Tolkien professore. Il Medioevo e il fantastico


Il volume The Monsters and the Critics and Other Essays è una raccolta di conferenze e saggi scritti e letti tra il 1931 e il 1959. In italiano, il libro è stato tradotto come: Il Medioevo e il fantastico. Entro subito nel merito dei singoli testi: per le citazioni che seguiranno, mi sono basato sull’edizione del 2000 di Luni Editrice. Più che una recensione, questa è una raccolta di appunti personali che ho ordinato, ripercorrendo i punti salienti di ciascun testo.

 

Beowulf: mostri e critici è una conferenza in memoria di Sir Israel Gollancz, tenuta alla British Academy. Tolkien ritiene che la critica che si è dedicata a Beowulf si sia concentrata soprattutto sul valore storico dell’opera, dimenticando di trattarla in quanto poema. D’altra parte, l’opera non è un poema epico, né espressione di paganità teutonica. La critica ha in genere sminuito il suo contenuto, trattando Beowulf come una caccia ai mostri fine a se stessa, in una trama fin troppo lineare.

Tolkien distingue tra mito e racconto popolare e sostiene che molta critica abbia confuso le due cose nell’analisi: «L’espressione “racconto folklorico o popolare” è fuorviante; ed è scontato in essa un certo tono di disprezzo. In concreto, come si è detto, i racconti popolari – perché naturalmente il “tipico racconto popolare” è soltanto un concetto astratto elaborato dalla ricerca, che non esiste da nessuna parte – contengono spesso elementi che sono inconsistenti e di scarso valore, quasi privi di potenzialità; ma contengono anche molte cose di assai più grande potenza, e che non possono essere nettamente separate dal mito, poiché sono derivate da esso, o possono, nelle mani di un poeta, in esso trasmutarsi: e questo vuol dire che possono diventare ampiamente significative come insieme, interpretate in modo non analitico.»

 

La prosa saggistica di Tolkien è quantomai scorrevole, persino quando si addentra in dettagli linguistici e di versificazione. Non manca nemmeno una tipica ironia britannica, dosata con cura non soltanto per alleggerire, ma anche per fornire informazioni.

Un esempio: «Un drago non è una fantasia oziosa. Quali che possano essere le sue origini, nella realtà o nell’invenzione, nella leggenda il drago è una potente creazione dell’immaginazione, più ricca di significato che il suo tumulo d’oro.» Tolkien rimprovera al drago del Beowulf di non essere «il semplice e schietto drago della fiaba». La creatura si mostra come una «personificazione di malizia, cupidigia e distruzione (il lato malvagio della vita eroica), e della crudeltà senza discrimine della fortuna, che non distingue il buono dal cattivo (l’aspetto malvagio di ogni vita).»

L’altro mostro della storia è Grendel, una figura che non è ancora un diavolo compiuto, in quanto in lui «l’inganno e la distruzione dell’anima» sono intenti poco presenti. Grendel abita il nostro mondo, ma ha al contempo un contatto con il mondo degli spiriti: «Grendel resta prima di tutto un orco, un mostro fisico, la cui principale funzione è l’inimicizia nei confronti dell’umanità (e dei suoi fragili sforzi per creare sulla terra ordine e arte).» Solo quando viene ucciso, esso diventa uno spirito malvagio, un diavolo.

Il concetto di fondo espresso dall’Autore è che i mostri non siano un mero corredo, magari di cattivo gusto, della storia, ma un elemento essenziale, che alimenta le idee del poema, intrise di una mistura di Sacre Scritture e folklore scandinavo. Gli avversari del protagonista sono creature dell’oscurità nemiche di Dio, e non parte di un normale ordinamento della natura.

 

Secondo Tolkien, riprendendo lo studioso W. P. Ker, gli dèi del Nord sarebbero simili ai Titani: sono dalla parte giusta, ma finiscono sconfitti dal Caos e dall’Irrazionale, dai mostri in senso mitologico, benché nella guerra siano coadiuvati da uomini eroici che ne condividono la resistenza. Con l’affermarsi del Cristianesimo non mutò questa alleanza: «Un cristiano era (ed è), come i suoi avi, un mortale rinchiuso in un mondo ostile.»

Un’ulteriore distinzione è quella tra la mitologia mediterranea e quella nordica (ancora nota): «Essi [gli dèi mediterranei] sono senza tempo e non temono la morte. Una simile mitologia può mantenere la promessa di un pensiero più profondo. In ogni caso, fu una virtù della mitologia del Sud il non potersi fermare là dov’era. Era obbligata a procedere sino alla filosofia, o a recedere nell’anarchia.»

Tuttavia, mentre l’immaginazione mediterranea si è esaurita «nell’ornamento letterario», quella nordica si è rivitalizzata fino a oggi, per esempio nella metafora del vichingo senza dèi, un «eroismo marziale fine a se stesso.» A Beowulf o a Sigurd, in àmbito norreno, non viene assicurato il Cielo, ma la fama eterna, per quanto il concetto possa poi essere cristianizzato. Beowulf si riferisce poco a Dio e più nel significato del Metod, l’“arbitro”, più simile all’antico concetto di Fato. Un altro personaggio, invece, Hrothgar, è modellato sui patriarchi e sui re del Vecchio Testamento e ringrazia Dio per la fortuna che gli ha concesso.

 

Beowulf non è il classico eroe da ballata: «Non ha viluppi di fedeltà contrastanti, né amore senza speranza. È un uomo, e questa, per lui e per molti altri, è già una tragedia sufficiente

La storia rappresenta la sua ascesa alla fama, alla sovranità e, infine, alla morte. Da cui la definizione dell’opera: «un poema storico sul passato pagano», il racconto di una dimensione di eroica tristezza. E ancora: «È un poema eroico-elegiaco»; «un poema antiquario – nel senso buono del termine – anche appena composto […] chi lo scrisse parlava di cose già antiche, e gravide di rimpianto». Non è «un quadro realistico della Danimarca, della terra dei Geati o della Svezia intorno al 500 d.C. circa», ma un progetto espressivo coerente che si rivolge a un nobile e antico passato che ha ancora significati da tramandare. Non è comunque una narrazione sequenziale e Tolkien vede un elemento di debolezza nella lunga ricapitolazione delle imprese che Beowulf compie rivolgendosi a Hygelac.

 

Sul piano stilistico: «Beowulf è infatti il più celebre poema anticoinglese perché in esso gli elementi – lingua, metro, tema, struttura –, sono in più stretta armonia.»

L’idea – espressa da molta critica – secondo cui i versi zoppicherebbero viene spiegato da Tolkien così: «Nondimeno abbiamo nel Beowulf un metodo e una struttura che, nei limiti concessi dal verso, si avvicina piuttosto alla scultura o alla pittura. È una composizione, non una melodia.»

Vi si trovano riferimenti formali all’Eneide, alle Sacre Scritture, ma anche a un bacino di leggende precristiane: «Questo poema non può essere criticato o compreso, se il suo pubblico originario viene immaginato in una situazione analoga a quella in cui siamo noi, che possediamo solo il Beowulf in splendido isolamento.»

 

Tradurre Beowulf costituiva una nota introduttiva a una traduzione in prosa dell’opera, realizzata nel 1911 da John Clark Hall e revisionata nel 1940.

Il testo si apre con un’altra stoccata alla critica del suo tempo, che, nel caso di Beowulf, tendeva a sminuirne il pregio letterario: «Ma questa è un’età di critica precotta e di opinioni letterarie predigerite». Per un’opera in versi, la resa in prosa non può che «fornire un sussidio allo studio».

Questo testo, in realtà, diventa un espediente per discutere di traduzione: «Forse la più importante funzione di ogni traduzione utilizzata da uno studioso è quella di fornirgli non un modello da imitare, ma un esercizio da correggere.» E ancora: «Lo sforzo per tradurre o per migliorare una traduzione ha un valore non tanto per la versione che produce, quanto piuttosto per la comprensione dell’originale che risveglia.»

 

Per questa opera, Tolkien propone di impiegare nella traduzione un linguaggio arcaico, non per un gusto arcaizzante di parole desuete, ma perché l’opera originale usava già un linguaggio arcaico e poetico, non certo un linguaggio colloquiale. Bisogna poi fare attenzione all’evoluzione di significato dei termini dall’anticoinglese all’inglese moderno, con attenzione all’uso degli strumenti: «Il vocabolario della poesia anticoinglese può avere interesse filologico, ma non ha un obiettivo filologico.» È bene dunque separare la spiegazione del significato originale dalla storia del termine, per evitare confusione nello studioso.

Nella seconda parte della nota introduttiva, Tolkien si dedica alla metrica, una parte tecnica per la quale ho dovuto impiegare la traduzione italiana di Carlo Donà, e che non commento, perché il grado di dettaglio tecnico portato dal professore invita a una lettura diretta del testo.

 

Galvano e il Cavaliere Verde costituisce una conferenza in memoria di W. P. Ker, tenuta all’Università di Glasgow. Tolkien considera l’opera del titolo uno dei capolavori inglesi del XIV secolo e della letteratura inglese in generale. Egli vede nella storia un mito primordiale rimaneggiato dall’Autore, tra antichi culti e simboli remoti.

Prima di concentrarsi sulla parte che più lo affascina – la tentazione di Galvano – Tolkien descrive ciò che la precede. L’ambientazione è la corte arturiana durante le festività natalizie: al primo giorno dell’anno, un Cavaliere Verde su un cavallo verde, armato di ascia verde, cavalca nella sala reale e propone una sfida. Egli propone a qualcuno di afferrare l’ascia e di colpirlo senza rispondere al colpo, a patto che, dopo un anno e un giorno, subisca la stessa sorte. Galvano, con umiltà (si ritiene il meno importante tra i cavalieri arturiani), accetta la sfida, anche per proteggere Artù. Galvano però viene ingannato: perché decapita il cavaliere, ma questi riprende la sua testa e lo ammonisce a rispettare il patto, andando a cercarlo all’ora stabilita.

 

Tolkien apre con un’analisi della bardatura di Galvano, in particolare dello scudo, che non presenta insegne araldiche, ma il simbolo del pentangolo, che denota «perfezione in ambito religioso (la fede cristiana), devozionale e morale, e la “cortesia” che da ciò fluisce nelle relazioni umane».

Galvano va alla ricerca della Cappella Verde e la trova con una preghiera, poiché egli era in viaggio da Ognissanti e si trovava alla Vigilia, con il timore di non poter assistere alla messa della mattina di Natale. Trova un castello bianco, che non è «un covo di dèmoni», ma un palazzo cristiano. Viene accolto da una Dama molto bella, accompagnata da una invecchiata, che parlano di caducità. Seguono giorni di festa e, appena Galvano afferma di doversene andare, viene invitato a restare con la scusa che la Cappella Verde si trovi lì vicino. Il signore del maniero va a caccia; la dama seduce Galvano, il quale la respinge, ma accetta una sua cintura che renderebbe invulnerabili. In seguito, Galvano confessa i suoi peccati, ma trattiene la cintura e su questo punto Tolkien indaga le motivazioni.

 

Al centro dell’analisi, vi sono le considerazioni sul rapporto tra etica e codice d’onore cortese: Galvano rifiuta le tentazioni della dama con garbo, ma «le leggi del “servizio d’amore” ai desideri della Dama sono in effetti violate.»

L’Autore del poema – secondo Tolkien – riteneva che «i giochi e le consuetudini» avessero un valore minore rispetto alla «vera virtù, alla quale devono in ogni caso cedere il passo in caso di conflitto.» Galvano «sceglie la virtù piuttosto che la cortesia»: «La legge morale fa riferimento alla Chiesa. Lewté, “il giocare la partita”, quando si tratta di un puro gioco fra uomo e uomo, fa riferimento al Cavaliere Verde» e non riguarda la vera virtù.

Tolkien si concentra infine sui processi di mutazione del personaggio: vergogna, pentimento, confessione senza riserve, contrizione, redenzione (che trasforma il danno in gloria). La cintura diviene allora un orpello, poiché «Il conforto e la forza che egli ha, al di là del suo naturale coraggio, derivano solo dalla religione

In chiusura, Tolkien ribadisce la centralità dell’opera nella letteratura inglese medievale e la accosta al Troylus and Criseyde di Chaucer: «entrambi questi poemi trattano, da diversi punti di vista, del problema che ha tanto occupato le menti inglesi: le relazioni della Cortesia e dell’Amore con la moralità e la morale cristiana, e la Legge Eterna.»

 

Sulle fiabe è una conferenza in memoria di Andrew Lang, tenuta all’Università di St. Andrews.

Nel circoscrivere la terminologia, Tolkien scrive: «Fairy (essere fatato, fata), come nome più o meno equivalente a elfo, è un vocabolo relativamente moderno, raramente utilizzato sino al periodo dei Tudor.»

Nell’Oxford English Dictionary, l’Autore trova la dicitura «un racconto su esseri fatati», ma è una descrizione restrittiva, perché le fiabe «non sono storie sulle fate o gli elfi, ma storie sul mondo fatato, cioè Faerie», che contiene anche altre cose, tra cui la natura, gli alimenti e gli stessi esseri umani. Le fiabe migliori «vertono sulle avventure di uomini nel Reame Periglioso o lungo le sue nebulose regioni di confine.»

Nel valutare che cosa si possa considerare fiaba e che cosa no, Tolkien evidenzia dei confini che non sono netti. Sono più da fiaba gli Eloi e i Morlock de La macchina del tempo di H. G. Wells che i lillipuziani dei racconti di Gulliver, che non sono altro che uomini visti dall’alto in basso: nell’attribuzione, conta la distanza spaziale e temporale, oltre agli sviluppi storici.

Tolkien respinge invece l’artificio del sogno, impiegato per veicolare i contenuti del mondo fatato: non considera fiabe quei testi, come p. es. la cornice onirica delle storie di Alice di Carroll. Oltretutto, Tolkien sostiene che vi sia confusione tra i termini “fantasia” e “sogno”: la prima è una forma d’arte elevata, più prossima alla purezza; nel secondo termine non sussisterebbe l’arte. Tuttavia, i due vocabli si confondono e i critici della scrittura di fantasia la considerano una forma di disordine mentale o, al limite, come una fantasticheria.

Infine, l’Autore esclude le favole con gli animali dal fiabesco. Ritiene tutte queste distinzioni importanti per un semplice motivo: «Domandarsi quale sia l’origine delle storie (comunque le si qualifichi) vuol dire domandarsi qual è l’origine del linguaggio e della mente.»

 

L’Autore approfondisce il dibattito tra chi sostiene che le fiabe abbiano avuto un’evoluzione indipendente, una discendenza o una diffusione (avvenuta in più modi da uno o più centri): «La filologia è stata detronizzata dalla posizione di rilievo che aveva un tempo alla commissione d’inchiesta sulle fiabe.» Al contrario, esse andrebbero considerate prima di tutto per quello che sono nel presente, così come sono giunte a noi, perché mostrano i segni di «quali valori il lungo processo alchemico del tempo ha prodotte in esse.»

Attraverso il dispiego della fantasia, l’essere umano diviene un sub-creatore: il Regno delle Fate ha il potere di rendere efficaci le visioni della fantasia. Se è vero che le storie del mito e delle fiabe siano riconducibili a fatti storici e a persone reali, ciò non dovrebbe scoraggiare dal chiedersi che valore tali storie abbiano sui contemporanei.

 

Un passaggio molto interessante riguarda il pubblico di lettori. Tolkien non ritiene che i bambini siano il pubblico naturale delle fiabe: i bambini «non amano le fiabe più degli adulti, né le comprendono meglio di loro; e comunque non le amano più di quanto amino altre cose.» Tolkien definisce la questione «un accidente della nostra storia domestica», che ha relegato quei libri nella stanza dei bambini come si fa con oggetti vecchi e fuori moda.

Lo stesso sentimentalismo verso i bambini, «che pare aumentare con la loro diminuzione», ha provocato questa concezione: ha altresì prodotto «alcuni deliziosi libri», che però affascinano soprattutto gli adulti. D’altra parte, nella maggior parte dei casi, si è assistito a un rimaneggiamento “criminale” delle storie antiche.

Tolkien critica Andrew Lang su questi temi: Lang afferma inoltre che si debba avere «il cuore di un fanciullo» per entrare nel Reame Fatato, ma Tolkien commenta che umiltà e innocenza di un tale cuore non implicano «meraviglia acritica».

In generale, non bisogna spiegare o giustificare le azioni oscure contenute nelle fiabe (un tema certamente attuale): una delle lezioni del genere «è che il pericolo, il dolore e l’ombra della morte possono conferire dignità e in qualche caso persino saggezza alla gioventù inesperta, impacciata ed egoista.» I bambini – scrive Tolkien – non devono diventare Peter Pan, ma avanzare nel loro cammino di vita. È preferibile che essi leggano opere «che vadano oltre la loro capacità».

 

Tolkien prosegue chiedendosi come andrebbe considerata la magia nel contesto fantastico. Egli la ritiene essenziale al mondo fatato e va sempre presa sul serio, anche nei testi ironici: «La Magia produce, o pretende di produrre, un’alterazione nel Mondo Primario. Non conta da chi si dica venga praticata, fata o mortale; rimane comunque distinta dalle altre due; non è un’arte, ma una tecnica; ciò che desidera è il potere in questo mondo, il dominio di cose e volontà.»

Tornando al concetto di fantasia, scrive che essa non sia in contrasto con la ragione, anzi: «Quanto più la ragione è acuta e chiara, tanto meglio opererà la fantasia.» L’irrazionalità che sfugge di mano è semmai sintomo di altro: prima di avventurarci nella deformazione delle cose, poiché ormai annoiati a morte da una visione che riteniamo di aver visto troppe volte, dovremmo ritornare a vedere il mondo che ci circonda liberandolo dalla possessività. Infatti, le cose familiari «sono le cose di cui ci siamo appropriati, legalmente o mentalmente.»

Tolkien critica infine la modernità, con la meccanizzazione che ha ridicolizzato la fantasia, pur avendo in realtà prodotto mostri “reali” ben più pericolosi (armi, etc.). Il rapporto tra ragione e fantasia è così rimesso in discussione. A conclusione, Tolkien ritiene che, come la tragedia sia la «vera forma» del teatro, così il lieto fine della fiaba, o eucatastrofe, «rappresenta la sua più elevata funzione.» La fiaba accoglie in sé il dolore e il fallimento, ma nega «la sconfitta finale e universale».

 

Inglese e Gallese è una Conferenza O’ Donnell presentata a Oxford, una tipologia di incontri istituita dalle Università di Oxford, Edimburgo e del Galles per trattare l’elemento britannico o celtico nella lingua inglese e nei dialetti delle contee. È dedicata a Charles James O’Donnell.

Il gallese è prima di tutto una lingua parlata. Già dal Cinquecento il governo inglese cercò di cancellarlo, perché: «La lingua è il differenziatore primario dei popoli – non delle “razze”, qualsiasi cosa possa significare questa parola usata tanto a sproposito nella storia così rimescolata dell’Europa occidentale.»

Tolkien rammenta che, a dispetto della definizione, l’antico inglese e l’antico gallese non siano lingue antiche in rapporto alle altre lingue europee: l’inglese si incontra la prima volta nell’VIII secolo, ed è una lingua media, avanzata nel secondo stadio. Del gallese non si possiede abbastanza. Certo è che ai britanni il celtico gaelico dovette apparire tanto straniero quanto il latino dei romani: «L’inglese e il britannico erano assai divisi storicamente e strutturalmente, anche se meno in campo fonetico che in quello morfologico.»

Gli scontri tra romani e barbari e tra cristiani e politeisti modellarono la lingua inglese: «L’uso erroneo di “britannico” inizia dopo l’unione delle corone d’Inghilterra e di Scozia, quando, in nome del desiderio alquanto superfluo di un nome che li accomunasse, gli inglesi furono ufficialmente spogliati della loro inglesità e i gallesi della loro rivendicazione di eredi principali del titolo di britannici.»

Le considerazioni tolkieniane sulla storia della lingua risultano affascinanti anche per i non studiosi e il finale dell’intervento pone una distinzione fondamentale, anche per comprendere la sua scrittura: «Il mio intento principale è di sottolineare la differenza tra la lingua imparata per prima, la lingua degli usi e costumi, e la lingua natia dell’individuo, le sue predilezioni linguistiche innate […].»

La chiusura è più personale. Tolkien commenta la sua conoscenza delle lingue europee; dichiara un amore particolare per il gotico e per lo spagnolo, ma nel cuore conserva il gallese, con la sua sonorità e grafia «di lingua antica ma ancora viva». Il piacere per lo stile linguistico gallese risiede ancora oggi in molti inglesi, sopito e pronto a riecheggiare grazie a un contatto fortuito con quella lingua o con un’occasione di approfondimento.

 

Un vizio segreto è un testo per il quale non abbiamo indicazioni certe sulla data e sull’occasione del discorso, rivolto presumibilmente a gruppo di filologi.

È un testo che riprende per certi versi il finale di quello precedente. Fin da giovanissimo, Tolkien racconta di come inventasse linguaggi: prima sul campo di battaglia della Somme e poi in ospedale sentì l’esigenza di immaginare dei popoli per queste lingue.

L’Autore sperava nella creazione di una lingua artificiale che unificasse l’Europa prima che venisse «fagocitata dalla non-Europa», oltre che per «numerose altre ottime ragioni.» Egli mostra interesse per l’esperanto, poiché è stato creato da un non filologo, quindi da un non professionista, che rischierebbe di essere troppo concentrato sulle regole e poco sulla spontaneità della lingua.

Trattando dei gruppi gergali, egli sostiene che non perseguano tanto valori artistici o estetici, ma che siano interessati soprattutto al rapporto tra suono e significato: il primo obiettivo di queste lingue è di essere comprensibili solo all’interno di cerchie specifiche. Tolkien definisce comunque “artisti” i creatori di lingue immaginarie e il loro vizio è “segreto” «solo in quanto apparentemente privo di qualsiasi speranza di comunicabilità o critica esterna».

A suo dire, creare una lingua nuova provoca maggior piacere che impararne una già esistente, perché è un processo «più spontaneo e personale». È una vera e propria esplorazione di sé e della propria natura, in un reciproco alimentarsi del linguaggio e dell’immaginazione: «La lingua ha rafforzato l’immaginazione, e al tempo stesso l’immaginazione ha reso libera la lingua. Chi mai potrà dire se sia stata la forma dell’aggettivo libero a creare visioni bizzarre e meravigliose, o piuttosto non siano state queste visioni bizzarre e meravigliose dell’immaginario a liberare l’aggettivo?»

 

Discorso di commiato è stato pronunciato a Oxford alla chiusura della carriera, avvenuta il 5 giugno 1959.

Tolkien non è mai stato un estremista nella sua materia: ha sempre trovato divertente la filologia, ma non ha mai pensato che fosse necessaria alla «salvezza». Tuttavia, se si decide di intraprendere un certo tipo di studi, la filologia, ovvero «l’amore per le lettere, è il fondamento degli studi umanistici».

Tolkien lamenta che il dottorato in lettere, un titolo accademico il cui bisogno reale consisteva nel desiderio di conoscere, si è trasformato in «un piccolo “abbonamento” post-laurea all’università e ad un college.» Tolkien discute anche della sua proposta di riforma dell’insegnamento dell’anglistica, consapevole che, mentre la vita accademica si accorcia, la materia diviene più lunga (milleduecento anni di documenti letterari inglesi, con il XX secolo che reclama attenzione).

Dunque, questo discorso di commiato rappresenta non tanto un accorato saluto, quanto un riepilogo di come lo studio dell’anglistica e della filologia sia cambiata nel corso degli anni, di fronte alle sfide del presente.

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