L'incubo del grande Nord in Gérard Prévot

 


Gérard Prévot riveste un ruolo peculiare nella cosiddetta “triade del fantastico belga”, in cui compaiono anche i nomi di Jean Ray e di Thomas Owen. Nato nel 1921, si avvicinò al genere soltanto negli anni Settanta, avendo maturato, nel frattempo, una ricca cultura letteraria (Poe, etc.), musicale (Bach, Mozart, Schubert e molti altri) e artistica (Modignani, etc.), che torna spesso nei suoi racconti.

Lo scrittore e editore Jean Baptiste Baronian, nume tutelare della casa editrice Marabout, notò sùbito lo stile elegante, la proprietà di linguaggio e «quella sua visione post-romantica». Per Prévot, il fantastico non è un espediente per parlare d’altro o, al contrario, per fuggire dalla realtà: è anzi la continuazione della realtà stessa su un piano più sottile, mai del tutto separato da quello spazio-tempo che siamo abituati a vivere.

Nei suoi racconti, come ho già analizzato per la raccolta Il demone di febbraio, il fantastico si pone spesso in continuità con la scienza e con la logica; l’Autore mantiene un delicato equilibrio tra due istanze che, in genere, tendono a escludersi a vicenda. Non di rado, i suoi racconti sfociano nella fantascienza: anche qui, con uno stile personale, che mette al centro le emozioni dei personaggi prima ancora delle spiegazioni logico-scientifiche.

 

Sullo sfondo, poi, troviamo un personaggio impersonale che sovente si appropria delle storie: è l’ambientazione, riassumibile nel simbolo del Nord.

Come ricorda il Dizionario… di Corinne Morel: «Il Nord è una terra fredda, tenebrosa, molto spesso riparo dei demoni e degli spiriti maligni.» Al contempo, in altre tradizioni, è la sede di Thule, il luogo luminoso a cui tornava il dio Apollo. Mentre Jean Ray sembra preferire una commistione tra queste tradizioni (per esempio, nel suo romanzo Malpertuis), Prévot segue la prima, quella che, in termini estetici, sfocia nelle fredde spiagge deserte, nel grigiore di un pallido mattino, nel vento costante che prosciuga le forze delle creature che abitano quelle terre. È un paesaggio meta-onirico, sospeso tra diverse dimensioni, che introduce i personaggi e i lettori in un labirinto in cui trovano spazio i sogni, le pulsioni, l’inconscio e il soprannaturale non congiunto all’interpretazione psicologica.

Città come Bruges e Ostenda diventano luoghi della mente, o persino stati d’animo. Per ottenere una vivida immagine di questi paesaggi, bisogna andare ai quadri dei norvegesi Peder Balke e Edvard Munch, mentre per i personaggi valgono i ritratti di Joseph Kutter e di James Ensor e per gli interni, infine, i grigi e sommessi dipinti di Vilhelm Hammershøi.

 

Il racconto La notte del Nord apre l’omonima raccolta, riedita da Alcatraz nel 2020, con questa frase: «Con molto buonsenso, prudenza e intelligenza è possibile evitare il ripetersi di una disgrazia, ma non si scappa da una maledizione.»

La storia presenta continui passaggi da una dimensione realistica a una allucinata, fino al punto di non ritorno. La protagonista è Laurence Di Malta, una donna di origini mediterranee catapultata nei vicoli insidiosi di Bruges. Qui, in una taverna, conosce il pittore Herman Kuttner e tra i due nasce una strana relazione: Laurence cerca l’uomo notte dopo notte, ma le strade sembrano mentire e la nebbia, che arriva dal mare, preannuncia un cambiamento radicale. La donna incontra una figura che ha le sembianze di Kuttner, ma che al contempo non è lui; anche Laurence subisce una graduale spersonalizzazione fino a vedere in se stessa un’altra: «Un rimasuglio di coscienza le impediva di avanzare, ma sarebbe potuta ritornare? E tornare dove? E dove si trovava? E chi era lei stessa, in fin dei conti?».

La soglia è stata superata e Laurence comprende di non potersi più accontentare di sopravvivere e che «avrebbe dovuto affrontare l’ignoto per avere ancora una possibilità di raggiungere l’ombra di Herman [Kuttner] e che non le restava che il perdersi a sua volta nella notte.»

Come tanti personaggi di Prévot, la donna è scettica rispetto al mondo soprannaturale; afferma di non credere alla magia e si sforza di riportare le cose per quello che sono: «mi è successo», dice rivolgendosi al personaggio di Luigi d’Anzio; anche il soprannaturale diviene un fatto indiscutibile per chi ne ha fatto diretta esperienza. Luigi cerca di razionalizzare i deliri di Laurence, ma la donna non si fa convincere. Torna nei vicoli di Bruges e, finalmente, un ingresso si apre a lei e avviene una resa dei conti.

 

Nella raccolta, segue il racconto Gli sparti, quasi un romanzo breve per la sua lunghezza. L’ambientazione ruota intorno alla città di Ostenda e al mare del Nord; lo stile riprende elementi del noir, del romanzo epistolare e della fantascienza apocalittica.

Al centro della vicenda, una griglia, ovvero «un alfabeto segreto trasmissibile tramite delle barre». Ciascuna barra richiede un mese di lavoro e su di esse vengono posti amminoacidi e molecole che – si scoprirà – hanno una fondamentale caratteristica. Mentre il protagonista è intento a costruire questa misteriosa griglia, la cui funzione rimane oscura fino a tre quarti della storia, egli narra alcuni particolari amorosi della sua vita, che coinvolgono anche una bambina, Dolly, in alcuni passaggi velati da una sottile carica erotica.

Il racconto è anche un modo per Prévot di reintrodurre temi a lui cari. Attivo nella resistenza al nazismo, l’Autore, che già aveva parlato della triste eredità del conflitto in racconti come Un giardino sull’isola di Arran, ritorna al tema della deportazione e dello sterminio degli ebrei: «[Percy Brumer] Li rivide ammassati – già ammassati, già condannati a morte – durante il rastrellamento del Velodromo d’inverno, stracolmo e diviso in tre: a sinistra il bestiame, i maledetti, gli ebrei, destinati a divenire folte capigliature e saponi; a destra la soldataglia imbecille e funebre, commessi hitleriani della morte; al centro, tra i due schieramenti, la polizia parigina, i Ponzio Pilato del primo mattino.»

Questo passaggio è emblematico, perché racconta dell’amarezza esistenziale di Prévot, che altrove scriveva: «Il mondo è un brutto posto, pieno di coiti e di sangue.» (in Corrispondenza) e «Il mondo è vuoto.» (in Strana eclisse, echeggiando Novalis). Ne Gli sparti, rincara la dose: «Il mondo è fatto in modo tale che l’innocenza debba perire.»; e, infine, il discorso si estende a livello cosmico: «[…] noi siamo tutti – uomini, marziani, gioviani e gli altri – sottomessi a forze selvagge che, manifestandosi improvvisamente, possono in qualsiasi momento gettare su di noi le loro grinfie enormi e annientarci.»

 

Veniamo così al terzo e ultimo racconto della raccolta La notte del Nord, intitolato Lo spettro meccanico.

Il protagonista è Frédéric de Marck, il cui zio, il conte Godefroid, aveva costruito un sinistro automa, dalle proprietà a un tempo meccaniche e soprannaturali: «Era un fantasma che si sarebbe potuto credere nato da un raggio di luna, tanto la sua immagine era trasparente […]», ma in parallelo è alimentato a batterie.

Il fantasma compie furti e omicidi: «grazie al suo essere fatto di nulla», attraversa le porte e uccide con un solo colpo del suo braccio scheletrico. Prévot ci lascia nel dubbio e nella contraddizione al pensiero di quelle parti solide, tra cui le batterie e il lenzuolo, che acquisiscono il potere dell’incorporeità, perché il suo interesse è rivolto altrove. In apertura, ci dice che il fantasma era solito pensare nel cuore della notte, al punto di sviluppare una sorta di coscienza, che lo fa rabbrividire all’idea di morire: «Smettere coi furti e con gli omicidi, posso anche sopportarlo, ma smettere di esistere è l’orrore puro.» E, riflettendoci, è normale che la pensi così: non essendo umano e non potendogli chiedere di esserlo, per il fantasma il concetto di umanità viene dopo (o non viene mai) rispetto al desiderio di sopravvivere in eterno. Siamo ben oltre le leggi della robotica.

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