L'oscura meraviglia di H. P. Lovecraft. Parte II

 

Il testo che segue continua e conclude l’analisi iniziata nella prima parte, qui.

 

Lovecraft non era un occultista, ma uno scrittore dell’orrore

 


Se Dagon è il racconto delle “prove generali” per la costruzione del suo universo, The Nameless City contiene i semi della mitologia legata a Cthulhu: il racconto presenta il tema di una civiltà antichissima venuta dallo spazio, in possesso di conoscenze proibite agli umani. Viene inoltre citato l’“arabo pazzo” Abdul Alhazred, autore dell’immaginario Necronomicon, testo con cui l’esploratore del racconto va alla ricerca della Città senza Nome. Qui infine è presente il celebre distico: «Non è morto ciò che in eterno può attendere, / e col passar di strane ère, anche la Morte muore.»

Al Necronomicon si aggiunse altro materiale fittizio: i documenti frammentari e intraducibili della Grande Razza, ovvero i Manoscritti Pnakotici; gli scritti blasfemi dei fedeli di Cthulhu, raccolti nel Testo di R’lyeh; i Sette Libri Criptici di Hsan e i Canti dei Dhol.

I suoi amici e discepoli approfondirono questa mitologia: per esempio, Clark Ashton Smith scrisse il Libro di Eibon (o Liber Ivonis); Robert E. Howard realizzò gli Unaussprechlichen Kulten di Von Juntz; Robert Bloch contribuì con il De Vermis Mysteriis di Ludvig Prinn, etc.

Questa espansione dell’universo lovecraftiano contribuì ad accrescere l’aura di mistero che avvolgeva lo scrittore, che presto divenne oggetto d’interesse degli occultisti. Kenneth Grant, discepolo del mago inglese Aleister Crowley ed ex capo dell’Ordo Templi Orientis, associazione esoterica che pratica riti di magia sessuale, era convinto che Lovecraft, pur non conoscendo né il nome né l’opera di Crowley, avesse descritto in forma narrativa il “Culto di Crowley”. Grant scrisse The Magical Revival (1972), in cui mostra una tabella di comparazione che include questi parallelismi: i Grandi Antichi – I Grandi della Notte dei Tempi; Yog-Sothoth – Sut-Thoth, Sut-Typhon; il Deserto Gelato (Kadath) – Il Vagabondo del Deserto (Hadit); il Grande Cthulhu – il Sonno Primordiale; Azathoth – Azoth; la Stella a cinque punte – la Stella di Nuit.

In realtà, queste e altre simmetrie proposte da Grant sono qualcosa di abbastanza generico (su tutti, il pentagramma) e di riconducibile ad archetipi molto comuni (p. es. il deserto, le divinità ancestrali, etc.) o anche a fonti di studio in comune. In particolare, Lovecraft era un grande conoscitore della storia del New England, soprattutto di quella pre-unitaria e del Sei-Settecento, con i processi alle streghe di Salem.

 

L’opera che forse riassume e sublima la sua materia letteraria è At the Mountains of Madness (1936). L’atmosfera è onirica, ma il romanzo tenta di adottare un approccio scientifico, quello degli esploratori antartici in cerca di fatti inediti in quella terra ai confini del mondo. Vengono accontentati: il gruppo scopre i resti di esseri mostruosi, congelati da milioni di anni, ai piedi della catena montuosa più alta del pianeta. I due personaggi principali – il narratore e il giovane Danforth – entrano in un intrico di gallerie sotterranee in cui si nascondono i servitori delle divinità dell’abisso: a poco a poco che il limes tra realtà e fantasia viene varcato, il linguaggio scientifico perde ogni coordinata e credibilità, mostrando tutta la sua inadeguatezza. Lovecraft tenta di attraversare il limite della coscienza e della conoscenza, ma i suoi personaggi finiscono sempre per fuggire in preda alla follia. Proprio da questo non superamento della “soglia” si può intuire – a dispetto degli occultisti – quanto Lovecraft non fosse iniziato ad alcun culto particolare, ma che anche sotto questo aspetto egli fosse un autodidatta.

La principale fonte d’ispirazione per il romanzo provenne da The Narrative of Arthur Gordon Pym of Nantucket (1838) di Edgar Allan Poe. Sono poi presenti numerose citazioni storiche, che si riferiscono alle esplorazioni antartiche di Shackleton, Amundsen, Scott e Byrd. Una menzione particolare è riservata anche al pittore Nikolaj Rerich, famoso per le tele di paesaggi montani, tra cui quelle sull’Himalaya. Rerich fu membro della Società Teosofica e in Tibet fu il referente dell’Ordine della Rosa-Croce: Lovecraft però non fa riferimento a ciò, ma impiega l’arte del pittore per aiutare il lettore a crearsi un’immagine di una terra al tempo ancora semisconosciuta.

 

I suoi personaggi falliscono la ricerca e ciò che ne deriva è un divieto a spingersi oltre i limiti dell’umana condizione: un messaggio anti-iniziatico. D’altra parte, nel saggio Supernatural Horror in Literature (1927) scrisse: «La più antica e più possente emozione dell’umanità è la paura; e il genere più antico e più possente di paura è la paura dell’ignoto.» In quella prima metà del Novecento, ci fu un altro grande esploratore non solo del materiale onirico, ma anche delle visioni: la ricerca di Carl Gustav Jung su questa materia grezza costituisce un approccio più consapevole, in grado di approdare a una nuova conoscenza di sé e del cosmo, come dimostrato dal Libro Rosso.

Torno però sul saggio di Lovecraft, che è fondamentale per capire lo scrittore. Dopo la frase di apertura che ho citato, il testo prosegue: «Queste realtà sono messe in discussione da pochi psicologi e la loro riconosciuta verità stabilisce in tutti i tempi la genuinità e la dignità del racconto soprannaturale e orribile come forma letteraria. Contro di esso si riversano tutti gli strali di una sofisticazione materialistica, che si attacca a emozioni ed eventi esterni spesso sentiti, e di un idealismo ingenuamente insipido che disapprova l’interesse estetico ed esige una letteratura didattica per “innalzare” il lettore a un grado idoneo di sciocco ottimismo.»

Salvo eccezioni, all’epoca il genere horror era considerato una forma di letteratura minore. Lovecraft ripercorre la storia moderna del genere, citando opere e autori, ma non si limita a riassumere i fatti: ne offre una chiave di lettura. Per lui il vero racconto del mistero non dovrebbe fermarsi alla “sensazione”: non è sufficiente citare ossa insanguinate e sagome che fanno risuonare le catene a cui sono legate. Bisogna codificare l’atmosfera generata dalla paura con sinestesie e con frasi che mostrino la sospensione delle «leggi fisse della Natura che sono la nostra unica salvaguardia contro gli assalti del caos e dei demoni dello spazio inesplorato.»

 

Il vero mistero è tale solo se il lettore prova «un profondo senso di terrore e di contatto con sfere e potenze ignote», se i suoi sensi sono all’erta nel timore di essere assaliti.

Nel saggio, Lovecraft impiega spesso l’espressione «occultismo professionale» per indicare quegli scrittori i cui testi sono stati “corrotti” da una prosa troppo legata alla correttezza “scientifica” delle dottrine occulte, anziché concentrarsi sull’atmosfera. Per esempio, riferendosi a uno dei racconti del volume John Silence. Physician Extraordinary di Algernon Blackwood, scrive: «The Camp of the Dog è il racconto di un licantropo, ma è indebolito dalla moralizzazione e dall’“occultismo” professionale.» Qui Lovecraft lamenta proprio l’elemento indottrinante dell’occultismo, quella letteratura didattica (ma al contrario) di cui scriveva nelle prime pagine.

Non solo, trattando della letteratura horror tra gli anni Venti e Trenta dell’Ottocento, Lovecraft critica anche «la ciarlataneria spiritistica, la scienza medianica, la teosofia indù, e cose del genere», che esplosero decenni dopo nella moda vittoriana ed edoardiana per lo spiritismo e che, non a caso, furono criticate da un esoterista come René Guénon in Il teosofismo. Storia di una pseudo-religione (1921) e in Errore dello spiritismo (1923).

 

Più interesse destavano in Lovecraft gli studi su eventi storici collegati alla stregoneria, tanto da apprezzare le Lettere sulla demonologia e la stregoneria (1830) di Walter Scott. Lovecraft conosceva poi la figura di Eliphas Lévi, uno dei maggiori esperti del mondo esoterico e dell’occulto, che a suo dire aveva influenzato gli scritti di Edward Bulwer-Lytton. Forse Lovecraft conosceva la distinzione tra occultismo ed esoterismo e infatti, dopo aver tacciato di ciarlataneria alcune scienze occulte, mostra un notevole interesse per la Qabbālā, considerata il principale apporto della cultura ebraica alla letteratura del mistero. Una letteratura emersa di recente, eppure tanto importante, poiché affonda le radici nell’antico Oriente.

Scrive l’Autore nel saggio: «La mente semitica, come quella celtica e teutonica, sembra possedere spiccate tendenze mistiche; e la dovizia di una segreta tradizione di orrore, che sopravvive nei ghetti e nelle sinagoghe, deve essere molto più notevole di quanto in genere si immagini. Lo stesso cabalismo, così in auge nel Medioevo, è un sistema di filosofia che spiega l’universo come emanazioni della Divinità e comporta l’esistenza di misteriosi regni ed esseri spirituali separati dal mondo visibile, dei quali si possono cogliere visioni tenebrose da certi segreti incantesimi. I suoi riti sono legati alle interpretazioni mistiche del Vecchio Testamento, e attribuiscono un’importanza esoterica a ogni lettera dell’alfabeto ebraico, circostanza che ha conferito alle lettere ebraiche una specie di potenza e fascino spettrali nella letteratura popolare sulla magia. Il folclore ebraico ha conservato molto del terrore e del mistero del passato, e se studiato più a fondo, si presta a esercitare notevole influenza sulla narrativa del mistero.»

Come si deduce dalle ultime frasi, però, l’interesse di Lovecraft per la Qabbālā risulta funzionale alla sua opera di scrittore, più che essere intesa come una via sapienziale da perseguire. È bene sottolineare questa differenza, perché proprio la capacità evocativa di Lovecraft viene spesso scambiata per l’aderenza a una qualche corrente spirituale od occulta, senza che vi siano elementi dirimenti sulla questione.

 

La dimensione onirica, fantastica e fantascientifica


 

Il Solitario di Providence è stato un esploratore del mondo dei sogni. Per lui, non è il sonno della ragione a generare mostri, ma è proprio la ragione a coordinare l’esperienza onirica. Il suo Ciclo dei Sogni include testi del genere fantastico ambientati in una dimensione a cui si può accedere soltanto attraverso il sogno. Tale mondo presenta una sua geografia e creature particolari, in parte ispirate alle opere di Lord Dunsany. Elementi del Ciclo di Cthulhu fanno la loro comparsa, lasciando intendere che i due universi siano collegati.

La saga di Randolph Carter è il principale gruppo di storie del Ciclo dei Sogni, con due racconti brevi, due lunghi e un romanzo. Particolare importanza rivestono The Dream-Quest of Unknown Kadath (1926-27) e Through the Gates of the Silver Key (1932), quest’ultimo nato come revisione di un racconto lungo di Edgar Hoffmann Price.

 

L’importanza di queste storie è anche autobiografica, in quanto Randolph Carter costituisce un alter ego di Lovecraft. Nelle opere dello scrittore i personaggi non hanno quasi mai spessore psicologico: che si tratti di ricercatori, scienziati o artisti, a contare è il loro desiderio di varcare i confini del sapere comune. Egli non è interessato alla psicologia del singolo, ma a ciò che può rappresentare come archetipo. In questo, si rifaceva a una delle sue letture preferite fin dall’infanzia, le storie de Le mille e una notte, in cui il destino dei personaggi pare determinato dalla narrazione in cui sono inscritti. D’altra parte, era Lovecraft a ritenere che l’umanità non valesse molto in confronto ai movimenti cosmici: «Tutti i miei racconti si basano sulla fondamentale premessa che le leggi, gli interessi e le emozioni comuni agli esseri umani non abbiano validità né significato nella vastità del cosmo.»

Nelle sue lettere, ammetteva di non nutrire empatia verso il genere umano e che tutto il suo interesse era rivolto al paesaggio e ai segreti della natura. In un primo momento, i suoi personaggi non hanno paura di affrontare la verità, tanto che la ricerca viene tentata: ciò che li terrorizza è quanto non dipende da loro, ovvero ciò che la verità gli rivela, l’insignificanza.

 

Nel ciclo di Cthulhu prevale l’elemento horror, mentre nel Ciclo dei Sogni quello fantastico: entrambi però condividono caratteristiche proprie della fantascienza.

Nel saggio Some Notes on Interplanetary Fiction (1935), Lovecraft contribuì all’evoluzione della narrazione fantascientifica, indicando agli autori del genere – molti dei quali erano amici o corrispondenti – la via di una maggiore consapevolezza letteraria e di una maggiore fiducia nelle possibilità espressive della science fiction come genere autonomo, svincolato dai canoni della narrativa “maggiore”.

Nella scrittura di Lovecraft, troviamo una combinazione di irrazionalismo e di dati scientifici, che si traduce in una particolare forma di realismo fantastico, in cui il racconto (letteralmente: l’esposizione di eventi) prevale sull’azione in sé e sui dialoghi. Questo lo avvicina alla narrativa di un suo contemporaneo, H. G. Wells, per quanto questi adotti un approccio più ironico e di spessore psicologico in merito ai suoi personaggi. Inoltre, in Wells sembra esserci una volontà di utilizzare il mito del progresso positivista per evidenziare le falle del sistema, nel tentativo di regolamentarlo dall’interno. Al contrario, Lovecraft genera miti destinati a trovare posto in un mondo che non potrà vedere, ben oltre le ingenuità positiviste.

 

Lovecraft e la filosofia

 


Concludo questo viaggio ritornando alla filosofia. Vi è un’apparente affinità tra i pensieri di Lovecraft, Friedrich Nietzsche e Arthur Schopenhauer. Lo scrittore sentì parlare dei due filosofi intorno al 1900, ma ne scrisse più a fondo solo dal 1919. Si presume che del primo conoscesse almeno Così parlò Zarathustra (1883-85), Al di là del bene e del male (1886) e Genealogia della morale (1887), oltre a saggi sulla filosofia nietzschiana scritti da terzi.

Nel 1921, Lovecraft scrisse il saggio Nietzscheism and Realism, derivato da due lettere private non destinate alla pubblicazione. In realtà, più che una lettura del filosofo tedesco, rappresenta un testo in cui Lovecraft si racconta, facendo emergere le sue idee elitariste, antidemocratiche, anticomuniste e cariche di pregiudizi razziali.

Guardando oltre le apparenti affinità, infatti, si scoprono profonde differenze. L’eterno ritorno nietzschiano, quale manifestazione naturale del nulla, sembrerebbe un punto d’incontro, ma l’interpretazione di questo concetto è opposta. Nietzsche vede una possibilità di superare il nichilismo in una deliberata accettazione dell’eterno ritorno, che libera la volontà di potenza. Lovecraft, invece, non va oltre l’orrore nichilista e trova vano lo sforzo titanico dell’oltreuomo nietzschiano. Lo spirito dionisiaco è letto come una delle tante possibilità per sopravvivere a una triste consapevolezza, mentre Lovecraft ritiene che sia nel mondo onirico che l’individuo possa trovare parte di quella serenità a cui aspira.

 

La cosmogonia del Solitario di Providence è più vicina al pensiero di Schopenhauer: il mondo è un sogno, o meglio un’illusione, e l’umanità subisce le forze di una natura che la ignora. Lovecraft però prende le distanze anche da lui e la sua risposta a questo stato di cose è un estremo materialismo, con parallelismi nella concezione meccanicista di Epicuro, in cui ogni particella del cosmo riproduce la sua catena di interazioni in una maniera che è imperscrutabile per l’individuo.

Ciò che è certo è l’assenza di un’ingerenza divina nell’esistenza umana. Ancora una volta, è il mondo onirico a offrire un’apertura: se la realtà in cui viviamo è determinata da forze che non possiamo controllare, nel sogno – ed è quanto emerge nel racconto The Silver Key (1926) – possiamo fare esperienza proprio di quell’universo ingestibile, imparando a conoscere almeno in parte la sua trama intricata. Forse è questa la sua unica speranza: non poter provare le intuizioni vissute in sogno. Questo è quanto scrive nell’incipit del racconto Beyond the Wall of Sleep (1919): «La mia esperienza non mi consente di dubitare che l’uomo, una volta abbandonata la coscienza terrena, si trasferisca in una dimensione incorporea e profondamente diversa da quella che conosciamo; una dimensione di cui, una volta svegli, rimangono solo vaghissimi ricordi.»

 

In definitiva, il pensiero lovecraftiano risulta più affine a quello di un altro scrittore, da cui trasse ispirazione: Edgar Allan Poe. Spogliandolo però di ogni tensione sacra e traendone soltanto il comune terrore per l’abisso cosmico.

Al termine della sua vita, Lovecraft recuperò il simbolismo del mare in The Night Ocean (1936), in cui il ritorno alle acque rappresenta una metafora della morte. Poe ne aveva parlato nel racconto A Descent into the Maelström (1841), in cui una nave si trova sospesa in un gorgo fino al suo inabissamento. L’abbandono di Poe a questo destino inevitabile non esclude una partecipazione della divinità, le cui leggi sono però viste come incomprensibili dall’umanità.

Lovecraft invece abbandona anche questa spiegazione pur sempre consolatoria: egli abbraccia la Grecia esiodea di Caos e di Urano, le geometrie ciclopiche e non euclidee di At the Mountains of Madness, l’esplorazione nel sogno quale unica alternativa a una realtà ripetitiva, priva di redenzione o di scopo.

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Bibliografia, consigli di lettura e di visione

 

Di H. P. Lovecraft ho parlato anche in una diretta del canale Il bar della psicologia del dottor Adriano Grazioli, disponibile qui (YouTube) e qui (Spotify).


° de Turris G. (a cura di), H. P. Lovecraft. Teoria dell’orrore: tutti gli scritti critici, Bietti, Milano, 2018

° DuFer R., Il fascino e il terrore dell’incubo. Lovecraft – Con Christian Sartirana, autoreYouTube

° Id., Lovecraft. Un antidoto contro l’orrore – Monografia, YouTube

° Fais M., “Lovecraft aprì l’orrore alla dimensione cosmica”. Gianfranco de Turris dialoga con Matteo Fais sugli scritti teorici del genio di Providence, rivista Pangea, 23 novembre 2018 (link)

° Fossemò Sandro D. (a cura di), Il terrore cosmico da Poe a Lovecraft, blog Hyperborea, 8 settembre 2020 (link)

° Fusco S., de Turris G., Howard Phillips Lovecraft, La Nuova Italia, Firenze, mensile Il Castoro n. 156, dicembre 1979

° Joshi S. T., H. P. Lovecraft. The Decline of the West, Wildside Press, Mercer Island, 1990

° Id., I Am Providence. The Life and Times of H. P. Lovecraft, Hippocampus Press, New York, 2013

° Lovecraft H. P., L’orrore della realtà, Edizioni Mediterranee, Roma, 2007

° Id., Opere complete, SugarCo, Milano, 1989

° Remedios L. [attr.], L’orrore fenomenologico di H. P. Lovecraft. Il sogno e il nichilismo, il fascinans e il tremendum, blog Critica Impura (link)

° Tanabe G., L'ombra venuta dal tempo da H. P. Lovecraft, Edizioni BD, Milano, 2020

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