L'oscura meraviglia di H. P. Lovecraft. Parte I

 


H. P. Lovecraft è stato un pensatore originale, ben conosciuto nella letteratura horror e del fantastico e nel medesimo cinema di genere, ma molto meno noto al grande pubblico. Questo, almeno, fino all’ultimo ventennio, dato che oggi l’aggettivo lovecraftiano viene affibbiato al mostro tentacolare del momento e a tutto ciò che crea una certa atmosfera occulta.

Il “Solitario di Providence” – questo il suo appellativo più comune – è stato considerato ateo, nichilista, estinzionista; gli sono state attribuite idee politiche molto conservatrici, è stato tacciato di razzismo e molti studiosi hanno desunto determinate patologie psichiche partendo dall’analisi del suo carattere e dai dati biografici. Quanto c’è di vero e quanto è esagerato in tutto ciò?

 

 

La visione del cosmo

 

 

Nella vita e nell’opera di Lovecraft non si può prescindere dalla sua visione cosmologica. Una visione nel vero senso della parola, nella seconda accezione che ne dà Treccani.it: «Apparizione, immagine o scena del tutto straordinaria, che si vede, o si crede di aver visto, in stato di estasi o di allucinazione, o in situazioni e per cause miracolose e soprannaturali, oppure anche in sogno.» Proprio quest’ultima dimensione è quella prediletta dallo scrittore, fin da bambino.

Nel corso della sua esistenza, Lovecraft cercò di controllare, o perlomeno di ordinare questo corposo materiale onirico. Entrò a tal punto a contatto con le parti più oscure dell’animo umano, che tra la meraviglia e la paura prese il sopravvento la seconda.

Entità quali Nyarlathotep o Cthulhu non sono che nomi con cui Lovecraft definisce gli elementi del cosmo, a partire da quelli più difficili da codificare per la mente umana, come Azathoth, il Caos Primigenio. È esplorando queste profondità che lo scrittore giunge a conclusioni del genere: «La nostra razza umana non è che un incidente triviale nella storia della creazione.»

Lovecraft considera la mentalità umana come di per sé soggettiva, e la filosofia, che dovrebbe consentire una vita più consapevole per l’individuo, non può che riproporre tale soggettività, forse persino esasperandola, attribuendo all’umanità più valore di quanto le spetti, come nell’Umanesimo: «Forse la creatura dominante – la più razionale e simile a Dio di tutte le creature – è un gas invisibile! O forse è una massa ardente e luminosa di polvere di stelle in fusione.» Una prospettiva che ricorda l’“oceano” senziente di Solaris di Stanisław Lem e che può spingere l’essere umano a ridimensionarsi nell’economia macroscopica dell’universo.

 

Il fatto che l’umanità sia tanto minuta non significa però che Lovecraft riconosca un ordine superiore a essa: al contrario, a regnare è il caos. È proprio da questa constatazione che lo scrittore deduce che nulla abbia valore e che non vi sia «necessità di tracciare una linea fra realtà e illusione. Tutto è un mero effetto di prospettiva, ed è meglio e più confortevole cullarsi nell’accettazione di ciò che abbiamo.» Da cui il suggerimento di scegliersi una filosofia che sia per sé la più piacevole, da un lato consci che non sia reale, dall’altro consapevoli che si perderebbe molto a non adottarne una, dal momento che l’alternativa è appunto il nulla.

Proprio a Lovecraft si attribuisce la nascita della cosiddetta “filosofia del cosmicismo”, secondo cui l’umanità è qualcosa di insignificante nell’universo, ma che pretende di avere un ruolo centrale, ignorando le forze che ne determinano l’esistenza. Tale filosofia ha dei punti di contatto con il nichilismo, ma più che concentrarsi sull’assenza di significato guarda alla marginalità della nostra specie. Queste le sue parole: «Il cosmo è un vortice privo di ordine; un oceano ribollente di forze cieche, nel quale la gioia più grande è l’incoscienza e il maggior dolore la consapevolezza. È inutile far leva sui banali piaceri dell’esistenza per giustificare gli infiniti dolori che da essa seguono. Che siano veri piaceri, non discuto; ma quanto passeggeri e stucchevoli. È mia presente convinzione che non si possa essere altro che pessimisti totali, o prede inconsapevoli della mitologia e della mistificazione religiosa. Le estasi reali esistono soltanto nelle fantasie dei poeti e dei preti. Ma, dopo tutto, com’è assurdamente superflua questa controversia sul piacere e il dolore. Perché cosa importa se soffriamo o no? I nostri sentimenti non sono che i più futili degli incidenti nel ciclo senza fine dell’esistenza […]». Per il Solitario di Providence non era una questione di pessimismo o di ottimismo, ma – potremmo dire – di indifferentismo.

Per certi versi, il successivo sviluppo della teoria degli “antichi astronauti” deve molto a Lovecraft, a partire dagli scritti di Zecharia Sitchin e di Erich von Däniken, teorici di un’origine aliena dell’umanità, soggetta a esseri cosmici molto più potenti. Come per l’eredità del Necronomicon, anche in questo caso si finì per andare ben oltre la visione propriamente lovecraftiana. Infatti le visioni, nella sua esperienza, non vanno lette in chiave spirituale, come alcuni amanti dell’occultismo hanno cercato di fare, trasformando l’immaginario Necronomicon in un testo sacro del nostro tempo.

 

 

Il ruolo dell’artista

 

 

Howard Phillips Lovecraft nacque a Providence, Rhode Island, nel 1890, da Winfield Scott Lovecraft e da Sarah Susan Phillips. Il padre era rappresentante di una ditta di argenteria, che fu affetto da psicosi quando Howard era bambino e in seguito finì paralizzato, morendo forse di sifilide nel 1898. Lovecraft parlò poco di lui nelle sue lettere. Il loro unico figlio crebbe quindi con la madre, le zie Lillian e Annie e i nonni materni Whipple van Buren Phillips e Rhobinia. Il nonno era un vecchio proprietario terriero in declino, che introdusse il giovane alle prime letture gotiche e non solo, sfruttando la buona biblioteca di famiglia. I testi erano perlopiù del Settecento: Howard imparò a leggere a quattro anni, a sette scriveva poesie e racconti misteriosi e gotici; a dieci saggi di chimica e di scienze naturali; a tredici stampava un bollettino ciclostilato di astronomia, il Rhode Island Journal of Astronomy; a quindici inviò una lettera poi pubblicata allo Scientific American, prevedendo la scoperta di Plutone (avvenuta nel 1930); a sedici scriveva articoli di divulgazione scientifica sul locale Providence Tribune. Queste le tappe della sua formazione da autodidatta.

La nonna gli fece invece conoscere i primi rudimenti di astronomia. Proprio con la sua morte, cominciarono gli incubi ricorrenti di Howard, con al centro i cosiddetti “magri notturni” (Night-Gaunts). In una lettera del 16 novembre 1916 all’amico Reinhardt Kleiner, ritornò con la memoria a quando aveva sei anni: le zie erano vestite a lutto e di notte i magri notturni lo trascinavano nello spazio a grande velocità, tormentandolo e trafiggendolo con detestabili tridenti. Viene da chiedersi quanto Lovecraft conoscesse le creature di Hieronymus Bosch, quei “grilli” intravisti forse tra le pagine di un volume della biblioteca di famiglia.

 

La madre, iperprotettiva, lo dissuadeva dall’uscire da casa, dicendogli che era troppo brutto per piacere a qualcuno che non fosse un familiare. Howard prese allora l’abitudine di rifuggire il contatto con gli estranei: dormiva di giorno e si muoveva o scriveva di notte; durante le ore di veglia della giornata, tendeva a restare al buio. Fin da bambino si era rifugiato nelle letture: come lui stesso racconta, nei primi sette anni lesse le Fiabe dei Grimm, poi si appassionò a due testi di Nathaniel Hawthorne: A Wonder-Book for Girls and Boys e Tanglewood Tales. Quindi venne la mitologia classica, alimentata dal saggio di Thomas Bulfinch Age of Fable. I suoi primi versi si ispiravano proprio alle gesta degli dèi e degli eroi. Con il passare degli anni, Lovecraft costruì un pantheon personale, ma l’impronta mitologica greca rimase sempre sottotraccia, mescolata a elementi egizi, babilonesi, sudamericani. Nel caso greco, Lovecraft risulta più legato a una mitologia di stampo esiodeo, con l’azione delle forze cosmiche della Teogonia: di Caos e di Urano, senza però l’impronta vitalizzante di Gaia.

Questi studi dovettero influenzare parte delle sue credenze. Il padre era stato un fedele della Chiesa anglicana, ma la madre gli fece frequentare i corsi di catechismo domenicale di una Chiesa battista. A soli otto anni, Howard si era dichiarato di fede pagana alla sua famiglia, un panteismo in cui gli dèi greco-romani personificavano attributi della Divinità. Le sue opinioni oscillarono sempre tra questo panteismo e il puro razionalismo: «Sono una specie di agnostico, che non afferma e non nega nulla […]», disse in età già matura.

 

Riguardo alla salute, nel 1900 cadde preda dei primi esaurimenti nervosi. Morto il nonno, la famiglia dovette trasferirsi in un’abitazione più modesta, per ragioni economiche, abbandonando così il “nido ancestrale”. Howard non portò a termine il liceo per problemi di salute, non ultima una caduta dalle scale che gli provocò mal di testa per tutta la vita. Nel 1908 abbandonò definitivamente gli studi. Anni dopo, gli investimenti sbagliati da parte dello zio peggiorarono la situazione economica già precaria della famiglia. Howard era ormai adulto. Nel 1917, cercò di entrare volontario nella guardia nazionale del Rhode Island, ma sia i frequenti esaurimenti nervosi che l’intervento diretto della madre gli preclusero questa strada.

La madre morì nel 1921 durante un intervento alla cistifellea: negli ultimi anni, la donna aveva sofferto di isteria e di depressione, ed era stata ricoverata al Butler Hospital, dove era morto il marito. Cessato il loro legame morboso, Lovecraft cominciò ad aprirsi al mondo esterno: prese parte attiva a un circolo di scrittori dilettanti, che avevano fondato piccole riviste come The United Amateur, The Vagrant, The United Co-Operative, The Wolverine, etc. Lovecraft partecipava alle riunioni del club e visitava i luoghi storici del New England, divenendo un ottimo conoscitore della storia del territorio.

In quel periodo, lo scrittore era influenzato dalle opere di Lord Dunsany, che aveva incontrato a Boston nel 1919: rimase abbacinato dallo stile e dal materiale onirico dell’irlandese, che andò a mescolarsi all’altro nume lovecraftiano, Edgar Allan Poe.

La rivista semiprofessionale Home Brew gli commissionò alcuni racconti e in generale Lovecraft acquisì maggiore sicurezza: leggeva i suoi racconti in pubblico, partecipava a conferenze e divenne presidente dell’Uapa (United Amateur Press Association). I racconti usciti su Home Brew, nello specifico Herbert West, rianimatore e La paura in agguato, lo portarono all’attenzione di Edwin E. Baird, direttore della rivista professionale Weird Tales, sulla quale nell’ottobre 1923 uscì Dagon. Il racconto si può considerare un “laboratorio d’idee” da cui poi si svilupperà la sua mitologia.

 

Weird Tales era una rivista mensile nata in quell’anno e dedicata alla letteratura fantastica e sovrannaturale. Gran parte di quanto Lovecraft aveva pubblicato riapparve tra le sue pagine. Lo scrittore si sosteneva con le modeste rendite familiari, garantite da una cava di pietra sfruttata dall’italiano Alfredo De Magistris. La rivista gli garantiva una maggiore indipendenza economica.

Nel marzo 1924, Lovecraft si sposò con Sonia H. Greene, una donna di otto anni più grande, per la quale aveva svolto lavori di revisione e che era stata presidentessa dell’Uapa. Lovecraft era inoltre un ghostwriter e, il mese precedente alle nozze, ricevette una commissione da parte dell’illusionista e acrobata Harry Houdini. Nacque il racconto Imprisoned with the Pharaohs, pubblicato su Weird Tales: una storia la cui trama mescolava realtà e finzione, accrescendo la fama da avventuriero di Houdini.

In quel periodo, l’editore della rivista, J. Clark Henneberger, gli propose di assumere la direzione di Weird Tales al posto di Edward Baird, ma lo scrittore, anziché trasferirsi a Chicago per quel ruolo, preferì andare a New York, nel quartiere Brooklyn, dove la moglie aveva avviato un’attività commerciale.

Incapace di adattarsi alla realtà metropolitana e dipendente dalla moglie, la situazione precipitò e, nel 1926, la coppia si separò. La fine del matrimonio non fu però mai formalizzata legalmente a insaputa della donna: sebbene lo scrittore le avesse assicurato che il divorzio era stato presentato, egli non firmò mai il documento finale e la moglie lo scoprì solo dopo la sua morte. Si legge che forse la coppia non consumò mai l’unione, ma questo è smentito dalla stessa Sonia, che affermò in un’intervista come Howard fosse un amante nella media.

 

A trentacinque anni, Lovecraft fece ritornò a Providence. La sua salute peggiorò ulteriormente e sviluppò allergie particolari, come quella al freddo, per cui una temperatura vicino allo zero gli provocava svenimenti (dovuti forse alla pressione bassa). Si chiuse ancora in se stesso e la sua cultura divenne enciclopedica, tanto che gli scrittori gli scrivevano in cerca di chiarimenti tecnici e talvolta Lovecraft finiva per scrivere i testi al loro posto. Tra i suoi discepoli si annoverano grandi scrittori come Robert Bloch (Psycho), Robert E. Howard (Conan il barbaro), Clark Ashton Smith (Poseidonis) e molti altri. Pur muovendosi di rado, con amici e colleghi intratteneva un fitto scambio epistolare, che per mole e qualità dei contenuti può considerarsi un’opera a sé dello scrittore.

Gli ultimi undici anni di vita furono i più fertili dal punto di vista letterario, non tanto sotto il profilo della quantità, quanto della qualità. Da anni ormai Weird Tales respingeva i suoi nuovi scritti, inclusa la proposta del 1935 del romanzo L’ombra venuta dal tempo. Dello stesso anno fu il racconto L’abitatore del buio: da quel momento si dedicò soltanto a collaborazioni o a revisioni, che talvolta si traducevano in radicali riscritture. Continuò però a scrivere per se stesso.

Nel 1937 la sua salute subì un rapido peggioramento e venne ricoverato al Jane Brown Memorial Hospital di Providence, dove gli fu diagnosticato un tumore all’intestino tenue, in fase molto avanzata. Tra le complicanze derivate dal cancro si segnalavano la cachessia dovuta a malassorbimento e la denutrizione, dovuta in parte anche al fatto che Lovecraft, per non trascurare gli scambi epistolari, rinunciava a mangiare. Cinque giorni dopo, il 15 marzo, si spense a quarantasei anni, quasi in solitudine, perché nelle lettere lo scrittore aveva tenuto segreta la malattia.

 

In tal senso, la sua fine ricorda quanto egli stesso aveva dichiarato sulla figura dell’artista: «Per me l’artista ideale è un gentiluomo che mostra il suo disprezzo per la vita seguitando per le tranquille maniere dei suoi antenati, e lasciando la fantasia libera di esplorare sfere luminose e sorprendenti. Così, vorrei che un autore ignorasse la sua epoca e il pubblico, creando l’arte non per la fama o per gli altri, ma per la sua sola soddisfazione.»

Indifferente alla morte ed estraneo al suo tempo, Lovecraft non poteva trovare rifugio in un cosmo spaventoso e labirintico. Per il Solitario di Providence l’individuo poteva soltanto proiettare oggetti e situazioni su uno sfondo tradizionale, più o meno storico, dando un’illusione di significato e una tensione drammatica a ciò che altrimenti risulterebbe insignificante e insopportabile: «È questo che intendo e pratico come conservatorismo estremo in senso artistico, sociale e politico: un mezzo per sfuggire al tedio, l’inutilità e la confusione d’una lotta senza guida e senza punti di riferimento contro il caos rivelato.»

 

L’unica apertura di Lovecraft è verso le anime affini, sebbene sembri considerarle come isole irraggiungibili. I sogni dello scrittore ricordano i quadri di Salvador Dalí, René Magritte e Paul Delvaux: la pianura nebbiosa e pallida, arti umani e animali intercambiabili, oscuri marchingegni del genere umano in contesti di inutilità. Si può forse intravedere nella sua scrittura un materialismo meccanicista in cerca di un significato, oppure il risultato di un disperato brancolamento nel buio. In tal senso, la tensione magica (e a tratti sacra) del Surrealismo sono in lui assenti, se non come semplici formalità descrittive. Per Lovecraft, chi scandaglia l’ignoto ignora che la conoscenza lo renderà folle: l’essere umano non può specchiarsi nell’abisso senza incorrere in questo delirio, e ce lo narra in racconti come The Invisible Monster (1923), in cui è persino l’esplorazione dei limiti del quotidiano a metterci in pericolo.

Senza l’impiego di droghe o di viaggi di formazione d’oltreoceano, Lovecraft seppe evocare atmosfere e scenari analoghi a quelli di Thomas de Quincey, di William Blake e di Giovanni Battista Piranesi. Cercò rifugio in realtà immaginarie o in un passato idealizzato, come l’America del Seicento, respingendo gli sviluppi sociali e tecnologici della sua epoca. Egli riconobbe un atteggiamento di rifiuto e di allarme anche in altri intellettuali a lui contemporanei, definiti “esteti sensibili”, tra i quali annoverava scrittori come T. S. Elliot e Aldous Huxley: «Ognuno ha un diverso piano di evasione, eppure ognuno vuol evadere dalla stessa cosa…» concluse.

 

 

L’analisi prosegue nella seconda e ultima parte (qui), includendo bibliografia e sitografia.

Di H. P. Lovecraft ho parlato anche in una diretta del canale Il bar della psicologia del dottor Adriano Grazioli, disponibile qui (YouTube) e qui (Spotify).

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