La semplice e genuina gioia delle avventure di Tom Bombadil

 


Una raccolta di sedici poesie che svela un angolo meno straordinario dell’universo di Arda: Le avventure di Tom Bombadil (1962) è un’incantevole finestra sulla magia della natura, sulle azioni semplici ma che riempiono di gioia, sugli eventi minuti che non smuovono le montagne, ma arricchiscono l’animo.

A dispetto del titolo, Tom Bombadil compare solo in tre poesie della raccolta: è una figura enigmatica e allegra, emblema di un rapporto armonico con la natura. La sua esistenza appare slegata dalle grandi saghe di eroi e di battaglie a cui Tolkien ci abitua, ma egli sottolinea qualcosa che stava a cuore all’Autore: l’importanza del piccolo, del quotidiano, della creatura pacificata con il mondo. Bombadil rappresenta il potere della serena immobilità, in contrasto con il moderno desiderio di cambiamento e di conquista. Ciò si riflette anche nella sua estetica “anti-cittadina”:

 

«OLD TOM BOMBADIL was a merry fellow;

bright blue his jacket was and his boots were yellow,

green were his girdle and his breeches all of leather;

he wore in his tall hat a swan-wing feather.

He lived up under Hill, where the Withywindle

ran from a grassy well down into the dingle.»

 

Nella prefazione, l’opera è presentata come una selezione di testi tratti dal folklore degli hobbit della Contea alla fine della Terza Era: la paternità dei componimenti è varia, ma tra i possibili autori viene citato anche Bilbo Baggins.

La raccolta si apre con la poesia eponima, dove il ritmo giocoso nasconde riflessioni sulla transitorietà e sulla persistenza. Come nella successiva Bombadil va in barca, Tom si confronta con creature fatate e spiriti della natura, dimostrandosi immune ai loro poteri e inganni:

 

«‘Go out! Shut the door, and never come back after!

Take away gleaming eyes, take your hollow laughter!

Go back to grassy mound, on your stony pillow

lay down your bony head, like Old Man Willow,

like young Goldberry, and Badger-folk in burrow!

Go back to buried gold and forgotten sorrow!’»

 

La sua figura indomita riflette un ideale di purezza primordiale, una sorta di Adamo edenico che vive in un eterno presente senza peccato né caduta; un’entità che, peraltro, ha il controllo sul creato, come si evince dalla facilità con cui si libera dalle costrizioni e dal modo in cui “conquista” la figlia del fiume, Baccadoro. In questo senso, Bombadil è fuori dal tempo, a-storico e, non a caso, solo marginalmente coinvolto nelle grandi saghe tolkieniane, benché si sia tanto speculato sulla sua vera natura.

 

I primi due componimenti della raccolta vengono attribuiti ad autori della Terra di Buck e del Dingle, mentre Il cavaliere errante sarebbe stato composto da Bilbo al rientro dal suo viaggio. È la storia di un marinaio che aveva un incarico da messaggero, il quale durante il tragitto cattura una farfalla e compie varie imprese, salvo tornare a casa rendendosi conto di non aver compiuto la missione iniziale.

Ne La principessa Me, Tolkien esplora il tema del desiderio e del sogno: il testo si colora di toni malinconici, quasi a suggerire che ogni ricerca, ogni viaggio immaginario, è in ultima analisi un tentativo di ritrovare una parte perduta di se stessi. Per esempio, la principessa Me vive nel ricordo di una bellezza e di una gioia tanto intensi quanto irraggiungibili, specchio della nostalgia che pervade tutto il legendarium dell’Autore.

 

Due componimenti sono riservati a un altro personaggio: L’Uomo della Luna andò a letto troppo tardi e L’Uomo della Luna scese troppo presto. Il primo testo è attribuito a Bilbo, citando come fonte il Libro Rosso; il secondo sarebbe un rimaneggiamento dello stesso hobbit su una fonte di Gondor. In entrambi, l’Uomo della Luna è in cerca di distrazioni («‘I want fire and gold and songs of old | and red wine flowing free!’»), ormai stanco delle sue irrinunciabili abitudini, ma rischia così di venir meno ai suoi obblighi.

Altri due componimenti vedono al centro i troll e sono attribuiti a Sam Gamgee: ne Il Troll di pietra, Tom interviene per recuperare il presunto osso del padre, rosicchiato dalla gigantesca creatura, ma, sferrando un calcio, scopre tutta la durezza di quella pelle. In Pierino il goloso, invece, lo hobbit del titolo stringe amicizia con un troll che si sentiva solo e che finisce per rivelargli i segreti della sua superba cucina:

 

«‘I steal no gold, I drink no beer,

I eat no kind of meat;

but People slam their doors in fear,

whenever they hear my feet.

O how I wish that they were neat,

and my hands were not so rough!

Yet my heart is soft, my smile is sweet,

and my cooking good enough.’»

 

Altre quattro poesie coinvolgono differenti creature: I Mewlips riprende la storia degli abitanti di una valle oscura, che si cibano dei ladri e dei malcapitati. Per ulteriori dettagli, rimando al mio approfondimento su Lord Dunsany, al quale Tolkien si ispirò:

 

«THE SHADOWS WHERE the Mewlips dwell

Are dark and wet as ink,

And slow and softly rings their bell,

As in the slime you sink.

[…]

The cellars where the Mewlips sit

Are deep and dank and cold

With single sickly candle lit;

And there they count their gold.»

 

Olifante è una poesia recitata da Sam ne Il Signore degli Anelli e descrive gli enormi pachidermi del titolo. Fastitocalone è invece dedicata a un’enorme tartaruga, scambiata dai marinai per un’isola: Tolkien si ispirò ai bestiari medievali (si veda l’aspidochelone) e forse a un analogo racconto sempre di Dunsany. Sempre rifacendosi ai bestiari, Il gatto è una riflessione sconsolata di un felino sui bei tempi andati, quando era libero al pari di un leone.

 

La sposa dell’ombra racconta invece del singolare legame tra una fanciulla e un uomo senza ombra, di cui la donna riesce a spezzare l’incantesimo, per poi andare a vivere con lui nelle profondità della terra.

Il tesoro risale ai tempi eroici della Prima Era: gli elfi, unici abitanti della Terra, forgiavano gioielli per i re, ma un giorno apparve un drago che li derubò. In seguito, sorte analoga toccò a un nano. Un giorno, però, il drago ormai anziano venne ucciso da un giovane guerriero che prese possesso di quel bottino. Quando anch’egli morì, una volta divenuto re, si perse traccia del tesoro:

 

«There was an old dragon under grey stone;

his red eyes blinked as he lay alone.

His joy was dead and his youth spent,

he was knobbed and wrinkled, and his limbs bent

in the long years to his gold chained;

in his heart’s furnace the fire waned.

To his belly’s slime gems stuck thick,

silver and gold he would snuff and lick:

he knew the place of the least ring

beneath the shadow of his black wing.

Of thieves he thought on his hard bed,

and dreamed that on their flesh he fed,

their bones crushed, and their blood drank:

his ears drooped and his breath sank.

Mail-rings rang. He heard them not.

A voice echoed in his deep grot:

a young warrior with a bright sword

called him forth to defend his hoard.

His teeth were knives, and of horn his hide,

but iron tore him, and his flame died.»

 

Da un’ambientazione nella Prima Era a un testo scritto nella Quarta, La campana del mare portava il titolo Il sogno di Frodo e narra di un personaggio tormentato che vaga fino all’ultimo dei suoi giorni, alludendo forse al fatto che Frodo, nemmeno dopo aver raggiunto Valinor, ritrovi la sua pace:

 

«Never will my ear that bell hear,

never my feet that shore tread,

never again, as in sad lane,

in blind alley and in long street

ragged I walk. To myself I talk;

for still they speak not, men that I meet.»

 

L’ultima nave conclude la raccolta ed è un testo proveniente da Gondor, in cui si torna al tema della partenza degli elfi dalla Terra di Mezzo. Questi offrono a una donna un posto sulla nave, ma lei si rende conto che la terra, di cui è figlia, la trattiene:

 

«Year still after year flows

down the Seven Rivers;

cloud passes, sunlight glows,

reed and willow quivers

as morn and eve, but never more

westward ships have waded

in mortal waters as before,

and their song has faded.»

 

Le avventure di Tom Bombadil ritaglia così una serie di vignette poetiche che, pur avvolte in un manto di spensierato folklore, stimolano il lettore a riflettere sulla capacità del mito naturale di veicolare un messaggio altrimenti incomunicabile. Il consiglio è di leggerlo possibilmente in lingua originale, semmai con testo a fronte, perché la lettura in italiano rischia di non suscitare le giuste emozioni. È bene ricordare che qui non stiamo soltanto parlando di poesia, ma di poesia tolkieniana, scritta da un autore che attribuiva al suono delle parole un ruolo centrale nel veicolare i significati.

Lasciatevi dunque trasportare da quell’apparente senso di leggerezza, dalla celebrazione dei semplici piaceri della vita, non estranei a una ponderata meditazione sull’essenza del tempo e sulla gioia di essere nel mondo, qui e ora.

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