R.U.R. I robot di Čapek riletti e disegnati da Čupová

 
Locandina per una rappresentazione statunitense
del dramma alla fine degli anni Trenta

Partiamo dalle basi: che cos’è R.U.R. e chi è Čapek?

Karel Čapek è stato uno scrittore ceco, nato nel 1890 e vissuto fino al 1938. Giornalista, drammaturgo e scrittore di racconti e romanzi, era anche un illustratore, talento che condivideva con il fratello Josef, il quale era più versato nella pittura rispetto alla scrittura.

Karel può essere considerato a buon diritto uno dei padri della fantascienza, a fianco a scrittori come Jules Verne e H. G. Wells. Eppure, è un nome un po’ dimenticato, che in Italia è tornato ad avere un successo circoscritto in un’edizione Iperborea del suo Viaggio al Nord (2022), resoconto di un tour del 1936 tra Danimarca, Svezia e Norvegia.

Nato in una piccola città della Boemia, allora Impero austro-ungarico, Karel vide enormi cambiamenti nella sua terra. I suoi scritti sono incentrati sul tema dell’esercizio della libertà contro il dominio della dittatura; il suo pacifismo tiene conto della possibilità di una guerra giusta per il ripristino della giustizia; le sue satire, espresse soprattutto con opere teatrali, raccontano la modernità, in un dialogo tra fascino e repulsione.

Le opere di Čapek attirarono tanto il disprezzo nazista quanto quello sovietico e anche per questo la sua carriera conobbe alti e notevoli bassi. Quando l’esercito del Führer invase la Cecoslovacchia, lo scrittore era nella lista delle personalità “sgradite”, ma Čapek era già morto in miseria alcuni mesi prima.

 

E R.U.R.? È un dramma fantascientifico del 1920. Karel introduce qui, per la prima volta nella storia, il termine “robot”, ideato dal fratello Josef a partire dalla parola ceca robota (traducibile come corvée, lavoro faticoso, servitù). I robot sono esseri simili agli umani, costituiti da materia organica e costruiti nella fabbrica della RUR, su un’isola. Il fondatore è il vecchio dottor Rossum (dal ceco rozum per “ragione”), ma il “demiurgo” che vediamo all’opera è Domin, la cui utopia consiste nel liberare l’umanità dal fardello del lavoro.

Gli effetti sono catastrofici: il genere umano precipita nel lassismo, nei vizi e nell’adorazione della scienza; c’è un grave calo demografico e, infine, scoppia una ribellione dei robot, che intendono sterminare l’umanità. La moglie di Domin distrugge i manoscritti con le istruzioni per fabbricare i robot, condannandoli al deperimento e all’estinzione.

Dopo la scomparsa di ogni umano, l’ultimo scienziato tenta invano di riscoprire la formula: osserva due robot, che sembrano manifestare sentimenti umani, e si consola che forse la vita sul pianeta non perirà.



Kateřina Čupová, fumettista e artista concettuale ceca, classe 1992, ha reinterpretato l’opera di Čapek in una graphic novel. In questi ultimi anni c’è stato un notevole recupero dei classici della letteratura, letti in chiave fumettistica: per esempio 1984 (Mondadori, 2021) di Fido Nesti, Peter Pan (Alessandro Editore, 2021) di Regis Loisel, La luna e i falò (Tunué, 2021) di Marino Magliani. Segno – per i titoli italiani – di un (tardivo) interesse per il valore di questo medium nel suscitare nuove letture dei capolavori.

In generale, si possono seguire tre strade: la trasposizione fedele e pedissequa (gran parte di questi tentativi); quella fedele ma con un diverso punto di vista; quella infedele. Nel caso di RUR. Rossum’s Universal Robots (Miraggi, 2022) ci troviamo nel secondo caso.

La rilettura di Čupová può tenere conto di circa un secolo di discendenti di R.U.R.: l’opera teatrale ebbe sùbito un certo successo nel mondo anglosassone e nelle grandi capitali europee: nei soli Stati Uniti fu rappresentata decine e decine di volte. Tanto oltreoceano quanto in Europa, Italia inclusa, si pensò a lungo di farne un adattamento cinematografico, ma per diverse ragioni questo non accadde. Nel 1927, l’uscita di Metropolis del regista Fritz Lang, oscurò in buona parte la memoria postuma dell’opera di Čapek. A fronte degli indiscutibili meriti del film nella storia del cinema e dell’arte in generale, è qui interessante annotare che il citato H. G. Wells stroncò il film, perché riteneva che il robot creato da Rotwang avesse un debito rilevante con R.U.R., sebbene fosse stato messo in scena «apparentemente senza alcuna autorizzazione da Čapek, il detentore del brevetto.»

 

Era così? Sì, non solo da un punto di vista legale. A metà anni Trenta, lo scrittore ceco affermò di essere contrario alla trasformazione del suo robot in un essere «con membra di latta e viscere di rotelle, fili metallici e chissà che altro». Quella sua creatura, però, era ormai divenuta patrimonio collettivo, certo a scapito del creatore, ma è quanto accade ai grandi simboli universali nell’arte e nella letteratura.

L’idea di un umanoide organico cominciava a essere scalzata da quella di un essere freddo, meccanico e violento, riflesso delle paure dell’età del pieno sviluppo industriale. Già prima della celebre saga di Isaac Asimov, si era affermata l’immagine di un robot in metallo, amplificata anche dalla vendita di giocattoli come il famoso Robert the Robot, in un’accezione certo innocua della creatura.

Proprio Asimov, iniziatore di una nuova epoca dell’universo robotico, riconsiderò il topos della ribellione delle macchine e criticò Čapek per aver diffuso l’immagine negativa del robot: «Durante gli anni Venti e Trenta, R.U.R. contribuì a rafforzare il complesso di Frankenstein e le orde di sferraglianti robot assassini continuarono a dominare quasi tutti i racconti del genere.»

Il giudizio è solo in parte corretto, dato che proprio dalla dichiarazione di Čapek sui robot «di latta» si comprende come la sua creatura fosse ormai divenuta oggetto di svariate interpretazioni e iperboli, anche piegate alla mera spettacolarizzazione.

 


E così vengo alla graphic novel di Čupová, che rispetta la suddivisione dell’opera originale in un prologo e tre atti. Le prime scene rappresentano un tour nel laboratorio dove vengono creati i robot, con immagini, dialoghi e un’ironia di fondo che ricorda molto le prime pagine de Il mondo nuovo di Aldous Huxley (per un approfondimento, vedi qui).

Nel tour viene raccontata la storia del vecchio Rossum, il fondatore definito «un ateo e un terribile materialista», che intendeva spodestare Dio e creare l’essere umano attraverso la scienza. Riuscì a creare un essere in dieci anni, ma peggiore di un qualsiasi Frankenstein: così il nipote si affidò a un ingegnere, in grado di creare una creatura simile all’uomo, in breve tempo, ma priva di sentimenti, di coscienza e di un’anima.

Il robot che ne esce è senza bisogni, migliore dell’uomo e più efficiente della natura. Soprattutto, cambiano le categorie mentali: i robot non muoiono, si deteriorano; non nascono, ma vengono fabbricati; non provano emozioni e non sono attaccati alla morte, perché non la conoscono. Nelle pagine di Čupová sembra che la non-morte dei robot sia estendibile all’umanità e i personaggi umani vivono in un benessere fin troppo onirico. La natura infatti viene a chiedere il conto dell’affronto subìto e l’umanità registra una grave denatalità. Con le parole di uno dei personaggi principali, Alquist, la sterilità è definita l’ultima conquista della razza umana.

 

Čupová dà comunque maggior risalto al personaggio di Helena Glory, “figlia del presidente”, la giovane che viene accompagnata nel tour che ho citato dal direttore della fabbrica, Domin. Helena rappresenta la giovane piena di ideali e contraria a ogni genere di violenza, persino quella inferta ai robot. Essa è a capo della Lega dell’Umanità, emblema delle società filantropiche dell’Ottocento e del primo Novecento, ma anche delle odierne organizzazioni umanitarie. La Lega ha come obiettivo la protezione dei robot e la garanzia che ricevano un trattamento civile. Helena li umanizza, ma scopre che questi non provano nulla. In un deposito, con 347mila robot desueti, in tanti avevano già provato a predicare loro, nella speranza di risvegliarne la coscienza. Tutto inutile, o quasi.

Un nuovo modello di robot è stato progettato per provare dolore, così da non danneggiarsi per la propria noncuranza. La possibilità di provare dolore è una delle chiavi di accesso alla coscienza, il metro con cui distinguere, in una prima rudimentale categorizzazione, il buono dal cattivo. Altri robot danno segnali che vengono ignorati: il bibliotecario Radius, un giorno, impazzisce. Era stato costruito con la massima intelligenza e lo avevano fatto leggere molto: come risultato, era nato in Radius il desiderio di essere padrone di tutti gli uomini.

La lezione di fondo è molto dura, quasi cinica: l’intelligenza, lo studio e la scienza portano davvero alla creazione di un essere umano artificiale, da un punto di vista pratico (organico) e culturale (il preponderante desiderio di potere).

 

La vera e propria ribellione viene guidata da Damon (un’allusione al Daimon greco?), robot militare che fonda la prima organizzazione razziale. Fino all’ultimo, alcuni dirigenti della fabbrica si convincono di poter scampare dallo sterminio dei robot. Un contabile calcola il denaro a disposizione e valuta il problema: erano stati creati troppi robot. Secondo lui, non era stata colpa di una tecnologia senza etica, di una questione sociale, bensì del numero: c’era stata troppa domanda. In un primo tempo, pensa di scambiare la salvezza dei dirigenti con il manoscritto di Rossum, che contiene la formula per riprodurre i robot, ma Helena lo aveva dato alle fiamme. Poi decide di comprarli con mezzo miliardo tra bancone e assegni, ma il tentativo gli è fatale.

 

Trascorre del tempo. I robot al potere chiedono all’ultimo umano di creare nuovi robot, poiché la conoscenza è andata perduta. Il vecchio domanda perché abbiano ucciso tutti gli esseri umani e i robot rispondono che volevano essere come loro. Le creature ritengono di essere divenute pienamente umane con l’esercizio della violenza. E il vecchio, nel maggior picco di coscienza della narrazione, afferma: «Nulla è più estraneo all’uomo della sua immagine», riflessa nella violenza degli umanoidi. La macchina è divenuta vita attraverso l’esperienza del dolore, provato e vissuto. Čupová però non si limita a questo e aggiunge un elemento positivo: riprendendo Čapek e allargandolo a tematiche a noi più vicine, quali l’ambientalismo, il messaggio finale è che la vita non sia destinata a estinguersi a causa dell’uomo, nonostante le sue costruzioni, le arti e le idee.

Le ultime vignette sono la rappresentazione di una nuova vita, quella di una coppia di robot innamorati – senza ovviamente saperlo, e questo li rende autentici – e quella di una natura vegetale che si riappropria dei suoi spazi, con forme e colori ormai alieni all’umanità estinta.




Nota: per un approfondimento su Karel Čapek, ne ho parlato anche sul canale de Il bar della psicologia, gestito dal dottor Adriano Grazioli, a questi link: YouTube e Spotify.

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