. Forse è perché non hanno mai avuto la possibilità di diventare dei perversi…

 

Non solo dibattito architettonico ed esperimenti sociali. High-Rise permette anche un confronto letterario, per esempio con Lord of the Flies (1954) di William Golding.

Il libro narra la storia di un gruppo di ragazzi britannici di buona famiglia, finiti su un’isola disabitata in seguito alla caduta in mare dell’aereo in cui si trovavano. A contatto con la natura selvaggia, i giovani tentano prima di organizzarsi con regole e con una differenziazione dei compiti, ma presto prendono il sopravvento la paura e il desiderio di prevaricazione. Golding interpreta questo abbandono agli istinti in chiave esistenziale, in quanto – secondo una sua celebre frase – l’essere umano produce il male con la stessa naturalezza con cui le api producono il miele.

I giovani di Golding si dividono tra un leader razionale e lungimirante e uno istintivo e propenso all’impiego della violenza. Si definiscono così due ambienti precisi: l’ambiente delle capanne, sulla costa, baluardo di civiltà, e la foresta, che trasforma gli avventori in selvaggi. A questi spazi si aggiunge Caste Rock, pendio roccioso dove i giovani credono si nasconda la Bestia, divinizzazione delle loro paure.

Nonostante le possibili analogie tra le due opere, in Golding c’è una tensione soprannaturale e una possibilità di scegliere il bene che manca in Ballard. Inoltre, quest’ultimo si concentra sulla perdita di controllo da parte di adulti, un’idea ancora più radicale, laddove invece in Golding sono proprio gli adulti a riportare ordine sull’isola. Infine, l’irrazionalità è vista in maniera differente dai due: in Golding è espressione del male atavico dell’essere umano, ha dunque una connotazione morale; in Ballard è la tensione alla libertà, un’occasione per rifondare la società o per annientarla.

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Bibliografia e consigli di lettura

 

° Ballard J. G., High-Rise, Fourth Estate, London, 2014

° Id., Il condominio, Feltrinelli, Milano, 2007

° Hall C., Why JG Ballard’s High-Risetakes dystopian science fiction to a new level, The Guardian, 3 ottobre 2015

° Luckhurst R., An Introduction to High-Rise, The British Library, 25 maggio 2016

° Redazione, Critica e psicopatologia dell’architettura funzionalista in High-Rise di J. G. Ballard, blog Nothing Is True Nothing is Untrue, 23 settembre 2012

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