Di attualità in attualità. Atti umani di Han Kang

 


Atti umani (2014, pr. ed. Adelphi 2017) è il romanzo che ho preferito di Han Kang, anche rispetto al seguito ideale, Non dico addio (2021, pr. ed. Adelphi, 2024).

In questo romanzo, la storia narrata è contemporanea e, per il lettore occidentale, è necessaria una breve descrizione del contesto. Nel 1979, il presidente sudcoreano Park Chung-hee venne assassinato e, poco dopo, iniziò la dittatura del generale Chun Doo-hwan, il quale, nella primavera del 1980, represse nel sangue la rivolta della popolazione di Gwangju, città a sud del Paese. I ribelli si asserragliarono in diversi edifici per una decina di giorni: erano uomini e donne, soprattutto professori e studenti, che chiedevano a gran voce riforme democratiche.

Il numero delle vittime del massacro è ancora incerto, ma le stime variano da mille a tremila morti. Diverse persone furono arrestate e trascorsero giorni o mesi nelle carceri, sottoposti a tortura. Il governo parlò di una rivolta comunista da sedare e Chun Doo-hwan mantenne il potere fino al 1988: le verità emersero soltanto con gli anni.

 

Quel 18 maggio del 1980, quando esplose l’insurrezione, Han Kang aveva nove anni. L’evento rimase impresso nella sua memoria come qualcosa di fatidico, persino proverbiale, e con Atti umani ha deciso di parlarne con estrema trasparenza, attraverso il racconto di vicende personali ispirate a testimonianze reali: ««[…]“Gwangju” era diventato un modo per definire tutto ciò che è stato irreparabilmente mutilato. Le sostanze radioattive continuano a propagarsi. Gwangju era rinata solo per essere nuovamente massacrata, in un ciclo infinito. Era stata rasa al suolo e riedificata in una sanguinosa rinascita.»

La scrittrice adotta la prima, la seconda e la terza persona singolare a seconda del capitolo, come è tipico del suo stile. Il tempo presente non è l’unico, ma è quello predominante. Troviamo le storie di due quindicenni coinvolti nelle violenze (senza davvero comprendere che cosa stia accadendo); la cruda esperienza di coloro che si presero cura dei corpi dei civili uccisi; la testimonianza di un uomo sottoposto a indicibili torture; il dolore interiore di una madre che non si rassegna alla perdita del figlio.

 

I capitoli sono come racconti a sé, che tuttavia, riuniti, costituiscono un coro di voci che esprime rabbia, sofferenza, immobilità e una flebile speranza.

L’Autrice è capace di rappresentare scene di crudo realismo, mescolandole a elementi soprannaturali e a descrizioni poetiche che nulla tolgono alla verosimiglianza. Nella prima metà del libro, troviamo quelle che definirei “poesie cadaveriche”. Kang ci parla di «diverse gradazioni di orrore»: quel cadavere in un angolo remoto, che un tempo era una ragazza poco più che ventenne, e che ora si sta decomponendo. Gonfiatosi, sembra ormai adulto: «Ogni volta che abbassi il drappo per qualcuno che è venuto a cercare una figlia o una sorella minore, rimani scioccato dalla velocità incredibile del processo di decomposizione. Dei tagli le corrono dalla fronte all’occhio sinistro, dallo zigomo alla mascella, dal seno sinistro all’ascella, squarci profondi attraversi cui si vede la nuda carne. Il lato destro del cranio è completamente sfondato, in apparenza da una randellata, e si vede il cervello. Queste ferite aperte sono state le prime a putrefarsi, seguite dai numerosi lividi che ricoprono il suo corpo malmenato. Le dita dei piedi, con le unghie ben curate, all’inizio erano intatte, senza nessuna lesione esterna, ma con il passare del tempo si sono ingrossate come spesse radici di zenzero e sono diventate nere. La gonna plissettata con motivo a goccioline, che prima le scendeva fin sulle gambe, adesso non le copre nemmeno le ginocchia gonfie.»

 

Chi narra non può non domandarsi se esista un’anima e che fine faccia dopo la morte. Un’esistenza spezzata tanto presto e in maniera così spregiudicata pretende che vi sia una speranza almeno nell’aldilà: «Per quanto tempo l’anima si trattiene accanto al corpo? Davvero vola via come un uccello? È questo che fa tremolare la fiamma della candela?» Sono domande ricorrenti, espresse quasi con nervosismo.

Il capitolo dedicato al fantasma di una delle vittime è quello che mi ha colpito di più e ruota intorno ai temi della vendetta, dell’amore per i defunti e della rassegnazione: «Non ero più Jeong-dae, il piccoletto della classe. Non ero Park Jeong-dae, unito a sua sorella da un profondo legame d’affetto e da rispettoso timore. Una strana violenza crebbe dentro di me, scatenato non dal fatto che ero morto, ma semplicemente dai pensieri che non la smettevano di tormentarmi, dalle cose che avevo bisogno di sapere. Chi mi aveva ammazzato? Chi aveva ammazzato mia sorella? E perché?» E poco più avanti: «Voglio vedere le loro facce, aleggiare sopra le loro palpebre addormentate come una fiamma tremolante, insinuarmi nei loro sogni, divampare ogni notte dietro le loro fronti, le loro palpebre. Fino a quando i loro incubi non saranno pieni dei miei occhi, i miei occhi mentre il sangue scorre lento fuori. Fino a quando non sentiranno la mia voce chiedere, pretendere di sapere: perché?»

 

Il fantasma si accorge però che la vendetta gli sfugge di mano e che ciò che desidera nel profondo è un significato, che tuttavia non c’è, poiché quel massacro è stato una follia, un atto umano sconsiderato. L’unico significato è allora la giustizia, di cui devono farsi carico i vivi, i sopravvissuti e i parenti delle vittime, come emerge dai capitoli successivi.

Un nodo fondamentale negli scritti di Han Kang riguarda la vista: troviamo personaggi che l’hanno persa o che la stanno perdendo (come ne L'ora di greco); personaggi che invece vorrebbero guardare, ma che non ne sono capaci; personaggi che si ostinano a voler vedere con i propri occhi, a voler registrare nella memoria ogni particolare. Quest’ultimo aspetto, in Atti umani, si traduce nella figura del testimone, diretto o indiretto: «Se solo la tua vista fosse peggiore, così anche le cose più vicine sarebbe solo una vaga, benevola macchia indistinta. Ma non c’è niente di vago in quello che devi guardare adesso. Non ti concedi il sollievo di chiudere gli occhi quando abbassi il drappo, e nemmeno dopo, quando lo tiri su di nuovo.» E sùbito dopo: «Ti giri verso l’anziano signore. Non gli chiedi se questa sia sua nipote. Aspetti, paziente, che sia lui a parlare quando sarà pronto. Non ci sarà alcun perdono

 

La linea è stata largamente superata e la violenza non è stata circoscritta al massacro. Le pagine dedicate alle torture sono numerose: «Come la “tortura della forcina”, in cui ti legavano le braccia dietro la schiena e ti infilavano un grosso pezzo di legno tra i polsi e le reni; oppure il finto annegamento, l’elettroshock, o quello noto come il metodo del “pollo arrosto”, che consisteva nel legare stretta la vittima con delle funi e appenderla al soffitto, per poi picchiarla mentre girava su se stessa. Se prima ci avevano torturati per estorcerci i particolari di crimini reali, adesso volevano solo una falsa confessione, così che i nostri nomi trovassero debitamente posto nel copione che avevano già scritto.»

Anche qui, i carcerati si chiedono “perché”, ma gli aguzzini, investiti del loro ruolo autoritario, non conoscono pietà e attuano una spersonalizzazione del prigioniero: «Vi faremo capire quanto eravate ridicoli, tutti voi che sventolavate la bandiera coreana e intonavate l’inno nazionale. Vi dimostreremo che non siete altro che corpi luridi e puzzolenti. Che non siete meglio delle carcasse di bestie fameliche.»

 

Il perdono diviene una chimera, non tanto verso i singoli sgherri, quanto verso coloro che, ai vertici, hanno calpestato l’idea di una giovane nazione sotto i talloni dell’autoritarismo. I sopravvissuti soffrono di PTSD e di un annichilimento dell’Io: «Tormentati dagli incubi e dall’insonnia, inebetiti da antidolorifici e sonniferi, ci ritrovammo non più giovani. Non c’era più nessuno che si preoccupasse per noi o versasse lacrime sulla nostra misera sorte. Perfino noi stessi ci disprezzavamo. La stanza degli interrogatori di quell’estate era scolpita nella nostra memoria muscolare, radicata a fondo nei nostri corpi. Insieme alla Monami nera. Al pallido luccichio dell’osso messo a nudo. Alla cadenza familiare e spezzata di suppliche disperate e lamentose.»

La vita non è più vissuta, ma scorre al fianco della vittima di torture o della madre che ha perso il figlio, in attesa che la morte si ricordi di venirli a prendere: «Aspetto che il tempo mi spazzi via come acqua fangosa. Aspetto che la morte arrivi e mi mondi, mi liberi dal ricordo di tutte quelle morti sordide che perseguitano i miei giorni e le mie notti. Combatto, da solo, ogni giorno. Combatto con l’inferno a cui sono sopravvissuto. Combatto con la mia stessa natura umana. Combatto con l’idea che la morte sia l’unico modo di sottrarmi a essa.»

 

Talvolta i testimoni non hanno più la forza di raccontare ciò che hanno visto o vissuto sulla propria pelle. Talvolta le violenze sono state talmente assurde e gratuite che persino testimoniarle diviene una tortura: «È possibile testimoniare che mi ficcarono ripetutamente nella vagina un righello di legno di trenta centimetri, spingendolo dentro fino alla parete posteriore dell’utero? Che mi lacerarono la cervice uterina con il calcio di un fucile? Che, quando l’emorragia non voleva arrestarsi e collassai, dovettero portarmi all’ospedale per una trasfusione? È possibile affrontare il fatto che dopo continuai a perdere sangue per due anni, che mi si formò un coagulo di sangue nelle tube di Falloppio e rimasi sterile? È possibile testimoniare che sviluppai un’avversione patologica al contatto fisico, soprattutto con gli uomini? […] Che ho deliberatamente distrutto ogni calore umano, ogni affetto troppo intenso per poterlo sopportare, e sono scappata? Verso un posto gelido, un posto più sicuro. Solamente per sopravvivere.»

 

Dopo mesi di incarcerazione, le autorità militari rilasciarono i detenuti in piccoli gruppi, compresi coloro che erano stati condannati con la pena di morte o con l’ergastolo. Fioccarono le amnistie, ma gli anni successivi non furono migliori. Il capitolo dedicato alla censura è l’emblema del burocratismo e dello statalismo che uccidono non solo l’arte, ma ogni tentativo di elaborare il lutto.

Il tabù del massacro ha permeato la società sudcoreana almeno per tutti gli anni Ottanta. Il manoscritto censurato con inchiostro nero finisce per diventare un «oggetto alieno» nelle mani di chi lo ha scritto e il «suo peso plumbeo è del tutto sproporzionato alla materia di cui è realmente fatto.»

Nel 1996, Chun Doo-hwan venne condannato per i crimini perpetrati a Gwangju, ma un anno dopo il presidente Kim Young-sam lo graziò. L’anno seguente, Kang racconta di una madre del tutto annichilita dalla riesumazione dei corpi e del trasferimento degli scheletri al nuovo cimitero nazionale “18 maggio”.

 

Da allora, la società sudcoreana si è democratizzata e la cultura ha avuto modo di elaborare il lutto dei singoli e della collettività, come testimonia questo libro. Oggi, nel 2024, è anche un monito di fronte alla fragilità di una democrazia ancora giovane, nella quale si muovono forze militari e politiche che preferirebbero un accentramento dei poteri.

Se è vero che «Non c’è modo di tornare al mondo precedente alla tortura. Nessuna strada per il mondo precedente al massacro.», l’arte ridiventa una forma rituale che tenta di lenire le ferite civili, come nella recita teatrale che, in uno dei capitoli, sfida la censura: «Oh, ritornate da me. / Oh, ritornate da me quando vi invoco per nome. / Non rimandate più. Ritornate da me ora.»

Il canto è al contempo un lamento e un grido di battaglia. Sì, perché coloro che rimasero asserragliati negli edifici, anziché fuggire, non erano vittime: «Erano rimasti proprio per evitare quel destino. Quando penso a quei dieci giorni nella vita di quella città, penso al momento in cui un uomo pestato quasi a morte trovò la forza di aprire gli occhi. Al momento in cui, sputando frammenti di denti e sangue, con le dita si tenne sollevate le palpebre pesanti per poter guardare dritto in faccia il suo aggressore. Al momento in cui parve rammentarsi di avere un volto e una voce e riacquistare la sua dignità, che sembrava il ricordo di una vita precedente. Spazzando via quel momento, restano solo il massacro, la tortura, la repressione violenta, che investono, schiacciano, travolgono nella loro ondata di brutalità. Ma ora, se solo riusciamo a tenere gli occhi aperti, se riusciamo tutti a mantenere gli sguardi fermi, fino all’amara fine...».

Quanto è attuale questo brano per l’odierna società sudcoreana e per molte altre parti del mondo?

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