Una regalità da conquistare. Il cacciatore di draghi di Tolkien
Terminata la fase preparatoria
della trilogia de Il signore degli anelli, Tolkien si concesse
un’interruzione distensiva prima dell’inizio della stesura vera e propria. Vide
così la luce Giles il Fattore di Ham, uscito nel 1949 in Inghilterra e
tradotto nel nostro Paese soltanto nel 1975, nell’edizione Einaudi intitolata Il cacciatore di draghi.
La storia è ambientata nel Piccolo
Regno, un territorio che Tolkien si sforza di definire in maniera storica e
realistica. Di questo regno sono sopravvissuti pochi frammenti, ma il narratore
ci racconta di aver scoperto un manoscritto, «forse più una leggenda che un
resoconto vero e proprio», poiché è «colma di cose stupefacenti» desunte anche
da racconti popolari e non «da sobri annali». In termini spaziali, siamo nella
valle del Tamigi, con un allargamento a nord-ovest fino alla muraglia del
Galles.
Gli avvenimenti narrati sono molto
lontani dal tempo del compilatore, ma sembra tuttavia che egli abbia vissuto
nel Piccolo Regno. In termini cronologici, Tolkien è vago, ma cerca ugualmente
di collocare gli eventi in chiave storica: dopo i giorni di Re Coel – scrive –
ma prima di Artù e dei Sette Regni degli Inglesi. Viene così definito un quadro
non da fiaba, ma da pseudo-romanzo storico.
Ci viene riferito che ai tempi di
questo racconto accadevano molti eventi memorabili (e di frequente), eppure il
villaggio di Ham sembra escluso dalla “grande narrazione”. È un gigante a
riportarlo all’attenzione, e si è soliti vedere qui l’interesse di Tolkien per
le aree rurali, contrapposte alle metropoli con i loro importanti affari. Il
gigante decide di esplorare nuove terre, finendo per divorare gli animali e
creando trambusto. Il pigro fattore Giles viene trascinato all’azione
controvoglia e, con un po’ di fortuna, ha la meglio sul gigante.
Tolkien si diverte in questa
narrazione, fino a introdurre – con una sottile ironia nei confronti dei dotti
accademici – una definizione della civiltà quale capacità di produrre armi più
sofisticate: «Un trombone è un fucile corto di grosso calibro che spara molti
pallettoni o pallini, e capace di arrecare morte in un raggio limitato senza
mira particolarmente precisa. (Oggi in paesi civilizzati superato da altre armi
da fuoco).» Tale è l’utilità dei quattro savi di Oxenford, che hanno redatto la
voce lessicale.
Tutto ciò costituisce un preambolo
ad azioni molto più eroiche da parte di Giles. Come ringraziamento per il
servizio reso, il re gli dona una spada tra le tante sepolte nell’armeria. Un
gesto fatto con magnanima leggerezza, ma che in realtà si rivela essere un
grave errore. Giles, infatti, entra in possesso di Caudimordax, meglio nota
come Mordicoda: il re, i cavalieri e gli armigeri non rammentano, ma il popolo
sì: «Tutti conoscevano la fama di Mordicoda, perché quella spada era
appartenuta a Bellomarius, il più grande di tutti gli squartatori di draghi del
regno. Alcune tradizioni lo facevano il bisnonno materno del Re. I canti e le
storie delle sue gesta erano stati molti e, se dimenticati a Corte, erano
tuttora ricordati nei villaggi.»
In altre parole, il re si libera
con incoscienza del proprio retaggio, del fondamento energetico del suo potere,
e ne pagherà le conseguenze.
Giles, la cui fama stava crescendo
più per un caso fortuito che per le sue abilità, capita in una situazione più
grande di lui (vi ricorda qualcosa?): nel regno arriva il temibile Chrysophylax
Dives, il cui nome omen significa “ricco custode di tesori”. Esso era
«d’antico lignaggio imperiale e molto ricco. Era astuto, curioso, bramoso, ben
corazzato, ma non eccessivamente coraggioso. Comunque, non aveva per nulla
paura delle mosche o degli insetti di qualsiasi specie o grossezza; in più
aveva una fame da morire.»
Il drago, infatti, era giunto in
quelle terre su consiglio del gigante, il quale era sì stato cacciato, ma dalla
prospettiva degli esseri umani. Al contrario, la creatura aveva pensato di
essere stato colpito non da un trombone, ma dalla puntura di un insetto,
ritenendo quelle terre malariche, ma non certo pericolose a causa degli umani.
Così Giles affronta con timore il
drago ma, ancora una volta, la fortuna è dalla sua. Ha la meglio sulla creatura
e la convince a cedergli tutte le sue fortune. Ma Giles e i compaesani di Ham
sono degli sprovveduti e, con la promessa di tornare con il tesoro,
Chrysophylax svanisce nel nulla.
Questa volta è il re a
intervenire, non fosse altro che per rimpinguare le languenti casse reali, e
indìce una spedizione. I cavalieri del re guardano con sospetto a Giles, quel fattore che ha come cavalcatura una giumenta grigia e come armatura un giustacuore
di cuoio raffazzonato, e lo spediscono in prima linea a fare da esca. Questi
cavalieri, al pari del loro re, esprimono un valore nominale, condito da titoli
altisonanti e bizantine norme da seguire, ma alla prova dei fatti sono
inefficaci e vanesi: «I cavalieri stavano discutendo su questioni di precedenza
e di etichetta e non facevano attenzione, altrimenti avrebbero notato che
adesso le impronte di drago erano ben marcate e fitte.»
Arriva la resa dei conti e i
cavalieri non fanno una bella fine. Giles sopravvive e, conscio delle sue nuove
abilità, affronta il drago fino a spingersi alla sua caverna, laddove la
creatura serbava la sua maggiore forza. Sottomesso l’avversario, Tolkien non
abbandona l’ironia e trasforma la vittoria in una disputa finanziaria: «E
andarono avanti così per un po’, mercanteggiando e disputando come contadini
alla fiera. Tuttavia finì come c’era da aspettarselo; perché si dica pur quel
che si vuole, pochi riuscirono mai a battere Giles l’Agricoltore nel tirare sul
prezzo.»
Chrysophylax, avendo compreso il
valore di Giles, non rinuncia a un ulteriore patto, che ha il suono di una
tentazione: il drago accetta di trasportare il tesoro alla dimora del fattore, escludendo il re, e gli promette di contribuire alla sua difesa. Giles
torna a casa ricoperto di grandi onori e il re non può che osservare inerme la
sua ascesa. La corte del Vecchio Giles del Serpente – così viene soprannominato
negli anni a venire – è meritocratica e il Piccolo Regno prospera a dispetto di
un re che aveva “svenduto” la propria eredità. Anche il drago timoroso, pur
forte del suo antico lignaggio, ha la meglio soltanto contro dei cavalieri
mediocri e fanfaroni, ma non può nulla di fronte al valore dell’umile Giles.
Questi rappresenta il nuovo eroe, che si dimostra tale per forza e per astuzia,
e non per mere ragioni ereditarie.
Il libro di Tolkien è scritto in
maniera simile a una fiaba, pur prendendone le distanze. Presenta una sottile critica
alla cultura accademica e alla pomposità dei titoli; è un piccolo tributo
all’epica tragicomica e una parodia dei racconti sull’uccisione dei draghi; è
un momento di svago nella sua produzione e può quindi risultare distante dallo
stile di altre sue opere.
Un altro elemento che vale la pena sottolineare è l’attenzione riservata alle diverse prospettive dei personaggi: Tolkien non ci descrive soltanto le azioni e i pensieri di Giles, ma ci mette di fronte alla prospettiva capovolta del gigante, del cane Garm maltrattato da Giles (ma sempre fedele) e della giumenta costretta a camminare su sentieri impervi. Oggi, con ironia, potremmo ripetere una certa frase – “Anche gli orchi hanno i loro diritti!” – ma qui non si tratta di giustificare i comportamenti altrui, quanto di mostrare come i nostri gesti dipendano da idee condizionate da una visione del mondo non sempre condivisibile dalle altre creature. Insomma, non proprio poco per un libricino minore della produzione tolkieniana.
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