Yakuza. Storia, riti e caratteristiche

 


Ninkyō dantai, ovvero “organizzazioni cavalleresche”: è questa l’espressione con cui preferiscono definirsi gli yakuza, gangster riuniti in sindacati transnazionali che, nel loro insieme, costituiscono una delle più grandi espressioni del crimine organizzato globale.

Il fenomeno è conosciuto anche come gokudō, il “sentiero estremo”, ma le autorità e i media impiegano un termine meno esaltante, bōryokudan, ovvero “gruppi violenti”.

Chi sono dunque i famigerati yakuza? Molti di loro si ritengono depositari delle tradizioni dei samurai, sebbene nelle sedi delle loro kumi, o bande, espongano elaborati alberi genealogici che li riconducono a famosi fuorilegge. È corretto allora paragonarli alle mafie, o c’è dell’altro? Per comprenderlo, bisogna volgere uno sguardo alla storia e alle tradizioni giapponesi.

 

Origini mitiche: i samurai

 

Nel 1192, Minamoto no Yoritomo assunse il titolo di shōgun e creò il bakufu, cardine del sistema di fedeltà feudale nipponico. Egli voleva rafforzare il proprio potere attraverso la sottomissione dei nobili alleati delle province, chiamati shugo.

Questo sistema entrò in crisi nella seconda metà del XVI secolo, quando lo shōgun perse il controllo sul territorio e ebbe inizio il periodo Sengoku, o degli Stati in guerra. Agli shugo si sostituirono i daimyō, i proprietari terrieri indipendenti, che mantenevano una certa vicinanza con la popolazione, rafforzando il legame tra governante e sudditi.

Non tutti i guerrieri potevano però raggiungere il titolo di daimyō e questo, nel tempo, generò dissidi, per esempio nella categoria dei giovani samurai, noti come hatamoto yakko. Essi adottavano atteggiamenti estremi, come vestirsi troppo d’estate o poco d’inverno e mangiare cibi troppo caldi o freddi. Frustrati dalla lunga fase di pace del periodo Edo, o Tokugawa, che non permetteva loro di distinguersi, si riunirono in gruppi. Si lamentavano della degenerazione del bushidō, il codice d’onore dei samurai, e agivano con violenza contro i chōnin, gli uomini di città che, a loro dire, avevano permesso tale sovvertimento attraverso la modernità e i commerci con l’estero.

Non tutti gli yakuza concordano però su questa discendenza. Altri si ritengono gli eredi del fronte opposto, i difensori delle città noti come machi yakko. In realtà, i due gruppi sociali presentavano delle affinità: si distinguevano per coraggio e per eccessi, con la differenza che i machi non potevano portare armi e dovevano quindi contare sulla forza fisica o su armi non convenzionali come ventagli e bastoni, strumenti poi teorizzati nelle arti marziali.

Gli yakko vennero annientati dal potere centrale alla fine del XVII secolo, ma sopravvissero nelle leggende e nel gusto estetico eccentrico, un’eredità raccolta dai lottatori di sumo e da altre categorie, tra cui i giocatori d’azzardo e i venditori ambulanti, diretti progenitori degli yakuza.

 

Tekiya e bakuto

 

Il periodo Edo era iniziato nel 1603. In questa epoca, si definivano tekiya i ricettatori e bakuto le persone coinvolte nel gioco d’azzardo. Il termine “tekiya” deriva dall’unione di due parole che significano “freccia” (ya) e “pollo” (teki): essi vendevano merci contraffatte, vendevano bonsai senza radici e scarpe usate vendute come nuove, si fingevano ubriachi per mostrarsi deboli all’acquirente. I Tokugawa si accorsero della loro utilità e, a partire dal 1735, alcuni importanti tekiya vennero nominati “supervisori” dei mercati e poterono fregiarsi del myojitaito, ovvero del cognome e di una spada lunga, uno status che li avvicinava ai samurai, i quali avevano diritto a portare il daishō, la coppia di spade. Grazie al riconoscimento ufficiale, il loro numero crebbe e poterono così monopolizzare la gestione dei mercati, imponendo una tassa in cambio dell’occupazione del suolo e della protezione.

 

Meno fortunata la storia dei bakuto, persone che vivevano ai margini della società, in quanto il gioco d’azzardo era illegale. Essi si incontravano in case di periferia e in templi abbandonati; praticavano lo strozzinaggio e erano dotati di un personale di sicurezza per garantire l’ordine. I bakuto erano stanziali, quindi avevano un diverso legame con il territorio. Nei primi tempi, alcuni membri collaboravano persino con la polizia e, nel 1805, il governo organizzò una polizia criminale, inviando “sceriffi” itineranti che spesso proteggevano alcuni bakuto in cambio di informazioni. Ciò nonostante, non ottennero mai il riconoscimento pubblico dei tekiya.

Il termine “yakuza” deriva comunque dal loro gergo e risale alla metà dell’Ottocento, per quanto esso designò le organizzazioni criminali soltanto nel Novecento. La parola è collegata a un gioco di carte chiamato Oicho-Kabu, in cui l’obiettivo è pescare tre carte la cui somma porti a un punteggio di nove. Nelle dinamiche del gioco, la mano peggiore è 20 e può essere ottenuta con le carte 8-9-3, che si pronunciano appunto ya-ku-sa. Per estensione, il termine rimanda al concetto di inutilità, contribuendo a quell’immagine romanticizzata dello yakuza come Robin Hood che lotta contro un potere più forte di lui. In maniera speculare, indica un’azione avventata e coraggiosa e, per questo, le autorità preferiscono utilizzare il più generico termine bōryokudan.

Il sistema dei due gruppi, tekiya e bakuto, si protrasse fino alla seconda guerra mondiale: in questo lungo arco di tempo, il crimine organizzato conobbe una significativa evoluzione, che lo portò a diretto contatto con i movimenti nazionalisti.

 

Costruire l’impero

 

Il codice d’onore dei bakuto si ispirava ai princìpi cavallereschi, che includevano l’obbedienza ai superiori, la segretezza, la difesa dell’onore del gruppo a ogni costo, l’allenamento nelle arti marziali, la sopportazione del dolore e il rispetto per le donne degli altri membri. Erano dunque dei tradizionalisti, che rimasero colpiti dalla svolta del 1854, anno in cui il Commodoro Perry impose allo shōgun la Convenzione di Kanegawa, uno dei cosiddetti “trattati ineguali” con cui le potenze mondiali si imposero in Estremo Oriente.

Il malcontento si fece sentire nelle periferie. I bakuto avevano conquistato posizioni importanti nelle comunità rurali, occupandosi dell’assistenza sociale e della gestione dell’ordine pubblico. Il governo cercò invano di limitarli, perché essi organizzarono disordini ai quali si aggiunsero ex samurai, agricoltori e studenti. Emersero così gli shishi, una macrocategoria con cui si indicano coloro che erano delusi dall’atteggiamento remissivo dei governanti. Avevano un look distintivo e trasandato: si lasciavano crescere barba e capelli, trascuravano l’igiene personale e vestivano in maniera spartana. Aggredivano gli stranieri e i giapponesi condiscendenti, finché lo shōgun riuscì a sconfiggerli in campo aperto. Era tuttavia il segnale di un’insoddisfazione generale, che portò a una crisi di governo dei vertici imperiali, conclusasi con la svolta del periodo Meiji, o del governo illuminato, che ebbe inizio nel 1868. Il potere centrale si fece più pressante e venne introdotta una legge contro il gioco d’azzardo, volta a ridurre il potere dei bakuto.

Nella società giapponese, nacquero forme di protesta all’occidentalizzazione. Per esempio, i soshi si opponevano al gentiluomo in giacca e cravatta indossando kimono strappati, portando i capelli lunghi e accompagnandosi con una mazza. I soshi adottarono anche tattiche intimidatorie per influenzare le autorità. A causa del divieto sui comizi politici all’aperto, organizzavano manifestazioni sportive, cortei con gruppi in costume che si concludevano in esibizioni atletiche e in festeggiamenti con alcolici.

Fu in quel periodo che il Ministero degli Interni adottò il termine bōryokudan, che all’epoca designava quattro categorie di criminali: gli studenti delinquenti, gli avvocati cavillosi, i soshi e gli yakuza. Soltanto negli anni Sessanta del Novecento il termine si circoscrisse alla malavita organizzata.

Eppure, se è vero che categorie come i soshi finirono per istituzionalizzarsi, avvenne anche un processo di amalgama tra organizzazioni criminali e forze ultranazionaliste, sempre più rilevanti. Questi gruppi avevano in comune la nostalgia per un Giappone mitizzato; professavano lo Shintoismo, riconoscevano un valore nella forza e disprezzavano gli stranieri.

Nel 1881, nacquero la società segreta Gen’yōsha e la Kempeitai, la polizia militare segreta. La Gen’yōsha si infiltrò in Cina e poi collaborò con la Kempeitai per allargarsi in Corea e in Manciuria. Tra i suoi uomini c’erano molti yakuza, che sostennero i soshi dei partiti di governo, scatenando scontri sanguinosi nel 1892. La cooperazione tra yakuza e ultranazionalisti permise ai primi di collaborare con l’ufficio governativo per il monopolio dell’oppio istituito da Naoki Hoshino. In Corea, vennero reclutati i locali per diffondere droga nei territori occupati, a prezzi concorrenziali rispetto ai prodotti cinesi. Il giro d’affari era milionario e i proventi venivano reinvestiti nelle infrastrutture in Manciuria e nell’acquisizione di armamenti. Nel 1901, alla Gen’yōsha si sostituì la Kokuryukai, fondata da Uchida Ryohei, che aveva coordinato le azioni clandestine in Corea. Servizi segreti, società occulte e ultranazionalisti erano mescolati alla malavita, che ormai era entrata nelle istituzioni e si era proiettata su uno scenario internazionale, culminato nella vittoria del Giappone sulla Russia, sancita dalla pace di Portsmouth del 1905.

Gli yakuza avevano contribuito alla realizzazione del sogno coloniale nipponico, ma con l’attacco di Pearl Harbor del 1941 ci fu una spaccatura: l’impero arruolava i propri cittadini, ma molti yakuza tornarono alla clandestinità. Nel corso della seconda guerra mondiale, si concentrarono sul fronte interno: erano immischiati nei contratti statali mirati alla costruzione di infrastrutture belliche. Le ditte edili della yakuza reinvestivano poi i proventi in tangenti. A Tōkyō, alcuni leader tekiya ottennero l’incarico di agenti municipali delle tasse e ripresero a gestire le bancarelle dei mercati, con l’aiuto della polizia che costringeva gli ambulanti a associarsi. Infine, nelle ultime fasi della guerra, gli yakuza furono ingaggiati nei campi di prigionia per la gestione e la supervisione dei prigionieri.

 

Secondo dopoguerra: la Yakuza moderna

 


Nel secondo dopoguerra, il sistema criminale cominciò a strutturarsi nella moderna yakuza. La malavita gestiva la borsa nera, vantandosi di aver soccorso i giapponesi, ormai abbandonati a loro stessi dal governo. In parallelo, chiedevano il pizzo e rivendevano a prezzi proibitivi i beni donati dagli Stati Uniti. Proprio la presenza statunitense spinse gli yakuza a sviluppare il mercato della prostituzione: i bordelli divennero ambienti d’affari per la gestione degli appalti relativi alla ricostruzione, che finirono spesso in mano a ditte di demolizione yakuza.

In questi anni, emerse anche il fenomeno dei sangokujin, gli stranieri imprigionati che erano stati trasformati in lavoratori coatti. Una volta liberi, cercarono di soppiantare gli yakuza nel mercato nero e crearono disordini come gli assalti ai distretti di polizia: le bande yakuza intervennero con la violenza, con il pretesto di difendere la patria dagli approfittatori stranieri, e la situazione si risolse.

Inoltre, il giro d’affari si allargò a livello transoceanico. Ci furono contatti con la mafia statunitense, per esempio nella figura di Nicola “Nick” Zappetti, sospettato “uomo di fiducia” della mafia newyorkese, che fece affari in Giappone e ebbe contatti prolungati con membri di spicco della yakuza.

 

Già nel 1947, le autorità statunitensi aprirono indagini sistematiche sulla criminalità giapponese. Vennero realizzati venticinquemila arresti, ma solo il 2% ricevette una condanna. Nel 1950, la Dieta giapponese approvò l’Atto di Controllo delle Associazioni, che mirava a indebolire le bande, tuttavia, l’anno successivo, si potevano contare ancora 56mila membri di associazioni criminali.

Tra di loro, c’erano anche gli ex soldati rientrati dalla guerra: essi rifiutavano il codice d’onore e il tradizionale rapporto gerarchico; non rispettavano la gente onesta e erano molto violenti. Questo genere di yakuza venne definita gurentai, un termine traducibile come “gruppo di sbandati”. Era il segno di una spaccatura con le generazioni precedenti.

Nel 1952, finì l’occupazione statunitense. All’epoca, la yakuza era già immischiata nel traffico di droga, nella speculazione edilizia, nello strozzinaggio e nella prostituzione, che continuò con un cambio di clientela: dai soldati agli uomini d’affari. Un tempo – lamentavano alcuni vecchi criminali – la yakuza si dedicava soltanto al gioco d’azzardo. La situazione era destinata a peggiorare. Nel 1958, venne siglato il primo contratto d’omicidio su commissione nello stile dei gangster statunitensi. I media cominciarono a smontare lo stereotipo della yakuza che perseguiva ideali cavallereschi e la polizia organizzò un ufficio di coordinamento generale preposto alla lotta contro le bōryokudan.

Eppure, la yakuza era ancora dentro le istituzioni. Nel 1957, venne eletto primo ministro Nobusuke Kishi, un uomo che si faceva aiutare dalla yakuza per sedare il dissenso, per esempio in occasione della visita del presidente Eisenhower. In quell’occasione, il leader Yoshio Kodama affiancò alla polizia un servizio d’ordine che raccoglieva tra le trenta e le quarantamila persone, armate con bastoni di legno.

 

Negli anni Sessanta, la yakuza aveva esteso il suo raggio d’azione al Sudest asiatico, favorendo il turismo sessuale e il traffico di droga. Negli anni successivi, si espanse in Corea del Sud, Cina, Taiwan e nelle isole del Pacifico, in particolare alle Hawaii. Sembra che alcuni gruppi siano riusciti a infiltrarsi persino in Corea del Nord, dove nel 2009 è stato rilasciato il gangster Yoshiaki Sawada.

Avvenne anche un cambio di immagine. Gli yakuza si ispirarono ai criminali dei film americani e indossarono camicie e abiti scuri, cravatte bianche, occhiali neri e pettinature a spazzola. Guidavano macchine straniere come le Cadillac e mostravano sogghigni beffardi.

Il prototipo della banda emergente di allora era la Yamaguchi-gumi, comandata da Taoka “Kuma” Kazuo dal 1946, anno in cui succedette all’ultimo rappresentante della famiglia fondatrice Yamaguchi. A diciassette anni, in preda all’ira, Kazuo aveva aggredito un uomo cavandogli gli occhi a mani nude, un’azione che divenne il suo marchio di fabbrica. Nel 1936, era entrato nella Yamaguchi-gumi e, quando prese il potere, cercò di espandersi in tutto il Paese. I membri indossavano uniformi da combattimento e vestiti occidentali, usavano revolver e automatiche e erano molto violenti, tanto che nel 1963 condussero una sparatoria di quattro ore, in pieno giorno, nella città di Matsuyama.

Ciò spinse le autorità a nuove retate su vasta scala; venne reintrodotto il Regolamento anti-delinquenza, furono aggiunte le aggravanti per lesioni da arma da fuoco e da taglio e fu inasprita la legge contro il gioco d’azzardo. Le bande risposero riunendosi in sindacati sempre più grandi, come la Kantō-kai, l’intesa guidata dal bakuto Kakuji Inagawa, nata nel 1964, che raccolse le bande dell’area di Tōkyō.

 

Negli anni Settanta, le Hawaii funsero da testa di ponte per le Americhe, tanto che nel 1978 venne indetta la prima conferenza tra Stati Uniti e Giappone per discutere il problema del contrabbando di narcotici, i cui principali trafficanti erano i sindacati criminali nipponici. Esistevano poi diramazioni a Los Angeles, San Francisco, Vancouver, Hong Kong e in Stati come Brasile, Thailandia e Filippine.

I primi seri problemi arrivarono negli anni Ottanta, con un nuovo cambio generazionale. Nel 1981, Kazuo era morto gettando la Yamaguchi-gumi in quasi un decennio di lotte intestine.

In questa fase, le bōryokudan si erano introdotte nel settore delle proprietà immobiliari: i keizai yakuza erano criminali che si insinuarono nella finanza con gli interi yakuza, persone istruite che ormai affiancavano i sicari professionisti. Nacquero nuovi interessi anche in Europa, come l’estorsione ai danni delle filiali europee delle multinazionali giapponese, il rifornimento di materiale pornografico (vietato in Giappone) e l’acquisto di metamfetamina dalla Germania Federale.

Gli affari nelle Americhe si allargarono: dal riciclaggio di denaro in Argentina alla tratta delle donne in Brasile e in Colombia, fino all’avvicinamento ai narcotrafficanti in Perù. Ciò portò, nel 1983, alla creazione di una commissione d’inchiesta sul crimine organizzato negli Stati Uniti, durante la presidenza Reagan.

 

La crescente spirale di violenza interna, dovuta alle lotte di potere, scatenò tuttavia indignazione nell’opinione pubblica, perché spesso i civili rimanevano feriti nelle faide. Nel 1989, ci fu la prima protesta popolare contro la malavita yakuza. Due anni dopo, prese vita il Botaiho, il Provvedimento legge contro le bōryokudan, in cui restava ignorato il reato di associazione, ma venivano forniti nuovi strumenti di repressione alle forze dell’ordine.

Il Provvedimento includeva la creazione di una Commissione Nazionale di Pubblica Sicurezza, che coordinava dei distaccamenti prefetturali. I membri, insieme alle forze di polizia, fornirono consulenze alle aziende su come affrontare ricatti, intimidazioni e violenze. In parallelo, veniva garantito un sostegno ai pentiti, che includeva un processo di reinserimento.

Molte bōryokudan presero contromisure per evitare sequestri, eliminando le targhe dalle sedi e sospendendo l’assemblea mensile dei vertici. A settembre del 1991, la Yamaguchi-gumi si era data nuove linee guida. I sottogruppi della banda si registrarono come imprese commerciali o istituzioni religiose; fu sconsigliato lo sconfinamento e vennero predilette le multe al posto dell’amputazione del mignolo come punizione, per evitare facili riconoscimenti.

Nel triennio successivo, ci fu un’impennata di arresti, fino ai 33.970 del 1993. Risultavano diminuiti i crimini legati alle attività tradizionali, mentre aumentavano i crimini finanziari.

 

La Yamaguchi-gumi e la Aizukotetsu-kai denunciarono il Provvedimento come anticostituzionale, perché – a loro dire – ledeva la libertà di associazione e discriminava i cittadini in base al lavoro svolto. La yakuza tornò a occultarsi e i suoi membri, alle udienze, cercarono di fornire una nuova immagine: non organizzazioni criminali, ma gruppi che si ispirano a nobili ideali per il bene del Paese. Per assurdo, nelle manifestazioni degli anni Novanta, si potevano osservare yakuza che sfilavano insieme ai rivoluzionari di sinistra o alle vittime di Aids: partecipare agli eventi dei gruppi che si percepivano come discriminati era strumentale alla yakuza per ridefinirsi a livello pubblico.

Così, a seguito del terremoto di Kobe del 1995, la Yamaguchi-gumi, che aveva il quartier generale in città, fece il possibile per portare soccorso ai feriti, fornendo beni di prima necessità. Qualcosa di analogo avvenne con il terremoto di Fukushima del 2011, per quanto, dopo gli aiuti umanitari, la yakuza cercò di inserirsi nel sistema degli appalti pubblici per la ricostruzione.

Un nuovo colpo giunse nel 1998, con il pacchetto di leggi denominato Sotaiho, approvato l’anno successivo nonostante i forti contrasti con l’opposizione e le discordie nella maggioranza. Vennero previste norme per la protezione dei testimoni, un inasprimento delle pene legate al crimine organizzato e vennero introdotte nuove regole per le intercettazioni.

 

Nei primi anni Duemila, le forze di polizia rilasciarono informazioni al pubblico sui membri della yakuza e sulle aziende collegate a essa, per favorire la stigmatizzazione del fenomeno. Vennero introdotte nuove norme sulle armi da fuoco, che includevano un maggiore margine d’azione per la polizia.

I membri delle bōryokudan cercarono di ripulirsi con protesi alle dita o trapianti e con la cancellazione chirurgica dei tatuaggi. Le operazioni erano costose, per cui le autorità cercarono di venire incontro ai pentiti in cambio di informazioni. Ciò nonostante, le indagini mostravano che la maggior parte degli arrestati si dichiarava ancora fedele ai vertici delle bande. Il problema della yakuza è di altra natura: dal 1963, si assiste a un costante calo degli affiliati ventenni e a un aumento degli ultraquarantenni, un processo più rapido rispetto al generale invecchiamento della popolazione giapponese. Inoltre, i giovani sono meno inclini di un tempo a entrare nelle bande, tanto che le adesioni sono passate dal picco del 1963, con 184mila individui, agli 11.400 membri effettivi del 2022. L’età media è di 54 anni e i giovani sono in calo perché, pur non esistendo un divieto per legge sull’adesione, le leggi prevedono maggiori responsabilità per crimini legali alle bōryokudan.

Non è da escludere che il fenomeno sia in parte sommerso, soprattutto alla luce della legislazione in materia degli ultimi trent’anni.

 

Riti, tradizioni e popolarità

 


La moderna yakuza è molto diversa al suo interno e non costituisce un’organizzazione unitaria. Per le proprie cerimonie, alcune bande si identificano nei rituali tekiya, altre in quelli bakuto. La yakuza prosegue anche la tradizione del mon, il blasone che veniva impiegato un tempo dai nobili e dai samurai, e che, fino a poco tempo fa, veniva mostrato pubblicamente nei loghi e sul vestiario.

Nella tradizione giapponese, è ricorrente il rapporto tra oyabun e kobun, rispettivamente il genitore adottivo e il figlio adottato. L’oyabun fornisce consigli e aiuti materiali e controlla i sottoposti affinché mantengano la dignità della struttura. I kobun si mettono totalmente a servizio dell’oyabun, al quale prestano fedeltà. Nelle realtà più grandi, è presente un’ulteriore distinzione tra i kobun più giovani, detti kōhai, e quelli più anziani, i senpai.

La yakuza segue questo tipico modello gerarchico, mimetizzandosi meglio nella società nipponica. L’oyabun, chiamato anche kumichō, sceglie il successore tra i kobun di primo livello, detti ichikobun: si cerca di non trasferire il potere al figlio, per evitare accuse di nepotismo, e la cerimonia che annuncia la successione è chiamata shumei hiro, ed è aperta alle altre bande. L’oyabun diventa un inkyo, un pensionato che riceve denaro dalla kumi o che si dedica a un’attività onesta, sfruttando le sue conoscenze.

 

Gli yakuza provengono da tutti i ceti sociali. L’arruolamento avviene tra i giovani delinquenti del quartiere, tra gli emarginati scolastici e tra le bande giovanili. L’addestramento può durare anni e inizia con lo svolgimento dei compiti più umili. La yakuza riempie così ogni nicchia dell’ecosistema criminale, limitando o impedendo l’azione dei criminali indipendenti.

La relazione oyabun-kobun è sancita dalla cerimonia del sakè, condiviso in un’antica tazza, un rituale comune anche nei tradizionali matrimoni shintoisti. La cerimonia è celebrata davanti all’altare della dea del sole Amaterasu Ōmikami, ritenuta capostipite della casa imperiale, ma gli yakuza venerano anche il principio della guerra Hachiman, le divinità del santuario Kasuga e gli imperatori defunti. Dopo un dettagliato scambio di tazze e di elementi come sale, riso e due pesci, il kobun avvolge la tazza in un foglio di carta di riso e la ripone nel kimono, come pegno del vincolo. Al neofita vengono consegnati il mon, la katana, una mappa del territorio e alcuni tagli di stoffa per il kimono.

Altre cerimonie sono il koto hajime, una festa di fine anno in cui i kobun confermano la loro lealtà e gli oyabun illustrano i progetti futuri. Con demukae si indica, invece, la cerimonia per il rilascio di un membro della banda. In base allo status del detenuto, i membri giungono davanti alla prigione con auto di grossa cilindrata; all’ex detenuto viene offerto un ottimo banchetto e una somma di denaro. L’evento è un modo per sottolineare che la rieducazione dello Stato sia fallita.

 

Ci sono poi le punizioni. Per le violazioni leggere, si passa dalla formale richiesta di scuse con inchino alla rasatura completa del capo, alla prigionia o al temporaneo allontanamento dalla sede. Per le violazioni pesanti, è previsto un pestaggio violento, l’espulsione, la morte o lo yubitsume, l’accorciamento del dito.

Lo yubitsume deriva dai bakuto e prevede una cerimonia: il colpevole è vestito di kimono; si inginocchia davanti all’oyabun, si stringe il dito con un filo e taglia una falangetta. Questa viene avvolta in un fazzoletto di seta e offerta all’oyabun, che la accoglie nel kimono come gesto di perdono. Nel 1971, circa il 40% dei soggetti intervistati delle bōryokudan avevano almeno una falangetta mutilata, una cifra calata al 33% nel 1994.

 

Un segno distintivo più difficile da nascondere è il tatuaggio, uno degli elementi caratteristici degli yakuza. Spesso vengono realizzati con metodi artigianali, che includono strumenti non elettrici, aghi di bambù o di acciaio. La procedura è costosa e dolorosa e la superficie coperta può includere persino i genitali.

La storia del tatuaggio ha una lunga tradizione in Giappone. In certe fasi, rappresentò un modo per identificare i reietti, mentre i tatuaggi dei criminali specificavano la serietà del crimine e il luogo in cui era stato perpetrato. Dal IX secolo d.C., si diffuse la funzione decorativa del tatuaggio, ma rimane anche l’aspetto pratico: per esempio, tra il Quattrocento e il Seicento, i samurai si tatuavano il blasone familiare o un versetto buddhista, affinché i loro corpi fossero riconoscibili in caso di decapitazione.

Con l’arrivo dei Tokugawa, samurai e piccoli borghesi guardarono al tatuaggio con repulsione, secondo una tradizione confuciana, adottata dai nuovi regnanti, che vedeva il corpo come un dono dei genitori e non come una proprietà dell’individuo. Il tatuaggio venne formalmente vietato fino al 1812. Venne inoltre recuperato il tatuaggio coatto come forma punitiva, ma alcune categorie, come le maestranze edili tobininsoku, si tatuavano come forma di ribellione. Non a caso, alcune famiglie yakuza vanterebbero discendenze da loro. D’altra parte, i bakuto si tatuavano già nel tardo Seicento, per dimostrare la loro volontà di opporsi alle istituzioni e, forse, per coprire quelli ricevuti in carcere.

In parallelo, a partire dal 1751, ottenne grande fama il romanzo storico intitolato Shui-Hu-Chuan. Si trattava di un classico cinese del XIV secolo, che raccontava le gesta di alcuni ribelli contro la burocrazia corrotta del XII secolo. I 108 briganti dell’opera erano tutti tatuati e le illustrazioni create dai disegnatori giapponesi accrebbero l’immaginario popolare e l’interesse per i tatuaggi. Questi si diffusero a tal punto tra la popolazione, che nel 1830 vennero nuovamente vietati, per poi essere considerati una barbarie all’inizio dell’era Meiji, per il desiderio di conformarsi agli standard occidentali.

Per uno yakuza, il tatuaggio è la dimostrazione dell’otoko, la virilità dell’individuo, misurabile dalla sua capacità di sopportazione del dolore. Vi è poi una funzione intimidatoria, in base alla storia che i simboli raccontano, ed è un modo indelebile per sancire il passaggio alla gokudō, la via dell’eccesso.

In un’indagine del 1971, risultavano tatuati il 73% dei soggetti yakuza intervistati; solo il 10% aveva impiegato tecniche moderne. Negli anni Novanta, la percentuale di tatuati era pressoché invariata, ma cresceva il numero di membri che impiegava tecniche moderne.

Tra i motivi ricorrenti, troviamo elementi floreali come la peonia, il crisantemo e il fiore di ciliegio, espressione rispettivamente di ricchezza, tenacia e accettazione del fato. Tra gli animali, la carpa è simbolo di coraggio, la tigre ha più funzione decorativa, mentre il drago, che nella tradizione giapponese vive in acqua, è simbolo di completezza spirituale. Non mancano poi tatuaggi con i protagonisti dello Shui-Hu-Chuan e delle leggende giapponesi come Kintarō, oppure la rappresentazione di frasi e di divinità buddhiste come Fudō Myō-ō, il guardiano degli inferi, un dio che lotta per punire i malvagi.

 

Per il loro carattere ribelle e per un’estetica alternativa alla comune società, gli yakuza sono entrati nel mondo dello spettacolo in varie forme, anche in termini di affari, controllando le agenzie dello showbusiness.

Gli esordi degli yakuza eiga (i film sulla yakuza) risalgono agli anni Venti, con pellicole come Il diario di viaggio di Chūji (Chūji tabi nikki) diretto da Daisuke Itō, un’opera ispirata alle leggendarie gesta del fuorilegge-gentiluomo Kunisada Chūji, personaggio vissuto nella prima metà dell’Ottocento, del quale viene raccontato il vagabondare in fuga dalla giustizia.

Dopo la parentesi della seconda guerra mondiale, gli yakuza tornarono sullo schermo negli anni Cinquanta: erano coloro che sfidavano le ingiustizie sociali, come ne Il racconto dei tre regni di Jirochō (Jirochō sangokushi) del 1952, diretto da Masahiro Makino. Il protagonista era l’eroe popolare e yakuza Shimizu Jirochō, la cui vita venne trasposta in ben sedici film. In altre pellicole, torna la figura di Yoshio Kodama, il criminale che contemplava l’unificazione sotto il proprio comando dell’intero universo yakuza.

Nel corso del periodo Shōwa, comunque, si accentuò sempre di più la dicotomia tra lo yakuza fedele alle tradizioni e lo spietato gangster moderno, come riflesso dei cambiamenti sociali in atto nelle bōryokudan.

 

Nell’ultima parte del Novecento, la yakuza ha influenzato non soltanto cinema e manga giapponesi, ma anche le opere artistiche straniere. Per esempio, fantascienza e crimine organizzato si mescolano in Johnny Mnemonic, film sceneggiato da uno dei fondatori del cyberpunk, William Gibson. Pellicole del genere forniscono un tocco esotico alla narrazione, come in Kill Bill di Quentin Tarantino, in cui compare O-Ren Ishii, una sicaria giapponese, leader della banda yakuza degli 88 folli, che cerca vendetta sulla protagonista.

In tempi più recenti, e con maggiore aderenza storica, la yakuza ha un ruolo di rilievo nella serie distopica The Man in the High Castle, con richiami al ruolo della criminalità organizzata nella fase di sostegno all’imperialismo.

Se dunque nelle arti gli yakuza continuano a essere rappresentati nel duplice aspetto di difensori delle tradizioni e di criminali, nel mondo reale le bōryokudan sono sempre più incalzate dalla politica e dalle forze dell’ordine. I gruppi sono spinti a una nuova fase di occultamento, tra depistaggi e sottili tentativi di infiltrazione nei centri di potere. C’è forse del vero in quello che disse uno dei massimi dirigenti della Sumiyoshi-kai negli anni Ottanta: «Gli yakuza sono un male necessario per la società giapponese. Ma in futuro il nostro compito più grande sarà diventare imprenditori, operare nella legalità e pagare le tasse. L’era dei tekiya è finita; ormai bisogna far tutto alla luce del sole. Gli affari saranno la nostra strada per sopravvivere.»

 

Bibliografia e sitografia

 

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° Redazione, The secret lives of Yakuza women, BBC, 24.01.2020

° Redazione, Yakuza, britannica.com, consultato in data 10.02.2024

° Redazione, Yakuza: Kind-hearted criminals or monsters in suits?, Japan Today, 10.10.2012

° Saga J., Memorie di uno yakuza, Atmosphere Libri, Roma, 2022

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