Parole, memoria, divergenza nel Fahrenheit 451 di François Truffaut
«L’unico modo per sentirci felici è essere
tutti uguali.»
È il concetto espresso dal capitano dei
vigili del fuoco, rivolgendosi al protagonista Montag. Bisogna diventare tutti
ignoranti, ripudiare la lettura, perché essa fa sentire il lettore superiore
agli altri e ciò crea disarmonia nella società.
È necessario che i libri si consumino tra
le fiamme, sostiene il capitano con in mano una copia del famigerato volume
scritto dall’imbianchino austriaco (curiosa ironia della sorte per l’opera di
uno dei più famosi distruttori di libri della storia!).
Nella società ideata da Bradbury (citato nel film con le sue Cronache
marziane), e qui interpretata da uno dei maestri nella nouvelle vague, sono
le parole a spaventare nel loro complesso. In particolare, le parole che
conducono alle lacrime, anche se per la commozione di fronte a qualcosa di
terribile e sublime.
Le parole risvegliano emozioni che scuotono da dentro: le amiche della moglie
di Montag non vogliono ascoltare la lettura dell’uomo; preferiscono la routine,
accettano la menzogna raccontata dagli schermi in mano al governo, si rifugiano
nella chimica pur di non guardarsi allo specchio.
La fuga di Montag e l’incontro con gli uomini-libro non è una vittoria, né una
liberazione, come potrebbe apparire a uno sguardo superficiale. Dover imparare
un libro a memoria, affinché non se ne perda il ricordo, è un notevole
fardello, che obbliga a una vita emarginata in nome di un ideale.
Nel film non c’è un lieto fine: la passeggiata conclusiva, sulle note di
Bernard Hermann, è più una marcia della speranza, una forma di satyāgraha,
un’ostinazione in nome della verità.
Il capovolgimento è curioso: non è più la parola scritta a preservare il sapere nei secoli, ma quella orale, tramandata come in forma rituale. È di nuovo resa sacra, ovvero impregnata di un significato.
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