Parsi. L'Europa come posto della guerra

 


Il saggio Il posto della guerra (Bompiani, 2022) di Vittorio Emanuele Parsi serve a fare ordine nell’attuale situazione globale: smonta alcuni luoghi comuni, evidenzia la centralità di certi princìpi e rimarca alcune differenze, per esempio quella tra aggressore e aggredito o quella tra regimi autoritari e sistemi democratici.

Dopo il 1945, l’Occidente ha assunto nuove caratteristiche, persino una nuova identità, basata in generale sulle democrazie, sull’economia di mercato e sulle società aperte. L’Occidente ha mantenuto per decenni una delicata “pace democratica” grazie anche al rifiuto della guerra d’aggressione come meccanismo per imporre la propria egemonia, a differenza di quanto era accaduto per secoli nel continente e al di fuori di esso. Stati come Francia, Regno Unito e Olanda hanno attraversato un difficile processo di decolonizzazione, che ha portato molte ex colonie all’indipendenza. Secondo Parsi, però, la Federazione russa – erede dell’ultimo impero coloniale europeo – è ancora alle prese con la decolonizzazione, in un processo iniziato nel 1991 e mai conclusosi.

 

Noi europei, forti della pace continentale, per tre decenni abbiamo finto che non vi fossero troppe differenze tra la vita in una democrazia liberale e l’esistenza sotto un sistema autoritario. Così, nel 2021, la Russia esportava verso l’Europa 170 miliardi di metri cubi di gas e i vari conflitti scatenati dalla Federazione in trent’anni sono stati considerati (quasi) sempre come una questione regionale di cui gli occidentali non dovevano preoccuparsi troppo. Prima con l’invasione dell’Ucraina del 2014 e poi con l’aggressione su larga scala del 2022, qualcosa è cambiato. Stando a uno studio di luglio 2022 dell’Università di Yale, basato su dati forniti da fonti ministeriali russe, incrociati con l’Istat russo (Rosstat), l’Fmi e Bloomberg, il Pil della Federazione, tra gennaio e maggio 2022, è sceso del 62% nel settore delle costruzioni, del 55% nell’agroalimentare, del 36% nei servizi tecnici e professionali, del 25% nel manifatturiero, del 18% nelle vendite al dettaglio. L’inflazione è passata dall’8% al 20%, ma nei settori legati all’export di gas e di petrolio l’aumento è tra il 40% e il 60% (automotive, servizi ospedalieri, prodotti elettrici ad alto contenuto tecnologico).

Il tentativo della Russia di sostituire il mercato occidentale con quello cinese è di difficile attuazione, e non è attuabile in tempi brevi: nel 2021, per fare un confronto con l’Europa, l’esportazione russa in Cina era di appena 16,5 miliardi. Anche l’estensione del gasdotto Power of Siberia richiede un notevole costo di realizzazione, incrementato dall’impossibilità di accedere alle tecnologie occidentali, mentre quella parte di export di gas e petrolio rivolto ai cinesi (e agli indiani) si traduce in prezzi da discount. Il dato sull’interscambio tra i due Paesi è significativo: la Cina è il primo partner commerciale per la Russia (72,7 miliardi), ma Mosca è solo l’undicesimo per Pechino.

 

In questi decenni, la Russia ha affrontato la sua perdita di “controllo” riportando in auge il concetto di sfera di influenza, da attuare, se necessario, con la forza. Nel campo delle democrazie, invece, l’espressione che si impiega è ring of friends, che si esplica nell’appoggio a quei territori in cui si trova una democrazia o una cittadinanza che stia lottando per essa.

Ed è qui, per esempio, che Parsi indica la differenza tra l’essere pacifico e l’essere imbelle: lo Stato democratico non è pacifico a prescindere da tutto, né può permettersi di risultare indifeso rispetto alla minaccia costituita da un’autocrazia, che si basa invece in prima battuta sull’uso della forza e della paura.

L’Autore ci pone allora di fronte a una domanda complessa, divenuta oggi ineludibile: per che cosa siamo disposti a combattere e a morire? Se la risposta è “niente”, dobbiamo accettarne le conseguenze, ammettendo di aver rinunciato alla nostra libertà e all’autodeterminazione come popolo.

 

Parsi riprende quanto teorizzato in un suo saggio precedente – Titanic. Naufragio o cambio di rotta per l’ordine liberale (Il Mulino, 2022) – per ribadire che l’ordine liberale sia nato come progetto per garantire stabilità nel sistema internazionale del secondo dopoguerra. La Carta atlantica rientra in questo progetto: sottoscritta al largo di Terranova, nell’agosto del 1941, da parte di Winston Churchill e Franklin Delano Roosevelt, il documento non indica limiti geografici, ma si concentra sul “posto della guerra”, quell’Europa martoriata da continui conflitti nella logica della competizione tra potenze. È in quel documento che si preannuncia inoltre l’esaurimento della dominazione coloniale europea, come requisito per trasformare il continente in un luogo della pace.

Per ragioni storiche, l’ordine internazionale liberale ha coinciso quasi del tutto con la centralità della leadership americana: esso tenta di mantenere in armonia la sovranità dello Stato e la centralità del mercato, in un contesto internazionale pluralistico costituito da grandi e piccole potenze, oltre che da Stati e attori privati come imprese e singoli cittadini. A tenere unito il tutto, il meccanismo dell’istituzionalizzazione, attraverso organismi come le Nazioni Unite.

In questa ricostruzione, Parsi non si nasconde dietro a un dito e, storicamente, riconosce l’abuso di questo sistema (la guerra in Iraq del 2003) e il pericolo dei doppi standard (il rapporto dell’Occidente con Israele).

 

Tracciato questo percorso, l’Autore approfondisce la crisi ucraina, partendo da un parallelismo: la costruzione di un casus belli da parte russa, individuato nelle presunte persecuzioni patite dai russofoni nel Donbass, è un pretesto che richiama la denuncia di Hitler su una “pulizia etnica” dei tedeschi dei Sudeti, nel 1938, prodromo dell’invasione. All’epoca, se le potenze occidentali (Francia e Regno Unito in testa) non avessero adottato una politica di appeasement nei confronti della Germania nazista, Hitler non avrebbe attuato l’invasione della Polonia nel 1939.

Un altro pretesto addotto dalla Russia per giustificare l’invasione riguarda la presunta minaccia dell’Ue e degli Usa dovuta a un ingrandimento della Nato, un sempreverde degli ultimi trent’anni che fa sorridere, se si guarda al disastroso stato in cui versa la gran parte degli eserciti europei. Ho approfondito il tema qui.

Trattando invece della crisi del Kosovo, che coinvolse la Nato, Parsi evidenzia le differenze con l’invasione russa in Ucraina: in Kosovo, dopo un anno di escalation nel contesto della dissoluzione della Federazione jugoslava, furono comprovati i casi di pulizia etnica e di violenza diffuse; una situazione ben diversa da quella dei russofoni in Donbass, per i quali la metodica pulizia etnica costituisce una fantasia creata ad hoc dal regime putiniano. Una seconda differenza: l’intervento Nato in Kosovo non portò a un ingrandimento territoriale degli Stati che presero parte alla missione e fu deciso da un’organizzazione regionale e non da un governo statale ai danni di un altro Paese.

 

Forse la Russia soffre di gigantismo e non riesce a comprendere di essere poco attrattiva sia per quanto i suoi vicini hanno subìto nei secoli passati, sia per quanto prospetta ai suoi cittadini, ovvero una società nazionalista, xenofoba, dominata da un regime oppressivo, che provoca la dispersione delle sue stesse risorse civili. In una delle pagine più ispirate del saggio, Parsi scrive: «È l’ancoraggio al passato e alle sue logiche che rende il futuro qualcosa che incombe, che schiaccia il presente, interpretandolo come una fase transitoria che pretende solo e sempre “scelte obbligate”. Ma ogni volta che ci facciamo dettare il presente da un futuro presentato come incombente, in realtà ci stiamo incatenando al passato e, soprattutto, ai rapporti di forza e potere che dal passato provengono.»

Per non avere paura del futuro e per non temere le società aperte, dobbiamo anche essere lungimiranti su ciò che serve a garantire la nostra libertà, non più solo quella ideale, ma quella concreta. Parsi ci ricorda che esistono diverse propagande, ma che non siano tutte la stessa cosa: Frank Capra e John Huston propagandavano valori ben diversi da quelli di Goebbels, valori per cui – tolta la retorica e la persuasione – valeva davvero la pena morire. Il rapporto tra democrazia e verità è molto diverso da quello tipico degli autoritarismi: non capirlo è sintomo di malafede.

 

Noi europei continueremo a aderire ai valori della pace promossi per decenni, pur tra alti e bassi, ma oggi siamo stati chiamati a fare i conti con la dimensione militare della potenza, un qualcosa che pensavamo rimosso dalla storia, perlomeno occidentale. In politica estera, ogni Stato o comunità, come quella europea, può avere legittimi interessi da portare avanti. Ciò che permette di evitare il conflitto perenne è il rispetto delle regole delle istituzioni internazionali: «Queste non sono onnipotenti, ma fanno la differenza fra un mondo “con” e un mondo “senza” istituzioni. Tutte, anche l’Onu con un consiglio di sicurezza bloccato: perché consente di dialogare anche rudemente, di litigare anche aspramente, ma di salvaguardare una cornice all’interno della quale ci si può riconoscere e incontrare.» Il concetto, per esempio, è ben chiaro ai cinesi, che grazie a questo sistema hanno potuto prosperare e che oggi non hanno affatto intenzione di distruggere, ma semmai di piegare ai propri fini.

Se a Oriente i progetti per il futuro sembrano chiari, è in Occidente che dobbiamo ritrovare le coordinate. La guerra in Ucraina scuote la nostra coscienza di italiani e di europei. L’idea di un popolo che combatte e muore per la propria libertà anima pochi cuori rispetto a chi è indifferente o tratta con sarcasmo e saccenteria la difesa dell’aggredito: «[…] neppure di fronte a tutto questo si riesce a fare un passo indietro. A non usare le vittime di guerra autentiche, “quelle vere”, per condurre il proprio piccolo show mediatico, in cui, dalla ribalta di questo o quel talk, con la complicità di conduttori alla ricerca del mezzo punto di share in più, improbabili “esperti” si dichiarano vittime della censura, del mainstream, dei “baroni universitari”, della Nato o di tutto quanto insieme.»

 

In conclusione, Parsi riprende un bel motto dannunziano – “Ardisco, non ordisco!” – che indica ciò che gli italiani troppo spesso non fanno, preferendo la via del complotto (l’ordire) per giustificare la mancanza di coraggio verso il cambiamento (l’ardire). In questo, siamo simili ai russi: come loro, «gli italiani vivono nella paura del futuro (del quale di rado pensano di poter essere artefici), nella critica costante del presente (il cui miserabile stato è sempre colpa degli altri) e nella mitizzazione del passato (poco importa quanto inventato).»

Come popolo, dobbiamo tornare a renderci conto che possiamo essere liberi solo se siamo capaci di autodeterminarci, ovvero se siamo capaci di lottare per la libertà. Se invece la nostra scelta ricadrà su un pacifismo a tutti i costi, praticabile dall’individuo ma non da un popolo che si ritiene libero, allora dovremo rassegnarci alla speranza della fede in un aldilà di pace.

Per gli europei, la guerra deve continuare a essere l’ultimo strumento al quale affidare la difesa della nostra libertà, ma non dobbiamo temere di ricorrere a essa per difenderci. Paghiamo la pesante eredità storica del vecchio Occidente, a cui gli avversari della democrazia ci riconducono a ogni dibattito, ma gli attuali cambiamenti chiamano il nuovo Occidente a dimostrare «coraggio civile» e lucidità.

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