La malinconia degli scritti di Han Kang

 


L’ora di greco (Adelphi, 2023) di Han Kang è un libro che mi ha portato fuori dalle mie consuete letture, come è giusto che sia.

Dell’Autrice apprezzo lo stile, quel tentativo di ridurre la molteplicità a poche parole. Noi occidentali, forse, diremmo “a frammenti”: ma i frammenti di Han Kang sono di grande valore e vivono di vita propria, come quell’unica parola che potrebbe racchiudere tutto il significato del mondo e che i due protagonisti ricercano, invano: «Quando il bambino che aveva messo al mondo sette anni prima e che non poteva più veder crescere aveva imparato a parlare, le capitava di sognare una parola che condensava tutte le lingue dell’umanità. Era un incubo così realistico da lasciarle la schiena fradicia di sudore. Un’unica parola carica di una densità e una gravità spaventose. Una parola che, se qualcuno l’avesse pronunciata, sarebbe esplosa all’istante, espandendosi come la materia al principio dell’universo.»

 

Da un lato, abbiamo una donna, che aveva lavorato in una casa editrice, poi in un’agenzia editoriale: si era dimessa per insegnare letteratura all’università e in un liceo artistico, nell’area metropolitana di Seoul. Aveva anche pubblicato tre raccolte di poesie e teneva una rubrica su un quindicinale di critica letteraria. Partecipava alle riunioni di programmazione per una rivista culturale, ma tutto ciò, un giorno, si interrompe per la comparsa di “quella cosa”, come viene definita nel testo in corsivo.

Il ritorno incontrollabile dei traumi: «I frammenti di ricordi si muovono generando immagini. Senza alcun contesto. Senza una coerenza complessiva o un senso. Si sparpagliano e poi in un attimo si raccolgono con un movimento secco. Come migliaia di farfalle che smettono all’unisono di battere le ali. Come algide danzatrici che nascondono il viso.»

 

La donna si chiude nel mutismo, consapevole che la perdita del linguaggio non sia «stata causata da alcun evento specifico». Come impulso interiore alla rinascita, si iscrive a un corso di greco antico, nella speranza che una lingua morta e molto distante da lei in termini grammaticali possa permetterle di riappropriarsi del linguaggio.

Il corso è tenuto da un professore che sta diventando cieco. Le sue riflessioni, per chiunque abbia problematiche alla vista (o un minimo di empatia), sono a tratti strazianti: «La gente pensa che, quando si perde la vista, la prima cosa che succede è che si diventi maggiormente sensibili ai suoni, ma non è vero: prima di qualsiasi altra cosa, si inizia a percepire di più lo scorrere del tempo.»

L’uomo, per esempio, torna con la mente a episodi della giovinezza, come il festival delle lanterne che da bambino lo stupiva, ma che da adulto, con la coscienza del repentino deperimento fisico, lo tocca nel profondo. Non ci viene detto in che modo, ma dovrebbe essere semplice comprendere le sue ragioni.

 

Non condivido, invece, quella costante rassegnazione che affiora dagli scritti di Han Kang, ma è pregevole il suo tentativo di dare valore a ogni più piccolo sommovimento dell’animo. Ne L’ora di greco, emerge soprattutto l’amore per il linguaggio, l’idea che nelle lingue antiche si fosse raggiunto l’apice delle capacità espressive e, infine, un’ingiustificata fiducia che quel linguaggio possa ancora esprimere un significato perduto.

I personaggi, in momenti diversi delle loro vite, esplorano il mondo non solo in termini geografici (il trasferimento in Germania), ma soprattutto attraverso la letteratura e la spiritualità, dai riferimenti alle pratiche buddhiste all’Avataṃsakasūtra e alle lezioni sul Buddhismo di Borges, per poi considerare la filosofia aristotelica e platonica in rapporto al presente.

Nel frattempo, gli anni trascorrono, i rimpianti si accumulano e troviamo sempre meno soluzioni: «Eppure, continuiamo ugualmente a interrogarci e darci delle risposte. Anche se i nostri occhi sono immersi nel silenzio, nella quiete minacciosa di quell’acqua livida che sale – e non cessa un istante di salire.»

 

I rimpianti si affollano nella mente: «Se fossimo davvero andati a vivere insieme, non avrei avuto bisogno della tua voce dopo aver perso la vista. Perché via via che il mondo visibile sarebbe arretrato come la bassa marea, il nostro silenzio sarebbe gradualmente divenuto perfetto.»

Le parole diventano sempre meno idonee a esprimere l’interiorità e si riducono a singoli termini, che hanno un valore solo per colui che le scrive o le pronuncia, in quanto le carica di un significato profondo: «Radioso. | Fiocamente illuminato. | In penombra. | Sono tre giorni che fisso il soffitto senza occhiali, registrando le sottili variazioni nell’intensità della luce, impossibili da rendere con queste poche parole.»

La scrittura di Han Kang pesa ogni singolo termine, come in una poesia. Frasi brevi, numerosi a capo, un ricco apparato di aggettivi, molte similitudini e metafore. Un incedere malinconico della sintassi, che accompagna il contenuto: una donna che non riesce più a vedere il figlio; un uomo che è costretto ad accettare l’imminente cecità. Due vite parallele, che trovano un modo di comunicare silenzioso, fatto di gesti, di comprensioni sottili, che tuttavia non sono mai sufficienti. Alla fine, anche la parola, da potenza creatrice, si dissolve: «Quando pronuncio infine la prima sillaba, chiudo forte gli occhi prima di riaprirli. Come se mi preparassi a scoprire, nell’istante in cui li riapro, che ogni cosa è svanita.» Il sipario e il silenzio sull’universo.

Commenti

Post popolari in questo blog

Qual è l'album più compiuto di Fabrizio De André?

Arnolfo di Cambio e il ritratto di Carlo I d'Angiò

La Gipsoteca di Possagno secondo Carlo Scarpa