Julius Evola. L'arte, la filosofia, la politica


 

Giulio Cesare Evola, meglio noto con lo pseudonimo Julius, è stata una figura emblematica del pensiero politico della destra tradizionale. In giovane età, la lettura di autori quali Nietzsche, Michelstaedter e Weininger lo avvicinò a posizioni anticristiane e a un atteggiamento di disprezzo per le convenzioni borghesi. Disdegnando i titoli accademici, non discusse la tesi alla facoltà di ingegneria e si dedicò a tempo pieno all’arte e alla letteratura. Conobbe intellettuali e artisti, da Giovanni Papini a Giacomo Balla e a Filippo Tommaso Marinetti.

Nel 1919, partecipò a un’esposizione futurista a Milano, ma presto prese le distanze dal movimento, rifiutandone il sensualismo, l’esaltazione del macchinismo e l’adesione alla propaganda antigermanica. Proprio durante la prima guerra mondiale, sostenne l’esigenza di schierarsi al fianco degli Imperi centrali. Combatté come ufficiale d’artiglieria e, tornato a Roma dopo il conflitto, attraversò una crisi esistenziale, dalla quale uscì leggendo un brano buddhista sulla vera natura dell’estinzione.


L'artista dada 


Nel 1920, aderì al dadaismo e iniziò una corrispondenza epistolare con Tristan Tzara. Definì questa fase “astrattismo mistico”: organizzò due mostre personali, nelle quali declinò il dadaismo in chiave spirituale e idealista. Divenne uno dei principali esponenti italiani del movimento e pubblicò saggi e articoli per diffonderne le idee.

Evola vede in dada il simbolo dell’antiumanità, la negazione degli impulsi naturali e dell’intelletto. Il termine non significa nulla e rappresenta l’orientamento di uno stato vitale incomunicabile. Nel Manifesto saccaromiceto, scrive: «Dada: spingere tutto al buio, mostrare l’oscurità, il moto sordo della tenebra dietro a ogni cosa; scarnire se stesso dalle fedi e dalle illusioni della passione, fino a mostrare uno scheletro disarticolato, inesplicabile, senza nome né ragione.»

Evola contrappone dada al materialismo futurista: dada è infatti assoluta interiorità, una profonda esigenza di voler passare oltre i valori umani e intellettuali. Il dadaismo è un ritorno agli stati vitali oscuri e imprevedibili, con i quali bisogna ritrovare confidenza.

Non mancano critiche anche al surrealismo, un fenomeno artistico nel quale l’Autore riconosce un segno dei tempi, quel senso di stanchezza tipico della società europea. Nel surrealismo, non vi sarebbe niente di magico o superiore, ma un mero gusto per il brivido e per l’inquietante che non esce mai dalla finzione. Accosta poi il movimento allo spiritismo, alla psicoanalisi e al teosofismo, tutti sintomi della debolezza della nostra società, che cerca rifugio in qualcosa che starebbe al di là del reale, peraltro fallendo.

 

Nel libro Arte astratta, Evola prosegue l’analisi dadaista. Critica il cosiddetto “uomo del mercato”, colui che, avvinto dagli agi e dagli idoli, cerca l’oblio e si rifiuta di conoscere chi sia intimamente. Dichiara che l’arte sia tutta da rifare, in quanto in essa hanno prevalso il commercio e il sentimento, anziché la metafisica. A suo dire, l’arte dovrebbe essere una pratica disinteressata, trascendente e libera dalle passioni volgari. Per creare un’arte “autentica”, l’individuo deve imporre la volontà sul sentimento estetico; trascendersi senza cedere all’ispirazione passionale. L’arte non deve significare nulla e non deve essere interpretata, perché ogni interpretazione la trasforma in uno strumento di potere o di propaganda.

Nel dadaismo, Evola trova una soluzione metafisica, con i suoi segni liberi, l’egoismo illogico e l’assenza di espressione. Eppure, il movimento è destinato a vita breve, perché rappresenta un compimento spirituale, oltre cui l’arte stessa scompare o è costretta a regredire alle sue fasi precedenti.

 

In un’altra opera, Evola approfondisce tale metafisica. La parole obscure du paysage intérieur è un poema, scritto in francese e uscito nel 1921. Nel testo, si trovano quattro voci, le quali rappresentano le «tendenze dello spirito», come scrive Evola ne Il cammino del cinabro: Ngara è la volontà di un superamento distruttivo; Lilan è l’elemento umano sentimentale; Hhah è l’astrazione disinteressata, che si anima per effetto di Ngara; Raâga è la contemplazione descrittiva, che funge da coro e registra il mutare del paesaggio interiore.

Le voci rappresentano il quaternario inferiore delle dottrine orientali e i quattro enti dell’uomo trattati dall’alchimia. Secondo Elisabetta Valento: «Lilan è il femminino, sovrano del mondo del divenire, unica voce sofferente e inquieta nella propria solitudine di quel “paesaggio interiore” in cui sono sprangate le porte che conducono all’esterno. Essa, […], incalzata da Ngara, la volontà che determina l’astrazione, comincia a vacillare, a sperdersi avvertendo la propria rarefazione e la propria nullità. Raâga, sorta di voce narrante, descrive il mutamento sopraggiunto nel “paesaggio interiore” ed è a questo punto che Hhah realizza “la sua personalità astratta, ossia, la sua mancanza di personalità”.»

Con questa opera, Evola matura la “fine dell’uomo”, quella fase in cui si smette di intellettualizzare e si ipotizza il suicidio, peraltro annunciato dall’Autore in pubblico e in alcune lettere. Evola raggiunse così il personale limite del dadaismo e interruppe l’attività artistica, ripresa in altri momenti della sua vita. Maturò una concezione del suicidio in chiave metafisica, ovvero non un’uccisione esteriore, ma un atto di volontà, preludio all’apertura verso tematiche tradizionali.


Il filosofo dell'idealismo magico 


A metà degli anni Venti, Evola frequentò i circoli esoterici romani; scrisse per riviste quali Ignis e Atanòr e intrattenne una relazione con Sibilla Aleramo. Conobbe l’esoterista Arturo Reghini e, nel 1927, iniziò a coordinare il Gruppo di Ur, che si occupava di magia, alchimia e ricerche sulle tradizioni extraeuropee. Nel frattempo, andava definendo le sue concezioni metafisiche in chiave filosofica.

Nel 1925, uscirono i Saggi sull’idealismo magico, preludio all’uscita dei due tomi di Teoria e fenomenologia dell’Individuo assoluto. Con l’espressione “idealismo magico”, Evola intende la capacità del soggetto ideale e spirituale, definito Individuo assoluto, di creare la totalità dell’essere, inclusa la realtà materiale. Il cammino dell’idealista porta allo stato dell’oltreuomo nietzschiano e si costruisce su tre pratiche. La “prova del fuoco” consiste nel negare ogni fede, nel violare ogni legge morale e nel disprezzare ogni sentimento d’umanità. Negando tutto questo, il soggetto dipende ancora da ciò: la “prova della sofferenza” ha l’obiettivo di distaccare l’Io dalla negazione, rendendolo simile a uno stoico o a un martire cristiano. L’Io non deve desiderare, né prendere con la violenza, perché questo è sintomo di dipendenza: per avere realmente una cosa bisogna volerla per se stessa, ovvero amarla, secondo la dottrina taoista dell’“agire senza agire”. La terza e ultima prova, quella “dell’amore”, consiste in tale sforzo. Raggiunto questo punto, l’Io titanico non riconosce più nulla al di sopra di sé.

 

Evola parte dal presupposto che l’Occidente stia vivendo un periodo di crisi sistemica, che coinvolge molti settori del sapere. Egli si chiede se questo stato di cose non sia determinato da una crisi dello spirito in generale, dal momento che ogni realtà è per lui una determinazione della propria coscienza e che l’Io comprende dentro di sé l’universo.

La volontà permette al pensiero di plasmare le cose. L’affermazione individuale corre su un piano continuo, scandito per gradi che vanno dal possibile al reale e dall’errore alla verità. L’individuo non deve cedere al mondo, né fuggire da esso come fanno i mistici: deve invece guardarlo in faccia e dominarlo. L’Io deve essere sufficiente a se stesso e respingere ogni moralità che possa condizionarne la volontà. Citando le Enneadi di Plotino per riferirsi all’Individuo assoluto, Evola afferma: «Egli è portato, per così dire, nell’interno di Sé stesso, come se amasse Sé stesso, il suo puro splendore, perché Egli è precisamente ciò che ama.»

In merito alla mortalità, che ci appare fuori dal nostro controllo, Evola sostiene che l’immortalità non sia per tutti e che appartenga a coloro che, con la loro potenza, hanno saputo costruirsela. L’Individuo deve diventare cosciente di quell’oscura entità che governa le sue funzioni organiche e le sue potenze affettive: facendolo, entra davvero in possesso del suo corpo: «L’immortalità vera – scrive Evola – non è fuga dal mortale, bensì trionfo su questo dentro di questo».

 

Al tempo della morte di Dio, la filosofia dell’idealismo magico sprona gli individui a prendere coscienza della fine dei riti e delle teologie razionali, rifiutando il ritorno alle vecchie forme di religiosità. È l’Io a dover creare Dio, divinizzandosi. In questo senso – sostiene Evola – l’idealismo magico concorda con la gnoseologia orientale, secondo cui conoscere significa essere la cosa conosciuta.

In Teoria dell’individuo assoluto, Evola attinge alla dottrina dei Tantra per trattare della liberazione dell’individuo, il quale deve risvegliare la Shakti, la potenza alla base di ogni energia vitale. L’Autore distingue tra azione secondo desiderio e azione incondizionata, optando per quest’ultima. L’azione incondizionata è mossa esclusivamente da una volontà assoluta, che si dichiara autosufficiente e, con la sua attività, persuade il mondo e lo domina.

 

La politica e la metafisica della razza


Gli scritti filosofici che indagano queste tematiche non ottennero il successo sperato, e Evola ricevette critiche dall’ambiente accademico, in particolare dalla frangia gentiliana legata al neoidealismo. La svolta più significativa arrivò nel 1928, con la pubblicazione di Imperialismo pagano, un libello neoghibellino, fortemente anticristiano, che apre a prospettive politiche di più ampio respiro.

Ancora una volta, sulla scia di Oswald Spengler, Evola ribadisce che la civiltà occidentale viva nel regno della materia, della macchina e del numero e che non vi sia più spazio per la libertà o per la luce. In politica e nella religione, gli slogan sentimentalistici hanno prevalso sulla calma illuminata dei sapienti. L’Autore si domanda se il fascismo possa rovesciare la situazione, ma teme che esso sia già sceso a troppi compromessi a causa della sua frangia borghese. Per Evola, il presupposto del cambiamento consiste in un rifiuto della cultura e della religione, nonché nell’antisemitismo.

 

L’anti-europa è anti-cristiana, poiché vi è bisogno di costruire una gerarchia intorno a un capo, mentre il Cristianesimo è fondato sull’odio per la gerarchia e sul livellamento egualitario. È necessario ripristinare la tradizione mediterranea, epica e magica, partendo dal binomio “romanità e paganità”.

Per prima cosa, Evola propone di abolire il sistema elettorale e rappresentativo: i capi devono essere nominati per investitura e non per approvazione delle folle. La gerarchia si deve fondare sulla superiorità effettiva e non sul clientelismo, in maniera analoga alle tradizionali caste orientali. Il capo del governo deve essere il re, ovvero un monarca o un dittatore che si imponga con la forza.

Evola chiede poi lo scioglimento della Compagnia di Gesù, ritenuta antifascista e più pericolosa della Massoneria, che anzi, prima di accogliere in sé l’elemento semita, presentava un pregevole simbolismo derivato dai Collegia Fabrorum e dalla Scuola Pitagorica.

L’Autore accetta l’uso della violenza solo in una fase preliminare di questa trasformazione, dopodiché l’impero dovrebbe agire tramite idee-forza, ovvero i miti. Nella gerarchia pagana proposta da Evola, infatti, i superiori non sfruttano gli inferiori, perché colui che opprime è in realtà inferiore e non può rappresentare un modello.

 

L’Autore prosegue con una critica della società moderna. L’aristocratico di oggi non è tale per affermazione, ma in quanto possessore di più denaro. La schiavitù non è mascherata e deriva dal controllo economico e dall’imposizione del lavoro come fine a se stesso o come merce di scambio per ottenere un guadagno ulteriore. Si rende quindi necessaria una rivolta contro il giogo economico-capitalistico, in nome di un ritorno all’ordine delle caste.

Evola lamenta la decadenza del valore dell'individualità: può sembrare un paradosso, ma egli sottolinea che gli individui di oggi non bastino a loro stessi e che dipendano dalla società, dalle leggi collettive e dal bisogno di dimostrare la propria esistenza attraverso l'ossessione per record, primati e visibilità.

L'Autore sintetizza così la svolta pagana: «Realismo, scienza, assoluta concretezza, cruda luce, in alto come in basso. Parole, sentimenti, letteratura, "psicologia" - via. Un nuovo classicismo. Epoca solare di un realismo attivo, di un realismo magico, di una assoluta compenetrazione di fisico e metafisico, di umano e non-umano.»

 

La pubblicazione di Imperialismo pagano gli procurò fama, ma anche le critiche di chi riteneva l’opera un plagio dell’omonimo libro di Reghini, uscito nel 1914. Proprio su suggerimento di quest’ultimo, Evola rivide in seguito alcune tesi del libro e elaborò una sua idea di tradizione, sulla scorta di René Guénon, di cui ho scritto nel dettaglio in un altro articolo.

Nel frattempo, Evola si batteva per un fascismo più radicale, ma le sue critiche non vennero accolte con favore. Il regime lo sorvegliava da anni per la presunta affiliazione all’Ordo Templi Orientis, riformato da Aleister Crowley a inizio secolo. Inoltre, circolavano voci sulla sua pederastia e sulla dipendenza dalla cocaina. Le pubblicazioni della rivista La Torre, sulla quale esprimeva le critiche più esplicite, vennero sospese e, per un periodo, Evola si dedicò all’alpinismo, considerato come pratica ascetica.

 

Negli anni Trenta, iniziò una collaborazione più stretta con il regime, occupandosi di tematiche razziali, al punto da ricevere uno stipendio mensile per la stesura degli articoli. Nel 1936, uscì Tre aspetti del problema ebraico, ovvero un’analisi nel mondo spirituale, culturale e economico-sociale. Evola contrappone la spiritualità ebraica a quella ariana: gli ariani esprimono l’ideale del regnante-sacerdote, in una simbologia solare e virile; l’ideale semitico, invece, è lunare, sentimentale e sacerdotale. Per l’Autore, quella ebraica è un’attitudine spirituale prima che razziale, per cui appartiene anche a popoli non immediatamente collegati al ceppo semitico. Nel mondo moderno, l’atteggiamento servile semita si troverebbe nell’evasione pseudo-spiritualistica, nel romanticismo sensualistico e in tutte le forme di internazionalismo, cristiano o bolscevico.

Evola sostiene che, fin dall’antichità, il nomadismo ebraico fu alla base della disgregazione nazionale. Egli individua nell’ebraismo una divinizzazione della ricchezza, trasmessa anche nel protestantesimo puritano, nel capitalismo massonico e nell’ideologia umanitaria e pacifista. Nel mondo moderno, ritiene che la degenerazione sia alimentata da intellettuali di origine ebraica, da Marx a Freud, da Bergson a Einstein. Citando I Protocolli dei Savi Anziani di Sion, ne riconosce la probabile falsità documentale, ma ritiene che il testo esprima comunque la reale volontà di potenza del popolo ebraico.

A conclusione, afferma che quello della razza sia essenzialmente un mito, poiché ormai la mescolanza razziale è tale da rendere vana una distinzione di tipo genetico.

 

Lungi dal rassegnarsi a questa prospettiva, nel 1937 Evola pubblicò Il mito del sangue, in cui riassunse le tesi razziste dal Settecento fino a Adolf Hitler, come a voler esaminare meglio la questione. Il punto di arrivo dei suoi studi sul tema è contenuto in Sintesi di dottrina della razza, uscito nel 1941.

Evola cerca di andare oltre il predominio del nazismo scientifico e positivista per adombrare l’esistenza di un razzismo di ordine spirituale. Secondo la dottrina proposta, il genere umano è differenziato nel sangue e occorre proteggere questa differenza. Il razzismo viene visto come un antidoto al mito democratico e a quello collettivistico; un’affermazione del primato della qualità sulla quantità. L’Autore respinge anche l’evoluzionismo, un mito che svalorizza le civiltà tradizionali in nome delle moderne civiltà sociali: al limite, accetta l’idea di un’involuzione generata dalle ibridazioni. Egli ritiene che sia necessario individuare gli elementi razziali superiori e isolarli per selezione, purificando le razze.

 

Evola riprende la distinzione tradizionale dell’essere umano in corpo, anima e spirito e la applica al razzismo. La razza intesa sul piano corporeo viene analizzata in termini naturali e biologici. La razza dell’anima considera invece le differenze corporee per svelarne il segreto, ovvero ciò che esse esprimono: assumono quindi importanza la fisiognomica e il comportamentismo sociale.

Su un grado spirituale, infine, Evola riprende gli scritti dell’antropologo Bachofen e afferma che la razza solare, o olimpico-solare, sia superiore e anteriore a tutte le altre e che corrisponda alla tradizione iperborea. La seconda razza dello spirito è quella lunare, o demetrica: qui il senso della centralità spirituale è andato perduto, ed è l’elemento sacerdotale e remissivo a prevalere su quello regale e volitivo. La terza razza è quella tellurica, o titanica, caratterizzata dall’aderenza alla vita nella sua istintività e irrazionalità: vi prevale l’elemento collettivo e la violenza selvaggia e incontrollata. La razza afroditica è caratterizzata invece dallo sfarzo e dal lusso, da una forte componente tellurica e dalla passività lunare. La razza degli eroi, infine, non possiede la qualità solare per natura, ma la interpreta come un compito da realizzare su base ereditaria.

Il rapporto tra queste razze porta a esiti differenti, ma, al di sotto di esse, si producono per involuzione le “razze di natura”: Evola considera gli ebrei come l’antirazza per eccellenza, un popolo talmente ibridato da aver perso ogni caratterizzazione.

 

L’Autore definisce poi il concetto di ario, che al suo tempo veniva attribuito a chiunque non fosse ebreo o di colore. Con rigore, il termine deriva da arya e si riferisce alla civiltà dei conquistatori preistorici dell’India e dell’Iran. In sanscrito, ar significherebbe superiore e da questa radice il sostantivo arya indicherebbe una nobile stirpe degna di onore.

Non basta tuttavia nascere ari, in quanto bisogna confermare tale qualità per mezzo dell’iniziazione, detta upanayana, o seconda nascita. L’antico ario perseguiva il devayana, la “via degli dèi” che conduce all’ascensione. Secondo Evola, in origine esisteva un’unica casta guerriera e sacerdotale, poiché si ignorava la distanza tra Creatore e creatura e dunque i sacerdoti non erano mediatori del divino, ma essi stessi divini.

Venendo al popolo italiano, egli sostiene che sia a maggioranza di origine nordico-aria, o, meglio, ario-romana. Vi sarebbero poi elementi della razza africo-mediterranea, che minò l’Impero romano, e della razza pelasgica, un’involuzione etnica di antichi ceppi ario-occidentali. A questo punto, Evola propone alcune linee guida per una rettificazione della donna e dell’uomo mediterranei, per un ritorno al puro italiano nordico-ario. Per l’uomo, vede un modello nell’antica razza di Roma, con uno stile severo, sobrio e consapevole della propria dignità. Per la donna, propone un abbandono degli schemi borghesi puritani e delle convenzioni sociali restrittive, per creare una personalità spontanea, sincera e libera, senza tuttavia sfociare nell’estremo della donna emancipata anglosassone.

 

Per Evola, con il fascismo l’Italia ha deciso di riqualificare la sua anima in senso nordico-ario. Affinché la purificazione funzioni, occorre evocare la tradizione interna della razza, attraverso la formulazione di un mito cristallizzato che generi un clima eroico e di alta tensione spirituale.

A distanza di tempo, negli anni Sessanta, Evola scrisse che la “razza” italiana agì negativamente sul fascismo, il quale non seppe fornire un numero sufficiente di uomini capaci di promuovere le potenzialità di quell’ideale. Aggiunge, però, che la destra tradizionale e il fascismo non siano la stessa cosa: mentre quest’ultimo si è rivelato come l’ennesima degenerazione del Kali Yuga, in quanto fenomeno di massa non elitario, Evola ribadisce i valori della destra tradizionale incentrati sulla gerarchia, sulla qualità e sull’aristocrazia.

 

Egli non aderì al Partito Nazionale Fascista e considerava superiore il nazismo tedesco, capace di risvegliare l’antico spirito ariano e germanico. In particolare, ammirava le SS, considerate come un ordine sacro di guerrieri, e ottenne il favore di Heinrich Himmler, che lo invitò a tenere conferenze nel Reich, pur tenuto sotto sorveglianza dall’Ahnenerbe per le sue idee reazionarie.

Nel 1945, Evola si trovava a Vienna sotto falso nome, per studiare documenti esoterici e massonici, forse su incarico del controspionaggio tedesco e – a suo dire – per compiere un lavoro per le SS. Si prospettava infatti la creazione di un ordine segreto elitario ispirato ai Templari. Tuttavia, nel corso di un bombardamento sovietico, Evola tentò la sorte camminando per la città e subì una lesione al midollo spinale, che lo paralizzò per sempre agli arti inferiori. La sua residenza venne distrutta, insieme al materiale raccolto per un libro che doveva intitolarsi in francese Storia segreta delle società segrete. Tornato a Roma tre anni dopo, a seguito di diversi ricoveri, lo Stato italiano gli concesse una pensione di invalido di guerra. A quel punto, Evola tornò a dedicarsi al tradizionalismo integrale, di cui ho scritto in un altro articolo.

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