Emil Ferris e l'esercizio di stile dei suoi amati mostri

 

Ho letto di recente il primo libro de La mia cosa preferita sono i mostri (Bao, 2018) di Emil Ferris: è uno di quei casi in cui mi sono lasciato incuriosire dai suggerimenti del bookstagram. Qualcosa, però, non mi ha convinto.

La graphic novel di Ferris sfida i limiti del medium, trasformando l’esperienza visiva del lettore e implementandone, se possibile, la capacità immersiva. Il libro si presenta come il diario illustrato di Karen Reyes, una ragazzina di dieci anni che si raffigura come un piccolo lupo mannaro. I generi si mescolano, tra noir, pulp, storico e, ovviamente, horror. L’intreccio si muove tra l’inchiesta di un omicidio e la scoperta della propria identità da parte della protagonista.

 

Visivamente, credo che nessuno possa permettersi di eccepire alcunché. Le pagine sono realizzate a penna e riproducono l’illusione di un quaderno a righe in cui si accumulano schizzi, ritratti e pagine di diario che sfuggono alle tradizionali vignette del fumetto. Il tratto è istintivo ma allo stesso tempo controllato, cupo e onirico, evocando tanto i classici dell’horror quanto un surrealismo che riflette lo stato emotivo della protagonista.

Il lettore deve chiaramente operare una sospensione della realtà, considerando che i disegni sarebbero il frutto di una bambina, ma possiamo considerarli come il modo in cui la protagonista vede e vive la propria realtà. Lo stile grafico non è solo una scelta estetica, ma una necessità narrativa: il mondo viene filtrato dagli occhi di Karen, la quale affronta le ombre quotidiane cercando rifugio nel mostruoso. Il suo sguardo è carico di fascinazione per le figure dell’orrore, che vede non come entità spaventose, ma quali simboli di diversità e di resistenza.

 

Il racconto si sviluppa su più livelli. Da un lato, Karen cerca di indagare sulla morte della vicina Anka Silverberg, sopravvissuta all’Olocausto e donna dal passato enigmatico, in un’indagine che richiama i canoni del noir ma con un approccio intimo e personale. Dall’altro, il libro esplora il contesto familiare e sociale della protagonista: l’infanzia segnata dalla malattia della madre, il rapporto con il fratello Deeze, la scoperta della sessualità e l’esperienza della marginalità nella Chicago degli anni Sessanta.

Il cuore dell’opera risiede nella riflessione sulla natura del mostro. Karen si identifica con le creature della Universal – i licantropi, i vampiri, gli esseri deformi e perseguitati – vedendo in loro una forma di espressione autentica in un mondo che rifiuta chi è diverso. Il suo sguardo diventa allora uno specchio deformante della realtà, dove gli esseri umani si rivelano più spaventosi delle figure dell’orrore.

 

La narrazione non segue una linearità rigida, ma si dispiega in ricordi, incubi e digressioni visive che rispecchiano la frammentazione della memoria e dell’identità. Il risultato è un’opera che sfida il lettore a muoversi tra le pagine, come una specie di usurpatore che sbircia qualcosa che non è suo alla ricerca di un segreto o per gusto del morboso.

Ciò che ho trovato poco convincente è la trama in sé, perché ho trovato debole la storia di Anka e ancora più debole l’indagine condotta da Karen, che dopotutto è un pretesto. Un modo con cui la protagonista affronta una realtà cruda, non perdendosi in fantasie, ma impiegandole come filtro per dare un significato agli eventi. Ciò nonostante, pur apprezzando questa struttura, l’opera è davvero voluminosa; le sottotrame spezzano il ritmo e risultano spesso esercizi di stile fini a se stessi; l’estensione delle parti testuali è talvolta fuori scala.

A ogni modo, Ferris dimostra che il fumetto possa fungere ancora da territorio di sperimentazione, capace di fondere arte e letteratura (le copertine dei magazine pulp; i quadri “riscritti” nel suo stile, che acquisiscono un nuovo codice di significati) senza compromessi.

La mia cosa preferita sono i mostri è un’esperienza tecnica e concettuale che lascia il segno, al netto della storia che racconta.

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