Vita e destino di Alexander Sand

 


Genova è diventata Genuaua, l’uggiolio lamentoso di una città abitata da ombre di persone, i genuesis. Si combattono in una lotta fratricida, si impongono gli uni sugli altri, in una dissoluzione anonima e basata sulla forza o sull’inerzia.

Il protagonista de Le fortune di Alexander Sand (Zona42, 2023) si racconta in prima persona. Ci riferisce sùbito che la sua storia non è una storia, ma, proseguendo la lettura, mi è rimasto il dubbio che egli, in fondo, rimpianga di non poterne avere una, a dispetto di una certa ritrosia.

Nelle prime pagine, si delinea una fragile trama, tra elementi noir e distopici. Sandro è (o vorrebbe essere) un investigatore che ha lavorato per il “mafioso” Giuseppe Bonaparte, emblema del potere corrotto e prevaricatore. Si trova incastrato in una situazione scomoda, con la morte della figlia di Bonaparte, e cerca di sopravvivere con la speranza – l’ultima – di poter raggiungere la madre Luisa in Argentina.

 

Sandro è inseguito da uomini che cercano di ucciderlo, o finisce in altre circostanze che lo mettono in pericolo. Talvolta sembra sia la città stessa a volerne la morte. D’altra parte, lo scenario urbano è catastrofico, decisamente non a misura d’uomo, e, fuori da quel residuo di civiltà, ci sono i “mostri”: «Entroterra pieno di scheletri di cemento e inceneritori e macchine e serre e macelli che i berci puoi sentirli a distanza. Certe bestie scappano e nascono deformi animali selvatici che vengono braccati dagli addetti del comune che lavorano notte e giorno per non farli scendere nella città vecchia.»

Le macchine vanno a fuoco, la luce solare è una rarità e piove sempre. L’acqua del mare è contaminata, ma qualcuno si ostina a tuffarsi ugualmente, come a voler fingere che la vita possa proseguire. Le case, un tempo colorate, sono ormai grigie e scrostate. Il deperimento ambientale è però una conseguenza di una consunzione umana, sociale.

 

Nemmeno Sandro ne è esente. Anni prima, aveva accettato di sottoporsi a una sperimentazione medica; aveva così ottenuto i suoi “poteri”: un lento invecchiamento e una guarigione veloce, conditi con incubi e insonnia. Eppure, le sue fortune sono altre: la fortuna nelle risse, per esempio; la fortuna di trovarsi sempre a un passo dal disastro, senza finirne vittima: «Mentre mi godevo il momento è avvenuto l’orribile. È venuto giù. Il ponte monumentale sopra via XX Settembre. L’abbiamo visto farsi a pezzi e sbattere schiacciare genuesis. Le mie fortune. Le nostre. Qualche minuto e ci saremmo passati sotto. […] È successo che tutti assieme ignorando da che parte fossimo del conflitto abbiamo lavorato per soccorrere. A unire le parti è venuta la morte. La catastrofe comune.»

Tra non troppo velati riferimenti al G8 di Genova e alla caduta del ponte Morandi, non è più il bene comune a unire le persone. Prevale, invece, la visione del padre di Sandro, che un tempo gli ripeteva la sua verità universale: «Agli umani per colpa degli umani toccano solo sventure.», una rilettura di Hobbes in chiave post-apocalittica.

 

Sandro è l’antieroe per eccellenza, colui che subisce una serie di eventi del tutto fuori dalla sua portata. E, forse, la sua bravura consiste in questo: sopravvivere in un gioco di cui non si conoscono le regole e che ci costringe a improvvisare a ogni mossa.

Lo stile di Francesco Cane Barca, qui al suo primo romanzo, riflette questa frammentarietà: i periodi sono brevissimi, le subordinate quasi del tutto abolite. A volte è una singola parola a reggere la pagina. La punteggiatura è smantellata e il ritmo è scandito dalla distribuzione delle sillabe e degli accenti: le parole come suoni, liberate dall’artificiosità del segno, alla ricerca di un’autenticità che non risulti troppo schematica.

 

Sandro è stanco e con lui un’intera civiltà: «Ho bevuto troppo. La giornata mi ha ingoiato. Domani. Alla fine va tutto a domani.» Alcool e sesso invitano da un lato all’oblio, dall’altro al debole desiderio di riaffermarsi. I desideri rimangono tuttavia al livello di idee, perché ogni azione appare vana o insignificante: «Non ho stupore. Non provo nulla in particolare. Voglio solo che le cose siano come le vorrei. Non lo sono. Il mio è un desiderio infantile pigro e infruttuoso. Ci bevo altri sorsi.»

La frenesia descrittiva si scontra con una realtà in cui le ore sembrano sempre uguali a se stesse. Eppure, incontrollato, qualcosa di più grande si muove intorno a Sandro e ai genuesis. Una macchina oliata pronta a restituire efficienza alla città: «Le abitazioni antiche crollano e faranno spazio a un nuovo mondo che ancora non ho capito come l’hanno in mente. Freddo. Sarà fatto di freddezza. Vuoto.»

 

La vera fortuna del protagonista è di essere conscio dei propri limiti: «Non saprei cartografare il futuro con parole nuove. Potrei solo immaginare il presente degenerato. Spero possa bastare per farci sopravvivere.»

In fondo, Sandro non può fare a meno di ricercare una personale narrazione di vita che sia coerente. Egli riconosce l’insensatezza presente di una tale pretesa, ma vi è chi prosegue sui binari di questa narrazione, in una suddivisione manichea tra bene e male, tra buoni e cattivi. L’unica salvezza è tirarsi fuori dai giochi; respingere la contesa insensata e partire per un nuovo mondo, un luogo in cui coloro che furono oppressi conoscano ancora la gioia e il significato di vivere liberi: «È una storia come tante. La storia di tutti i giorni. Solo questo. Nemmeno la peggiore. È la solita trama. E il mio ruolo ancora non l’ho capito. Se ne avrò l’occasione accecherò il Bonaparte. Santiago morirà. Vogliono essere loro i cattivi. Bene. Gli parlerò nella loro lingua. Violenza. Se non scivolerò. Se avrò le mie fortune. Domani. Fra qualche giorno ci sarà un altro Bonaparte. Ma io sarò già partito.»

 

E sì, il titolo dell’analisi è un “gioco nel gioco” con il titolo del libro.

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