Un remake che funziona. Terrore dallo spazio profondo

 


Nel classico del 1956, L’invasione degli ultracorpi diretto da Don Siegel, ispirato all’omonimo romanzo di Jack Finney, la critica aveva intravisto tanto una metafora anticomunista che antimaccartista, in linea con il clima politico americano degli anni Cinquanta.

Il pregio del remake del 1978, diretto da Philip Kaufman, è di trovare un punto di incontro tra queste due critiche, concentrandosi sul tema del conformismo. Tra gli interpreti, un Donald Sutherland in stato di grazia, il buon Leonard Nimoy (chiamato anche qui a un ruolo da raziocinante puro), un giovanissimo Jeff Goldblum e Brooke Adams, la quale – per quanto mi riguarda – avrebbe meritato una carriera con molte più interpretazioni.

 

Il film del 1978 è forse ancora più cupo della prima trasposizione. Ambientata in una San Francisco apparentemente normale, la pellicola esplora la sottile discesa della società in un incubo distopico. Uno degli aspetti più inquietanti è la lenta presa di coscienza dei protagonisti; la sensazione che qualcosa non sia come sembra, che la realtà familiare sia stata insidiosamente alterata. Elizabeth è la prima a provare paura per la perdita di identità, preludio al conformismo.

Gli ultracorpi sono raffigurati come un fiore mostruoso, proveniente da un altro pianeta, che mira a sostituire gli esseri umani con copie perfette ma prive di emozioni e di individualità. Affascinano a un primo sguardo, ma si rivelano mortali.

 

Gli ultracorpi promettono una falsa utopia, un mondo privo di conflitti ma anche di passioni umane: «Tornerete a nascere in un mondo imperturbato, libero dall’angoscia, dalla paura, dall’odio.»

Dietro la loro visione di un mondo migliore, si cela l’orrore della completa sottomissione e omologazione, una critica rivolta da un lato alle derive autoritarie e dall’altro alla cultura del controllo.

La tensione culmina nella famosa scena finale, che vi consiglio di guardare, in cui l’urlo disumano degli ultracorpi “insediati”, unito a quell’indice che giudica il diverso, è un monito rivolto allo spettatore.

 

Le atmosfere da film dell’orrore travolgono la dimensione fantascientifica della pellicola e illustrano un messaggio di fondo: la sopravvivenza a tutti i costi può significare la fine di ciò che ci rende veramente umani. «Ti prendono mentre stai dormendo!»: così la cultura omologata (che è anzi neutralizzazione della cultura) carpisce il soggetto quando è stanco e fragile, quando insomma riduce la soglia dell’attenzione e non ragiona più sul proprio operato.

Trovo che il romanzo di Jack Finney abbia ricevuto tanti adattamenti cinematografici grazie all’universalità della sua storia. Oggi, una rilettura del tema potrebbe coinvolgere i replicanti, con esseri umani che a poco a poco si rendono conto di essere stati sostituiti da intelligenze artificiali, il cui scopo non è tanto la sopravvivenza, quanto la totale ottimizzazione logica della vita.

Commenti

Post popolari in questo blog

Qual è l'album più compiuto di Fabrizio De André?

Arnolfo di Cambio e il ritratto di Carlo I d'Angiò

La Gipsoteca di Possagno secondo Carlo Scarpa