Cinque fumetti di fantascienza e dintorni che vale la pena leggere
Mooncop
Tom Gauld, Mooncop. Poliziotto lunare,
Mondadori, Milano, 2019
La colonia lunare è in declino: un
poliziotto prosegue il proprio lavoro, in maniera quasi stoica. Non sappiamo
perché perseveri in questa inutile avventura; non entriamo nella sua psiche.
Eppure, scopriamo che il Mooncop voleva diventare tale dall’infanzia: ormai
adulto, è incapace di abbandonare il suo sogno in favore della realtà. Conduce
una vita distaccata, alienata (non diversa da quella di molte persone nella
vita reale), ed è mosso da un imperscrutabile senso del dovere.
Il satellite raccontato qui è
simile a un paese di montagna spopolato e prossimo a scomparire. Il Mooncop è
spinto dal contesto a chiedere il trasferimento, perché, in fondo, è alla
ricerca di una qualsiasi ragione per restare, e sembra trovarla. La conoscenza
con una cameriera, la quale si sente in pace ad ammirare stelle e pietre
lunari, gli permette di riscoprire quella bellezza infantile che aveva perduto.
Il Mooncop è affezionato
all’automa di Neil Armstrong, che, come un anziano, ripete a oltranza la storia
del primo allunaggio; aiuta le poche persone rimaste, mettendosi sempre a
disposizione. A fine giornata, il computer gli riferisce di aver raggiunto un
coefficiente di risoluzione dei casi del 100%, ma su zero casi da esaminare: è
tutta una farsa, auto-compiacente, da cui l’uomo prende comunque le distanze.
Le atmosfere sono languide e
malinconiche; le tavole senza dialoghi danno un senso di pace e, al contempo,
di indolenza. Lo stile del disegno è essenziale; tuttavia, è nella componente
visiva che Tom Gauld infonde il lato poetico della sua storia. A un certo
punto, come in Cronache marziane di Ray Bradbury, i terrestri tornano
sul loro pianeta. Il Mooncop rimane: non si trovano sostituti, ma la sua non è
la prigione che forse aveva paventato.
Nelle ultime pagine, ho avuto la
sensazione che la Luna non avesse bisogno di coloni terrestri, ma di autentici
seleniti capaci di amarla per ciò che ha da offrire.
Bacteria
Paola Barbato, Matteo Bussola, Emilio Pilliu, Bacteria,
Astra (Star Comics), Bosco (Perugia), 2021
Facciamo un salto in avanti di un
secolo. Dopo grandi devastazioni, restano cinque territori, abitati da
popolazioni che si odiano, ma che non hanno più i mezzi per farsi la guerra. A
Nord, le persone sono sfuggite alle radiazioni nascondendosi nel sottosuolo; a
Sud, le piogge acide hanno generato creature geneticamente modificate. A Est,
rimane una civiltà che teme la luce e le polveri dell’aria; a Ovest,
sopravvivono solo i più forti fisicamente. Un quinto territorio è situato in
mezzo agli altri: è una roccaforte tecnologica, che intende sterminare i vicini
per ripopolare la Terra con la “razza originaria”.
Quattro bambini vengono infettati
con diverse malattie (meningite, tifo, peste e colera): diventano portatori
sani e vengono addestrati a colpire i nemici. Divenuti ragazzi, vengono usati
come Akira, non per una guerra telecinetica, ma batteriologica. Infine, gli
scienziati hanno instillato in loro una “spinta emotiva primaria”: rabbia per
Orjin, ambizione all’eroismo per Weye, spirito di sacrificio per Ylla, senso di
colpa per Muzu.
Come è facile comprendere, gli
elementi narrativi sono molteplici e, interagendo, danno vita a molteplici
possibilità. Per questo, il libro avrebbe richiesto un maggior numero di pagine
o di sacrificare alcuni aspetti. Nel complesso, comunque, la sceneggiatura di
Paola Barbato e di Matteo Bussola riesce nel difficile compito di sviluppare
una trama che giunga a un punto di svolta significativo, tenendo insieme il
corposo materiale. I disegni di Emilio Pilliu, di ispirazione giapponese,
riescono con la loro vivacità e alternanza cromatica a definire l’immaginario
visivo dei cinque territori. A ciò si aggiungono quei colori che mirano a
evidenziare gli stati d’animo o il senso di pericolo, come nelle tavole che
mostrano il contagio attraverso la bicromia.
Il libro è un anti-Golding, che
mescola atmosfere alla Hunger Games e alla Divergent: i quattro
giovani scoprono a loro spese le conseguenze dell’adesione o della ribellione a
un fato predeterminato. Qui gli adulti non rappresentano la maturità o la
saggezza, ma il retaggio terribile dell’autodistruzione. È la necessità di un
nuovo paradigma a convincere alcuni di loro a sacrificarsi in nome di una nuova
umanità, in cui i popoli scoprono di non poter più fare a meno l’uno
dell’altro.
Crawl Space
Jesse Jacobs, Crawl Space,
Eris, Torino, 2018
Per descrivere questo libro,
qualcuno potrebbe limitarsi a usare tre parole consunte: psichedelico,
caleidoscopico, mandala. Le ho usate ora, così possiamo dimenticarcele.
Il “crawl space” del titolo è
un’intercapedine o un seminterrato. La protagonista, Daisy, si è appena
trasferita in una nuova casa: proprio nel seminterrato si trova una lavatrice,
che in realtà è il portale per un universo parallelo costituito da forme di
vita insolite e da colori accecanti e cangianti.
Jacobs ci suggerisce che esistano
altri mondi oltre a quello fisico: pochi si sono affacciati sui piani più
elevati di questo universo e l’accesso è riservato a esseri illuminati.
Soltanto gli individui più determinati e disciplinati sono in grado di «attraversare
la barriera cosmica». Non a caso, i giovani che partecipano a una festa a casa
di Daisy devastano l’universo parallelo, perché sono ancora troppo superficiali
per comprenderne la bellezza.
Daisy e la nuova amica
Jeanne-Claude esplorano il mondo nella lavatrice, poiché gli esseri puri e
innocenti possiedono la capacità di individuare questi sacri passaggi, in cui
il tessuto cosmico è lacerato. In un piano non fisico lo spazio-tempo si distorce
e le emozioni estreme influenzano l’ambiente, tanto che una persona preparata
potrebbe trascendere ai piaceri celestiali. Al contrario, coloro che hanno
intenzioni impure aprono un abisso di terrore. La simpatica teiera dei primi
capitoli diviene così una creatura demoniaca. I colori vibranti, le policromie
e le geometrie, prima affascinanti e dal sapore sacro, diventano minacciosi
meccanismi a tenaglia.
Daisy conosce la sensazione del
quasi annullamento della propria identità. I suoi resti si erano reintegrati
con la fonte infinita da cui tutte le cose giungono e a cui tutto ritorna. È
Jeanne-Claude a riportarla con i piedi per terra, per così dire, a un passo dal
completo dissolvimento nell’unità.
Il libro di Jacobs è prima di
tutto un’esperienza visuale, in cui i testi entrano spesso a forza. Al centro,
troviamo volti simili a maschere azteche, colori e espressioni da album dei
King Crimson. I disegni sembrano alludere alle vetrate delle cattedrali
medievali, innervate da elementi allucinogeni. È una esplorazione mistica che
nasce dal quotidiano.
Il buco noir
Stefano Zattera, Il buco noir. Earl Foureyes mutant detective,
Eris | Progetto Stigma, Torino, 2020
Ci troviamo nel 3019, nella
Nazione Lattea: da un anno, un buco nero, o, meglio, “noir”, ha iniziato a
succhiare i colori. Gli spazi perdono saturazione, fino al bianco e nero,
trasformando la Via Lattea nella scenografia di un vecchio film noir.
A Sick City, il cui nome parla da
sé, un investigatore privato, Mr. Earl Foureyes, viene incaricato dal signor
Doublenose di scoprire chi abbia ucciso sua figlia, morta avvelenata e
parzialmente scuoiata. Foureyes indaga nonostante non abbia le autorizzazioni
per occuparsi dei casi archiviati. La polizia, infatti, non vuole saperne nulla
e il potere burocratico sembra celare un segreto, che collegherebbe la fine
della figlia di Doublenose alle morti di altre donne.
L’investigatore si destreggia tra
le mistificazioni e la propaganda degli ologiornali, che monopolizzano
l’attenzione alla maniera di un cinegiornale futuristico del Ventennio. I
Superburocrati hanno inoltre aperto la caccia ai supereroi – gli unici che seguivano
anche i casi irrisolti – per spedirli su Alkazar XVI, il pianeta prigione. A
questo stato di cose di oppongono soltanto individui come Foureyes e i suoi
amici, e realtà come gli zombi maoisti di Orione, che promuovono una forma di
anarco-comunismo.
Tra interrogatori e risse,
Foureyes scopre un legame tra le uccisioni e Lady Matanga, una popstar e
predicatrice intergalattica che ha dato vita a un culto settario. I seguaci
ascoltano la sua musica e assumono una droga da lei creata, la trascendrug, che
porterebbe a meditazioni trascendentali.
Il tema delle droghe è abbastanza
rilevante nella trama. Nelle ultime pagine, si cita la psyloanketamina, che
permetterebbe di elevarsi a una dimensione dove ci si unisce a livello
telepatico in una trascendenza collettiva. Persino i fumetti vengono considerati
una droga, l’unica davvero vietata, se non nella forma propagandistica voluta
dai Superburocrati.
Nonostante si parli di
trascendenza tramite sostanze allucinogene, la spiritualità di questo universo
non è messa per niente bene, tanto che persino Islam e Cristianesimo sono stati
costretti a unirsi in una forma sincretica molto discutibile. Lady Matanga è
l’emblema di questa decadenza spirituale: la sua versione di gurismo non è
altro che una forma di manipolazione, il cui scopo ultimo non esclude il
sacrificio degli adepti.
Il mondo creato da Stefano Zattera
è pericoloso, ma invitante, denso di possibilità per ogni creatura; un luogo
dove i freak sono la norma e il weird si mescola alla perfezione a elementi
erotici, noir e sci-fi.
La ballata di Halo
Jones
Alan Moore, Ian Gibson, La Ballata di Halo Jones. The Complete,
Editoriale Cosmo, Reggio Emilia, 2017
The Ballad of Halo Jones
uscì in origine a puntate sul settimanale britannico 2000AD. Apparve per la
prima volta nel 1984: Halo è una giovane del Cinquantesimo secolo, che vive in
un complesso residenziale chiamato “The Hoop” (“Il Cerchio”), un agglomerato
galleggiante ormeggiato al largo della costa orientale americana. Le prime
scene hanno un tono comico e leggero, che diviene a poco a poco drammatico:
sono questi ultimi momenti a spingere Halo a lasciare la Terra per sempre.
La donna viaggia nello spazio e
diventa una hostess. Accompagnata dall’amica Rodice e da Toby, il suo fedele
cane robot, scopre qualcosa di tremendo, che la fa precipitare ancora di più
nella tristezza e, al contempo, rafforza il suo carattere.
In un crescendo di storie brevi
sempre più intense, Halo finisce per arruolarsi in una formazione militare
interstellare che conduce guerre massacranti in stile Vietnam.
Uno dei principali temi della saga
è la scarsità di lavoro in una delle periferie della galassia, che si mescola
al desiderio giovanile di abbandonare tutto per esplorare un ignoto
idealizzato. La giovane si ribella prima di tutto alla sua condizione sociale,
ma la scelta di partire non è facile: segna invece la perdita di una certa
spensieratezza, di una parte di quella ironia che l’aveva caratterizzata fino
ad allora. Le esperienze la rendono malinconica, tra delfini senzienti, ciniche
multinazionali e il fantasma del disturbo post-traumatico da stress.
È chiaro come Moore si sia
ispirato, o perlomeno abbia cavalcato il successo di Star Wars, migliorando –
in certi casi – alcuni aspetti di quel tipo di fantascienza. Infatti, entriamo
nel suo universo senza preavviso, fuori da ogni zona di comfort, sommersi da un
linguaggio a tratti incomprensibile, che ci ricorda quanto sia naturale che, in
un futuro tanto remoto, esistano espressioni a noi incomprensibili. Fuori dalla
storia, Moore ci mostra la sua abilità creativa, non solo nei neologismi, ma in
un worldbuilding di tutto rispetto.
Il ciclo di storie di Halo Jones non è un capolavoro, ma offre diversi spunti di riflessione sulla nostra società, a partire dal ruolo della protagonista, una donna alla ricerca di una propria emancipazione, che sfida di volta in volta i limiti personali e quelli oggettivi dati dalle mille difficoltà di chi si avventura in una galassia che è spesso un Far West.
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