La voce straniante di Izumi Suzuki in Noia terminale
È la seconda volta che leggo un’autrice
giapponese nel catalogo Add, dopo aver recuperato La foresta trabocca di
Ayase Maru, testo a cui sono tornato mesi dopo, fulminato da una nuova riflessione
di cui ho scritto qui.
Da un romanzo sono passato a una raccolta
di racconti, Noia terminale (Add, 2024, traduzione di Asuka Ozumi) di Izumi Suzuki, una sorta di
meteora incandescente nel panorama letterario nipponico. Si tratta di un
viaggio spigoloso e destabilizzante nel vuoto esistenziale della società
contemporanea, un’esplorazione spietata della disconnessione umana e del
disfacimento dell’identità, il tutto filtrato attraverso una lente weird e
fantascientifica.
Lo sguardo dell’Autrice è vicino alla beat
generation e al cyberpunk nichilista, con l’aggiunta di una disillusa ironia
che la distingue dai suoi contemporanei.
Ma come si inserisce Noia terminale
nel contesto letterario giapponese? A partire dagli anni Settanta, la
letteratura nipponica iniziava a contaminare il realismo con suggestioni
speculative e distopiche. Suzuki è stata influenzata per esempio da Philip K. Dick, di cui condivide l’ossessione per la realtà instabile e la percezione
drogata del mondo. Tuttavia, rispetto ai suoi colleghi giapponesi più
affermati, come Haruki Murakami, il suo approccio è meno elegiaco e più
abrasivo; meno orientato alla malinconia e più incline a una violenza estetica
che sfiora il punk.
Noia terminale si muove su
coordinate che richiamano il femminismo radicale, la critica alla società
patriarcale giapponese e una riflessione sulla perdita di senso in una realtà
sempre più meccanizzata e alienante.
I racconti variano per ambientazione e
tono; alcuni sono più riusciti di altri (Un mondo di donne e donne, Picnic
notturno, Dimenticato, Noia terminale), ma tutti conservano
una coerenza tematica e stilistica.
Un mondo di donne e donne descrive una
sorta di mito originario degli uomini: «Molto tempo fa sulla Terra c’erano solo
le donne. Vivevano in pace, finché una partorì una creatura mai vista prima,
con il corpo deforme e modi tanto rozzi da risultare fastidiosi. Morì, non
prima di aver dato alla luce una progenie: ebbe così inizio la stirpe degli
uomini.»
L’Autrice capovolge la concezione
tradizionale dei caratteri dell’uomo e della donna: il primo sarebbe il
sognatore, che vive di astrazioni; la seconda la mente pratica. Proprio per il
loro scollegamento dalla realtà, gli uomini hanno provocato la distruzione del
pianeta e della civiltà. L’ambiente, tramite l’inquinamento, ha riportato
l’equilibrio decimandoli. Le donne hanno così preso il controllo in una società
matriarcale post-apocalittica, relegando gli ultimi maschi in campi di concentramento,
definiti zone di residenza speciale.
Nelle scuole, gli uomini vengono
de-umanizzati e considerati «un ramo dell’umanità, ma tutto sommato
un’aberrazione». Parlare di uomini è un tabù e questo alimenta una sottocultura
che trasgredisce cercando di scoprire di più su di loro, tramite film proibiti
e pamphlet clandestini.
Il testo è tutt’altro che semplicistico
nel trattare la materia. Da un lato, le donne hanno costruito una società
all’apparenza pacifica ed equilibrata; dall’altro, si cela tra le righe il
controllo governativo, attraverso la censura, l’indottrinamento ideologico e la
riscrittura faziosa della storia. Ciò che infine emerge, grazie alla figura
della protagonista del racconto, è che forse il rapporto tra uomo e donna
andrebbe non tanto abolito dall’alto, ma ridiscusso a mente fredda.
You May Dream ha al centro il
tema della criogenesi motivata soprattutto dall’aumento della popolazione
globale. In realtà, la pratica finisce per trasformarsi in una moda accessibile
a tutti, che nasconde una profonda apatia e un disinteresse per un mondo che
«si estende piatto e scialbo». Nei vari dialoghi del testo, c’è chi è più
lucido e dice le cose come stanno: «La chiamano ibernazione, ma in realtà è
eutanasia.»
In un passaggio emblematico, la
protagonista fa una “confessione” che mostra oggi tutta la sua attualità:
Come la stragrande maggioranza delle
persone al giorno d’oggi, vivo in modo piuttosto superficiale. Non penso troppo
alle cose. La mancanza di fiducia in me stessa e la rassegnazione sono
avvinghiate senza possibilità di comprensione reciproca. Non ho alcuna fede
certa, né fissazioni. E men che meno accade che la gravità di una qualsiasi
situazione mi tocchi a livello emotivo. O forse sono io a fare in modo che non
accada. Pertanto agisco solo in base all’umore, senza rimorso né rimpianto.
Picnic notturno è un curioso
scambio familiare tra umani su un altro pianeta, nel difficile tentativo di
mantenere vive le tradizioni terrestri. Il risultato è un atteggiamento artificioso,
pedante e rigido da parte del padre, che si protrae per gran parte del
racconto, fino alla rivelazione del finale, che mette in discussione l’identità
che l’uomo aveva cercato di attribuire a tutti i costi alla sua famiglia. È uno
dei miei racconti preferiti nella raccolta e mi ha ricordato certe idee e
atmosfere delle Cronache marziane di Bradbury.
Ricordi al Seaside Club rivela il
paradosso della relazione tra essere umano e intelligenza artificiale in tema
di sentimenti. Conoscete quel detto diffuso in àmbito fantascientifico secondo
cui finiremo per parlare con il nostro tostapane: ecco, qui l’oggetto domestico
è una comune sedia, che sembra saperla lunga sull’amore. D’altra parte, i
personaggi stessi non sono che avatar di quello che oggi definiamo metaverso,
essi stessi maschere che fuggono un «tramonto schifoso» e cercano esperienze
rivitalizzanti su «mondi immaginari».
Fumo negli occhi è un viaggio nel
modo degli stupefacenti e della dipendenza in generale. Si trascorre il tempo
alla sala giochi o a guardare la televisione 3D senza volume e in solitudine. Si
cerca di tenersi impegnati con lavori manuali, per non pensare, per non provare
odio per se stessi. La memoria si fa incerta, il confine tra sogno e realtà si
assottiglia e si perde la cognizione del tempo: «Mi hanno portata lontano. Mi
hanno fatto delle iniezioni e domande alle quali ho risposto dal limbo tra
realtà e sogno. Mi hanno impresso un marchio verde sul collo: è il segno della
disabilità mentale.»
Dimenticato è una
tecno-distopia anticipatoria del nostro tempo, in cui le videochiamate invadono
ogni privacy e le persone cercano conforto (dopamina) scrollando gli schermi.
La storia si muove su due piani, dal rapporto tra l’alieno Sol e l’umana Emma alle
crescenti tensioni politiche tra i loro rispettivi pianeti di origine. Sullo
sfondo, l’atteggiamento imperialista terrestre, costruito non su un’esplicita
dichiarazione di dominio, ma su astuzie e sottigliezze diplomatiche.
Nel testo, torna un tema caro all’Autrice,
presente anche nell’ultimo racconto, ovvero l’invasività della pubblicità e il
mito esacerbato del benessere psico-fisico: «Oggigiorno l’inferno non si fa
sentire, il Paese è ammantato dall’immagine del paradiso. La differenza è che
all’inferno quello che ti aspetta è tutto chiaro e lampante. Mentre il paradiso
è così ambiguo. Non è un benessere attivo, ma un piacere passivo ed
enigmatico.»
La cosiddetta teledipendenza si è
insinuata in maniera talmente capillare che la protagonista afferma di essere
«schiava delle mode» e di essere «priva di soggettività». Si potrebbe pensare
che il fatto di esserne cosciente sia già un primo passo per uscire
dall’impasse, ma è proprio qui il punto: i personaggi di Suzuki accettano senza
un sussulto la triste realtà. A un notiziario, «stanno dicendo che sempre più
giovani muoiono di fame perché si dimenticano di mangiare.» È un’agonia priva
di spasmi; il paradosso di un’esistenza che ci si dimentica di vivere.
Il racconto conclusivo, Noia terminale,
mostra (in anticipo sui tempi) l’assuefazione portata dalla televisione e dalla
serialità su schermo: «[…] e apro la rivista con la guida tv per scegliere cosa
guardare. Ci sono troppe colonne e ci metto parecchio.» E la situazione
peggiora, fino ai margini della depressione: «Il programma di per sé non mi
convince, troppa roba inutile. Ma stare assorta davanti allo schermo è
gradevole, perché non devo essere attiva. Fare qualcosa di mia iniziativa mi
provoca una sofferenza insopportabile. Se posso evitarla anche solo per un
momento, è già sufficiente.»
La dipendenza si insinua silenziosa e
finisce per confondere realtà e fiction: «Il confine sparisce e sembra di
vivere in un sogno.» Un sogno dove tutto è possibile, anche sperimentare i
propri limiti alla ricerca di una sensazione autentica, che rispecchi la
vitalità degli anziani. Sì, perché in questa società futura sono i genitori e i
vecchi – coloro che hanno vissuto il mondo di prima – a sapere come non
cadere nel tranello dell’abbondanza, per esempio attraverso l’attività fisica
costante e la produzione naturale di endorfine. I due protagonisti, tuttavia, non
guardano a loro, ma ai modelli fittizi portati a schermo, con conseguenze
nefaste…
L’estraniazione è il motore principale dei
racconti di Suzuki: i personaggi sono spesso donne intrappolate in relazioni
vuote, in città soffocanti, in lavori che non offrono alcuna soddisfazione.
Il futuro che descrive non appartiene al
sottogenere delle utopie tecnologiche, ma è un’estensione amplificata del
presente, dove il degrado affettivo e la meccanizzazione delle relazioni umane
si fanno ancora più soffocanti.
Il concetto di noia espresso qui non è una
semplice mancanza di stimoli, ma un vero e proprio collasso esistenziale,
un’impossibilità di trovare significato nel quotidiano. La noia si declina in
molteplici forme: sessuale, sentimentale e professionale. I personaggi non
combattono la società e non tentano la fuga: sono spettatori disillusi di un
mondo che ha già inghiottito ogni speranza di cambiamento.
L’influenza del vissuto dell’Autrice
emerge con forza: Suzuki nacque nel 1949 e fece parte della controcultura
giapponese, legata alla scena artistica e ai movimenti femministi, fino al
suicidio nel 1986. Attrice, modella e scrittrice, la sua letteratura è un’osservazione
acuminata delle dinamiche di potere, dei ruoli di genere e delle gabbie sociali
che soffocano qualsiasi possibilità di autodeterminazione.
Nel contesto della narrativa giapponese
contemporanea, Suzuki appare come un corpo estraneo: troppo audace per essere
ingabbiata nella tradizione letteraria del dopoguerra; troppo fuori dagli
schemi per essere assimilata alla fantascienza mainstream.
Se proprio volessimo trovare delle affinità, potremmo citare autori come Ryu Murakami per il cinismo viscerale, o Yoko Ogawa per la capacità di creare atmosfere sospese tra il perturbante e il malinconico. Oppure, possiamo guardare a Suzuki come a una straordinaria anomalia, originale e del tutto non convenzionale. In un tempo in cui il senso di spaesamento è più vivo che mai, la voce di Suzuki torna a riecheggiare dal passato e di questo bisogna ringraziare lo sguardo attento di Add, che per la prima volta porta l'Autrice in Italia.
Commenti
Posta un commento
Grazie per aver visitato "La Voce d'Argento"! Condividi il tuo pensiero o lascia un commento: ogni opinione è importante e arricchisce la conversazione. Ti ricordo di rispettare le opinioni altrui e di evitare linguaggi inappropriati: i commenti sono moderati per garantire un ambiente costruttivo e piacevole. Buona lettura e grazie per il tuo contributo!