Lord Dunsany e le meraviglie di uomini, eroi e divinità. Parte II
The Book of Wonder è la settima
pubblicazione dello scrittore anglo-irlandese noto con il nome di Lord Dunsany.
Il libro venne pubblicato per la prima volta in copertina rigida da William
Heinemann, nel novembre 1912. In Italia, è edito da Mondadori, nella collana
Oscar Draghi, curato da Massimo Scorsone e con un’introduzione di Giuseppe
Lippi. Il titolo è Il Libro delle Meraviglie e altre fantasmagorie:
comprende i romanzi La figlia del Re degli Elfi e La maledizione
della veggente; la raccolta di racconti del titolo e una versione ridotta
della raccolta Demoni, uomini e dèi, priva degli otto testi già presenti
ne Il Libro delle Meraviglie.
Quest’ultimo volume raccoglie quattordici
racconti, con una breve prefazione e un epilogo. Sidney Sime ha curato le
illustrazioni, sulle quali Dunsany ha strutturato i testi: «Un giorno trovai il
signor Sime, nella sua strana casa a Worplesdon, lamentarsi del fatto che gli
editori non gli offrivano soggetti molto adatti per l’illustrazione; così ho
detto: “Perché non fai qualche disegno che ti piace, e io scriverò storie che
le spieghino, il che potrebbe aggiungere un po’ al loro mistero?”». Fanno eccezione gli ultimi due racconti, Chu-bu e
Shemish e La finestra meravigliosa, che non nascono da un disegno di
Sime.
Il breve prologo è un invito rivolto a
coloro che sono stanchi del caos delle grandi città e del mondo conosciuto; lo
stile è quello di un imbonitore da circo, che mi immagino nelle classiche vesti
da diavolo moderno. Al contrario, l’epilogo è molto diverso: il
narratore-scrittore si congeda dai lettori, annunciando altre storie, non prima
di aver compiuto nuove esplorazioni ai Confini del Mondo.
The Bride of the Man-Horse (La sposa del
centauro) riprende il motivo mitologico del centauro che rapisce le donne
con la violenza. Al contempo, Dunsany ci mostra l’aspetto positivo della
selvatichezza del mezzo-uomo Shepperalk, narrandoci un galoppo mirabolante, che
copre diverse leghe e diviene l’emblema della libertà dell’esplorazione e di
un’immersione panica nella natura: «Eppure nel sangue dell’uomo scorre un
impulso antico, come una corrente nel mare, in qualche modo affine alla gloria
del tramonto, che gli porta echi di bellezza da remote distanze, nella stessa
maniera in cui il profumo di terra annuncia in alto mare isole ancora ignote; e
quest’onda di primavera o flusso impetuoso che visita i precordi dell’uomo
discende dal favoloso quarto del suo sangue, da quanto in lui vi è di
leggendario, d’antico; lo spinge a errare per boschi e colline, ascoltando il
richiamo senza tempo, il canto immortale.»
The Distressing Tale of Thangobrind
the Jeweller, and of the Doom that Befell Him (Storia inquietante di
Thangobrind il gioielliere e del funesto destino che si abbatté su di lui)
ha la forma di un exemplum in negativo, genere letterario diffuso nel
Medioevo, che mostrava le conseguenze morali di un determinato comportamento.
In questo caso, il gioielliere protagonista, accecato dal successo personale,
non si rende conto dei propri limiti e va dunque incontro alla sciagura. Il
narratore, tuttavia, evita i facili moralismi e conclude attaccando la sgradevole
rispettabilità di stampo vittoriano: «E l’unica figlia del Principe Mercante
provò tanto poca gratitudine per la sua liberazione inaspettata, che si
convertì a una rispettabilità di tipo militante, divenne noiosa in modo
aggressivo, e si trasferì sulla riviera inglese; teneva centrini di lana
pettinata sul tavolino da tè, e alla fine non morì ma scomparve nella sua
residenza.»
The House of the Sphinx (La casa della
Sfinge) vede il ritorno da protagonista della Sfinge, già presente nel
primo racconto. Qui la creatura ha perso il suo fascino; è una figura decadente
e antieroica, che stenta a incutere timore e reverenza: «Non so cosa ne fu
della Sfinge nella sua casa minacciata, se è rimasta lì per sempre, fissando
indifferente il vuoto, meditando sconsolatamente sul morto, ricordando soltanto
con profonda afflizione che un tempo conosceva cose davanti a cui l’uomo trema,
lei che ora dei ragazzini sbirciano maliziosamente, oppure se alla fine è
fuggita strisciando vergognosamente, e arrampicandosi orribilmente da un
baratro all’altro ha raggiunto cose più alte, ed è eternamente saggia. Perché
chi può dire se la pazzia sia divina o appartenga all’Abisso?»
Proprio il concetto di Abisso, su cui
tornerò presto, fa qui la sua comparsa. Mi preme invece sottolineare lo stile
adottato da Dunsany, che scrive un testo simile a una cantilena fiabesca, con
sintagmi ripetuti, avverbi ricorrenti e domande incalzanti o retoriche.
The Probable Adventure of the Three
Literary Men
(La probabile avventura di tre letterati) mette in luce l’ironia dello
scrittore, in un racconto che è anche metafora della sua ricerca fantastica. I
tre letterati sono alla ricerca del tesoro della narrativa e della poesia, un
insieme di ispirazioni attinte all’inumano. Torna il concetto del gettarsi
nell’abisso ai confini del mondo, ovvero al di là dell’umano. In questo caso, però,
più che una discesa sembra di assistere a un’ascensione e interpreto l’Abisso
con il significato di ignoto più che di oscurità. È il limite inesplorato, che
fa paura, ma che rappresenta l’unica occasione, nel mondo moderno, di vivere
un’avventura senza cinture di sicurezza.
The Injudicious Prayers of Pombo
the Idolator
(Le imprudenti preghiere di Pombo l’idolatra) racconta di come Pombo
pregasse i grandi dèi per ottenere qualcosa in cambio, rimanendo deluso. Diviene
così un idolatra e, infine, si sceglie un dio minore. Eppure, la sua brama
illimitata lo porta a affidarsi a uno di quegli esseri che esaudisce le
preghiere più disdicevoli e ciò lo fa precipitare in un baratro senza fine.
Dunsany riprende non solo il tema della
tracotanza umana e l’incapacità di riconoscersi in un limite, ma mette in luce
l’uso opportunistico della religione praticato da molti fedeli. Sottolinea,
poi, come le divinità, soprattutto le maggiori, siano ormai sorde al destino
degli uomini o impotenti rispetto allo scorrere del tempo. Uno dei temi
ricorrenti dei suoi scritti è proprio la sconfitta degli dèi, di cui gli umani
non sembrano avere più bisogno.
The Loot of Bombasharna (Il sacco di
Bombasharna) è una storia di mare e di pirateria, un sottogenere
d’avventura a cui Dunsany tornò in altri testi. Egli recupera, trasforma o
inventa le leggende di mare e inscena qui una nave-isola che mette al riparo i
pirati da occhi indiscreti: «Per quanto ne so, nessuno mai li scoprì né catturò
la nave-isola. Ma si sparse la voce, di porto in porto, di taverna in taverna –
e ancor oggi se ne parla –, secondo cui un pericoloso scoglio non segnato sulle
carte compariva inaspettatamente, fra Plymouth e Capo Horn, sulla rotta delle
navi; molti bastimenti vi avrebbero fatto naufragio, senza lasciare,
apparentemente, alcuna traccia del disastro.»
Miss Cubbidge and the Dragon of
Romance
(Miss Cubbidge e il drago del poema) è la storia di una donna che evade
dalla realtà e si rifugia nel mondo onirico, fino a smarrirsi. Miss Cubbidge
viene rapita da un drago e finisce per vivere il fascino dell’eterno presente.
Ciò nonostante, la protezione fornita dal drago-rapitore non è che
un’illusione: la realtà sopraggiunge all’improvviso, disintegrando le fantasie,
in una storia che può considerarsi uno dei primi esempi di urban fantasy.
The Quest of the Queen’s Tears (La cerca
delle lacrime della regina) racconta di Sylvia, una donna che rifiuta il
canone secondo cui la principessa dovrebbe scegliersi un principe a ogni costo.
Tra i pretendenti, Ackronnion è colui che si avvicina più di tutti alla
conquista, ma Sylvia è una donna distaccata dalle passioni, che non intende
giungere a compromessi. Così Ackronnion si mette in viaggio addolorato;
incontra la Bestia contenta, la rattrista e la uccide, in una metafora di colui
che, non ottenendo ciò che desidera, distrugge il mondo intorno a sé perché non
corrisponde al suo fallimento. Infine, l’eroe torna a corte; dà vita a un
meraviglioso canto triste: tutti piangono, tranne Sylvia, la donna che appare
insensibile, ma alla quale gli uomini, forse, dovrebbero imparare a rinunciare:
«Oh, ma dolorose, dolorose sono le vie dell’uomo, pochi e travagliati i suoi
giorni, dubbiosa la sua meta, e vani, oh, quanto vani i suoi sforzi. E quanto
alla donna – chi mai potrà conoscerla? – il suo fato è scritto, come quello
dell’uomo, da divinità incuranti e indifferenti, i cui volti scrutano altre
sfere.»
The Hoard of the Gibbelins (Il tesoro dei
Farfurelli) introduce delle strane creature, che attirano gli uomini in un
castello colmo di smeraldi e zaffiri, per poi mangiarseli. Interviene così il
cavaliere Alderico, che – in uno scambio ironico – convince un drago a
diventare il suo destriero, in cambio della vita. Ma, per quanto cerchi di
resistere alla cupidigia, nemmeno Alderico riesce a sconfiggere i Farfurelli.
In un finale ironico, Dunsany gioca con il lettore, tra chi pensa o si aspetta
che l’eroe, come da tradizione, riesca nell’impresa: «Qui lo aspettavano i
Farfurelli, immersi nell’acqua fino alla cintura, stringendo torce nelle mani!
E, senza dire una parola e neanche sorridere, lo appesero ordinatamente alla
parete esterna della torre e… Questo non è un racconto a lieto fine.»
Secondo Dale Nelson, il racconto avrebbe
influenzato il poema The Mewlips di J. R. R. Tolkien, raccolto ne Le
avventure di Tom Bombadil. In maniera analoga ai Farfurelli, i Mewlip
vivono fuori dal mondo conosciuto, in umide cantine dove contano l’oro e
mangiano i curiosi.
How Nuth Would Have Practised His
Art upon the Gnoles
(Come Nuth cercò di derubare gli Gnoli) mette in scena uno dei tanti
ladri dei racconti di Dunsany, figure di cui conosciamo poco, ma che
esemplificano la brama umana di possesso. Il ladro Nuth e il giovane Tonker
decidono di rubare gli smeraldi degli Gnoli: raggiungono il bosco in cui
risiedono le creature, ma il silenzio – in genere complice dei ladri – finisce,
per contrappasso, per devastarli. Nuth è l’unico a sopravvivere; riguardo a
Tonker – precisa il narratore – «Non è bene chiedere dove lo portarono, e non
dirò cosa fecero di lui.»
How One Came, as Was Foretold, to
the City of Never
(Storia di colui che giunse alla Città di Mai) riprende il tema della
cavalcata quale simbolo di libertà. Al posto del centauro, gli ippogrifi si
muovono in un mondo meraviglioso, rifuggendo dalle moderne città di fumo. Uno
di loro accompagna un uomo ai Grandi Abissi: esplorarli e conoscerli significherebbe
la fine della civiltà. La Città di Mai, che è oltre quel confine, è infatti
figlia della Meraviglia, un ambiente in cui il tempo è dilatato e la vita non è
corsa contro la morte. Il narratore, però, ci fa sapere che esiste una città
ancora più magica, che nessun umano ha mai visto e – com’è tipico di Dunsany –
non ci vengono forniti ulteriori dettagli. La mia teoria è che possa trattarsi
della divina Sardathrion, distrutta da Tempo, secondo quanto riportato nel
racconto Tempo e gli dèi.
The Coronation of Mr. Thomas Shap (L’incoronazione
di Thomas Shap) racconta di un uomo che si dissocia dalla grigia realtà
quotidiana per vivere in un mondo immaginario. Thomas Shap, però, si fa prendere
la mano da questa esperienza e ciò che poteva essere un rifugio dalla cruda
realtà si trasforma in un meccanismo di autodistruzione.
Chu-bu and Sheemish sono due divinità
piagnucolose, protagoniste del penultimo racconto, che per il loro bisogno di
attenzioni finiscono per danneggiarsi a vicenda. Dunsany sembra prendersi gioco
dei loro modesti poteri magici, che non riescono a vincere le forze fisiche come
la gravità. Nel finale, il narratore di questo bisticcio rimane incerto se
credere o meno nelle superstizioni, un tema che ritornerà nelle future raccolte
di racconti, mescolato al più vasto tema del libero arbitrio.
Alcuni critici, tra i quali John Rateliff,
considerano Chu-bu e Sheemish uno dei migliori racconti di Dunsany, che si
inserisce nella moda dell’orientalismo, qui in chiave umoristica. Al contempo,
gli dèi litigiosi sembrano incarnare l’irrazionalità dei colonialisti e
l’impotenza nel riuscire a battere l’avversario una volta per tutte.
The Wonderful Window (La finestra
meravigliosa) è il racconto conclusivo, con protagonista Mr. Sladden, un
uomo che acquista una finestra magica da un venditore mediorientale. La
finestra si apre su un altro mondo, fantastico, che l’uomo può ammirare come un
vero e proprio schermo televisivo ante litteram. Mr. Sladden assiste
agli sviluppi della civiltà che vive oltre la finestra, come un appassionato di
serie tv fantasy, il cui episodio finale, tuttavia, risulta indigesto.
Conclusioni
Dunsany è un creatore di immagini
accattivanti. Da un lato, il suo universo fantastico sembra non conoscere
limiti, espandendosi in terre inesplorate e in insondabili abissi. Dall’altro,
un confine più evidente è quello tra il mondo fantastico e il mondo materiale
in cui viviamo, sebbene anche lì la linea di demarcazione sia sottile e mai
davvero definitiva.
Ciò che può sembrare assente o in difetto
nella sua scrittura è la costruzione delle trame e dei personaggi, ma questo è
un limite solo per coloro che sono abituati a un canonico storytelling. Molte
storie di Dunsany sembrano frammenti di una narrazione più vasta, di una storia
collettiva andata perduta. A ben pensarci, si possono fare critiche analoghe
alle opere di Lovecraft e di Poe. Nel primo caso, tuttavia, il Solitario di
Providence ha il pregio di creare una cosmologia più particolareggiata di
Dunsany, in grado di coinvolgere maggiormente a livello emotivo. Nel caso di
Poe, invece, quell’immaginario complessivo viene meno e molti suoi racconti
sono costretti a reggersi da sé, sulle deboli gambe di una trama e di
un’introspezione del personaggio che spesso vengono sacrificati alla
sensazione, peraltro con eccellenti risultati.
Sul fronte opposto, abbiamo gli scritti di
J. R. R. Tolkien, il quale, quando fa riferimento a un luogo o a un
personaggio, sembra quasi assicurare il lettore che, dietro a quel nome, sia
presente una storia approfondita, qualcosa di più di un titolo esotico.
Eppure, sia scrittori come Lovecraft che
come Tolkien hanno considerato Dunsany una grande influenza. Per esempio, il
racconto Come Nuth cercò di derubare gli Gnoli è probabilmente l’origine
del termine Gnoll, usato in una serie di opere successive, in
particolare nella serie di giochi Dungeons and Dragons, per descrivere
una razza fantasy umanoide.
Dunsany scrive le sue fantasie nel modo
più spensierato, curandosi poco della tradizione magica che lo ha preceduto, e
affidandosi invece a quelle che potremmo definire le sue visioni. Certo, il
lettore individuerà analogie e somiglianze con le creature leggendarie, ma non
potrà non cogliere l’apporto originale dell’Autore a un genere che egli ha
contribuito a definire. A ciò si aggiunge la nostalgia quasi dolorosa non tanto
per un passato perduto, ma per quello che definirei un’ideale onirico. In esso,
si sviluppa la lotta tra divinità e tempo – un qualcosa di simile a quanto
accade in Malpertuis di Jean Ray – e demoni, uomini e dèi tornano a
crucciarsi nelle successive raccolte, in cui le avventure vengono raccontate in
storie di maggiore lunghezza e profondità.
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