Lovecraftiano. Un aggettivo irritante per scrittori e lettori pigri
Negli ultimi mesi, sono stato invitato a
partecipare alla giuria di un festival italiano dedicato al weird e mi sono
occupato della sezione riservata ai libri pubblicati con case editrici. La
lettura dei vari testi ha suscitato in me alcune considerazioni, ma ce n’è una
in particolare che mi preme raccontare qui.
Sono esasperato (ma non sorpreso)
dall’eccessivo citazionismo – esplicito o implicito, cosciente o involontario –
che ormai invade generi quali l’horror e la fantascienza. Non ha più niente a
che vedere con una poetica postmoderna, né con una scelta consapevole in
termini stilistici. In questo citazionismo non vi è più alcuna corrente, ma una
reiterazione quasi stanca di certi topoi, che peraltro non aggiungono molto
alle trame e, anzi, tendono a confonderle.
Mi chiedo se questa tendenza non sia
inevitabile nella nostra epoca, composta da multimedialità e
interdisciplinarità, ma anche da una memoria storica sempre più fitta, pure nel
contesto letterario. Non ho tuttavia una risposta al tema e non vuole essere il
punto del discorso.
La lettura dei romanzi candidati ha
confermato una propensione che già avevo intravisto: la ripresa di tematiche e
contenuti lovecraftiani per abbellire la trama o per allargare ulteriormente
l’universo narrativo del Solitario di Providence. In casi del genere, stiamo
parlando di fanfiction o poco più, testi pedissequamente vincolati alla
matrice, in cui il worldbuilding viene sacrificato a un immaginario
preesistente e che non richiede ulteriori sforzi agli autori.
Lovecraft è ormai onnipresente: ho la
sensazione che il termine “lovecraftiano” stia superando il più longevo
“orwelliano” e il generalissimo “kafkiano”. Ogni volta che lo sento pronunciare
o scrivere mi viene l’orticaria. A voi no?
Il tutto è diventato a dir poco
stucchevole. Propongo un esempio. Che cosa accade quando il linguaggio
lovecraftiano viene trapiantato in contesti moderni senza adattamento?
Quando Lovecraft parla di “empi flauti” lo
fa perché i suoi personaggi sono legati a un’epoca e a un immaginario antico,
parte integrante del suo stile di scrittura, che è volutamente desueto e
artificioso, attingendo a modelli settecenteschi o anteriori. Tuttavia, se lo
fa un personaggio del “nostro” mondo, decenni dopo, risulta inverosimile quando
viene a mancare il giusto contesto.
Perché scrivere proprio “empi” flauti?
Presuppone una conoscenza pregressa del personaggio, che in realtà non c’è,
oppure che sia il narratore o – peggio – il lettore a cogliere il riferimento.
A prescindere, per così dire, e non perché messo nelle condizioni di poterlo
cogliere.
Mi chiedo: è sufficiente sciorinare
citazioni agli scritti di Lovecraft affinché l’opera funzioni? Spero che il
lettore medio non si accontenti davvero di questo.
Lovecraft è solo la punta di un iceberg.
Il fenomeno è diffuso: pensate soltanto a quante volte venga citato il
famigerato corvo di Poe, oppure il gatto nero, come se lo scrittore di Boston
non avesse scritto altre poesie o racconti. E lo dico da persona che, nella sua
produzione poetica, è particolarmente affezionato a The Lake (To), tanto
da averla persino musicata con la chitarra ai tempi delle superiori, oltre
dieci anni fa.
Di sentir parlare di corvi, gatti neri,
pendoli e della famiglia Usher sono veramente stufo. Rileggo più volentieri gli
originali, che continuano a parlarmi con accenti nuovi nel corso degli anni.
Il citazionismo è oggi più un espediente
che una forma d’arte e si è persa la bussola tra citazioni funzionali (che
arricchiscono il contesto narrativo) e citazioni gratuite (che appesantiscono
la trama).
C’è una sottile distinzione tra omaggio e
dipendenza narrativa (sintomo di una mancanza di originalità), ma è una
differenza che esiste. Non mancano autori capaci di espandere creativamente il
mito lovecraftiano, come ci dimostra il volumone intitolato I miti di Cthulhu (Mondadori, 2022), ma esiste soprattutto una massa di autori che
ripropone le creature di Lovecraft senza alcuna elaborazione.
Il citazionismo esasperato impedisce di
sviluppare mondi nuovi, perché il modello è trattato alla stregua di un mostro
sacro. Un autore originale dovrebbe semmai prendere Lovecraft come punto di
partenza, ma mai come centro obbligato della propria narrativa. Perché in
questo modo quella narrativa personale, semplicemente, scompare.
Certo, il citazionismo costituisce anche
una trappola per compiacere i lettori affezionati: è semplice fanservice e – mi
dispiace dirlo – ci sono case editrici che favoriscono tendenze ripetitive,
puntando su ciò che è già noto e accattivante. Molto più onesto sarebbe, per
esempio, proporre uno scritto che è dichiaratamente un omaggio, come p. es.
l’antologia Notte Horror 80 (Acheron Books, 2023): allora il lettore
comprende fin da subito che verrà solleticato nelle sue corde nostalgiche e può
scegliere se dare o meno il suo consenso.
Rimango con alcune perplessità e con tante
domande. La prima è rivolta ai lettori: è davvero di questo che ci
accontentiamo? Eppure, il genere non dovrebbe stimolare a cercare vie non
confortevoli, scomode, disagevoli? Inedite? E in merito agli scrittori:
l’horror letterario è ancora in grado di creare nuovi miti? È davvero
necessario continuare con questa attività estrattiva del materiale
lovecraftiano? Il mio timore è che stiamo rischiando un depauperamento della
forza immaginativa peculiare al genere.
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