Parliamo della Premio Nobel per la letteratura 2024: Han Kang
Avevate letto qualcosa della scrittrice
sudcoreana Han Kang prima che ottenesse il Premio Nobel?
Io l’ho scoperta con Convalescenza
(Adelphi, 2019), una raccolta di due racconti: quello che dà il titolo all’edizione
italiana e Il frutto della mia donna, rispettivamente del 2013 e del
1997.
Premetto che questo non è un articolo per
discutere dello spinoso tema dei premi letterari, nazionali e internazionali: specifico
soltanto che, per quanto mi riguarda, pur apprezzando alcuni elementi della
scrittura di Han Kang, non penso che meritasse il Nobel più di altri scrittori
viventi o scomparsi di recente (Cormac McCarthy, etc.). Qui mi limiterò a
raccontare i suoi libri, con ciò che mi hanno lasciato.
Convalescenza; Il frutto
della mia donna
Nel racconto Convalescenza, la
scrittrice impiega l’insolita seconda persona singolare: si rivolge alla
protagonista Jeong, ma l’artificio letterario tende a infondere al lettore una
maggiore empatia per il personaggio.
Jeon rimane scottata, ma sottovaluta l’ustione,
che si trasforma in una pericolosa infezione. La donna ha poco più di trent’anni,
vive in un monolocale e non ha un buon rapporto con i genitori. Si sente
giudicata da loro, come colei che non ha ancora avuto «una storia d’amore
decente». Jeon ha avuto anche un difficile rapporto con la sorella, costruito
sulle incomprensioni e, infine, sui silenzi imbarazzati. La voce che si rivolge
alla donna appare in certi casi come la sua coscienza: «ti sforzavi di non
voler bene a tua sorella». Di passaggio, annoto che la sorella non riusciva ad
avere figli, ma su questo tornerò più avanti. Ciò che conta è il lutto che Jeon
deve affrontare, tra negazioni e sensi di colpa.
Mentre la narrazione prosegue, l’ustione
peggiora. Jeon ripercorre la propria esistenza e la voce ribadisce una lunga
serie di «non sai che…», un modo per mostrare come i traumi e le esperienze
dolorose abbiano ripercussioni imprevedibili nel tempo e finiscano per
determinare le nostre sconfitte. Certo, la sofferenza trascorsa potrebbe
tramutarsi in capacità di resistere agli eventi avversi, ma Jeon è talmente
stanca e sopraffatta dalla vita, che non ha più forze per reagire. Intorno a
sé, trova scarsa empatia, per esempio nei medici e negli infermieri, che non
comprendono la sua trascuratezza fisica e, anzi, la giudicano per la sua ignoranza,
o perché si lamenta delle terapie.
Non è chiaro perché Jeon si rifiuti di
vivere e di aprirsi al prossimo; la prosa di Han Kang è evasiva, votata alla
descrizione del fatto compiuto e non alla sua spiegazione. La sensazione che ne
deriva è di smarrimento e di insensatezza, in un modo quasi disturbante. Per certi
versi, è uno stile analogo a quello di Peter Cameron, tutto giocato sul modello
dello show don’t tell, dell’evento incriminante che scivola insidioso in
una marea di altre azioni comuni.
Il secondo racconto della raccolta
Adelphi, Il frutto della mia donna, ha non pochi elementi in comune con Convalescenza.
Protagonista è ancora una donna, questa volta raccontata dal punto di vista del
marito, a parte per un singolo capitoletto, in cui è lei a raccontarsi.
La coppia è accomunata da un sentimento di
solitudine che li ha condotti al matrimonio, ma non alla reciproca
comprensione. Il marito è insoddisfatto del rapporto, soprattutto sul piano
sessuale, ma al contempo si rifiuta di considerare il divorzio. D’altra parte,
la moglie è raccontata come una donna che scruta l’orizzonte, pervasa da un
desiderio di fuga dalla grande città sovraffollata: «Sembrava che fosse in un
posto lontano, in qualche luogo segreto». Jeon viveva in un monolocale; la
coppia in un appartamento di settanta metri quadrati. Il sovraffollamento è qui
paragonato all’appassire di ogni stimolo vitale, ma la fuga sembra essere fuori
discussione, forse per ragioni sociali («non posso mica separarmi da te» dice
la donna al marito).
Come Jeon, la moglie non vuole curare il
suo corpo, sul quale compaiono strani lividi destinati a mutarsi in germogli. Intuiamo
il suo timore di un intervento da parte della madre, ma non conosciamo il loro
rapporto presente. Sappiamo che la moglie, da bambina, aveva vissuto in
campagna e che da adolescente era fuggita in città, vivendo prima una
sensazione di libertà e infine di solitudine o di incompiutezza.
Per noi occidentali, la metamorfosi in vegetale
ha una lunga tradizione letteraria che passa soprattutto per Ovidio, ma in
Oriente il tema è stato ampiamente affrontato da una scrittrice giapponese,
Ayase Maru, nel suo romanzo La foresta trabocca (Add, 2023). Nel
racconto di Han Kang, scopriamo che la donna non è mai stata felice, pur senza
traumi particolari; è un’anima tormentata, e così il lettore deve accettarla, ma
dalla descrizione del marito sappiamo che la trasformazione la rende più bella
che mai. Le metafore sullo sbocciare si sprecano, ma è un punto appena
accennato (per fortuna): la scrittrice torna invece sul tema della maternità irraggiungibile
(la coppia aveva cercato invano di avere figli) e su come esistano altri modi,
per una donna, di essere fertile.
Tra desiderio di evasione e rassegnazione
all’annichilimento, la donna-pianta lascia un’eredità incerta, simbolo di un
viaggio incompiuto che spesso ci caratterizza: «Da che cosa cercavo di
scappare, che cosa mi affliggeva al punto da farmi desiderare di fuggire all’altro
capo del mondo? E che cosa mi tratteneva, impastoiandomi, paralizzandomi? Quali
ceppi mi opprimevano, impedendo il salto che avrebbe rinnovato questo sangue
malato?». Il lettore non lo scoprirà; la protagonista nemmeno: ma non è forse
giusto porsi ugualmente tali domande?
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