Un primo sguardo al pensiero di Donna Haraway
È utile una premessa: mi sono avvicinato
da pochi mesi agli scritti di Donna Haraway, grazie a una lettura della casa
editrice Future Fiction (Ecoluzione e, più tardi, anche con La seconda lingua madre), e desidero riportare qui alcuni elementi del suo
pensiero. Non si tratta di un’analisi esaustiva, ma di un primo approccio per
il lettore medio italiano, che con ogni probabilità non conosce l’Autrice o ne
ha soltanto sentito parlare.
Inoltre, ritengo che la lettura di Haraway
necessiti di molta attenzione e cura, perché il suo stile non impiega soltanto
tecnicismi, ma si apre a ispirazioni letterarie o poetiche, oltre che a
entusiasmi da attivista e a una peculiare abilità nell’àmbito della speculative
fiction. Dunque, questa prosa è ricca, densa, e su un testo come Manifesto
Cyborg (1985) sono già tornato due volte e, certamente, vi tornerò ancora
una volta per approfondire la seconda metà del testo. Nel frattempo, una
piccola introduzione.
Donna Haraway è una figura di spicco nel
pensiero contemporaneo, nota per i suoi contributi ai cultural studies,
agli studi sulla scienza e tecnologia e al postumanesimo. In particolare, i
suoi scritti ridefiniscono le relazioni tra umani, natura e tecnologia. La formazione
ne riflette il percorso: laureata in zoologia e filosofia, ha conseguito un
dottorato in biologia, per poi insegnare teoria femminista e filosofia della
scienza in Svizzera e negli Stati Uniti.
In quella che è forse la sua opera più
famosa, Manifesto Cyborg, il cyborg del titolo diviene una metafora
utile a superare le dicotomie tradizionali come uomo/donna, umano/animale,
naturale/artificiale. Il cyborg rappresenta un’entità ibrida che sfida le
identità essenzialiste e propone una visione fluida e postmoderna
dell’identità. Il cyborg viene definito “antagonista” e privo di innocenza, a
tal punto che «non riconoscerebbe il giardino dell’Eden: non è nato dal fango e
non può pensare di ritornare polvere.» Il cyborg riempie il divario che si è
creato tra natura e cultura, aprendo a un nuovo legame, per esempio, con gli
animali. Ne Le promesse dei mostri, Haraway specifica come sia da
intendere la natura: un «luogo comune» e un oggetto impossibile, di cui non
possiamo fare a meno di pensare in termini di possesso. Per questo occorre
«escogitare modi di relazionarsi alla natura che vadano oltre la sua reificazione
e possessione.»
Tornando al rapporto del cyborg con la
natura, ne Il manifesto delle specie compagne ho trovato due brani
esplicativi, che vale la pena citare:
Con Manifesto cyborg, ho tentato di
scrivere un contratto di maternità surrogata, un tropo, una figura che
permettesse di vivere all’interno delle competenze e delle pratiche della
tecnocultura contemporanea, senza per questo perdere di vista il costante
apparato bellico di un ineludibile mondo post-nucleare e le sue bugie
trascendenti ma ben reali. I cyborg possono essere modelli per vivere
all’interno delle nostre contraddizioni. Modelli attenti alle naturculture
delle pratiche ordinarie, in opposizione ai disastrosi miti di autogenerazione;
capaci di abbracciare la mortalità come condizione di vita; e sempre attenti
alle ibridazioni storiche emergenti che popolano il mondo a tutti i livelli di
contingenza.
E sul rapporto tra cyborg e cosiddette
“specie compagne” (p. es. i cani):
Ho cercato di affrontare i cyborg in modo
critico, cioè senza celebrarli né condannarli, ma con uno spirito di
appropriazione ironica orientata al raggiungimento di obiettivi mai contemplati
dai guerrieri dello spazio. Raccontando una storia di coabitazione, di
coevoluzione e di socialità incarnata e interspecifica, il presente manifesto
si chiede quale di queste due figure accostate alla bell’e meglio – i cyborg o
le specie compagne – possa contribuire in modo più proficuo a elaborare
politiche e ontologie vivibili nella realtà attuale. Queste figure sono
tutt’altro che antitetiche. Tanto i cyborg quanto le specie compagne combinano
in modi inaspettati l’umano e il non umano, l’organico e il tecnologico, il
carbonio e il silicio, […].
E, più avanti:
Tuttavia, le rappresentazioni cyborg
difficilmente esauriscono l’elaborazione metaforica necessaria per la
coreografia ontologica della tecnoscienza. Sono così giunta a considerare i
cyborg come fratelli minori della grande e strana famiglia delle specie
compagne, in cui le politiche biotecnologiche riproduttive sono generalmente
una sorpresa, a volte persino piacevole.
Sul piano femminista, il manifesto è
servito a «proporre un’interpretazione femminista delle implosioni della vita
contemporanea sotto l’effetto della tecnoscienza.»
Haraway contesta però la visione di quel
femminismo che ricerca un’identità “pura” o “naturale” della donna, sostenendo
invece la necessità di un femminismo pluralistico e inclusivo. In questo
contesto, la tecnologia non è vista solo come uno strumento di oppressione, ma
come potenziale terreno per nuove forme di relazione e agency.
L’Autrice critica anche l’idea che la
scienza possa essere neutrale o universale: sostiene invece che ogni forma di
conoscenza sia situata, ovvero influenzata dal contesto socio-culturale,
storico e politico di chi la produce. Invita a riconoscere il proprio
posizionamento e a sviluppare una conoscenza responsabile che tenga conto delle
relazioni di potere coinvolte nei processi di produzione del sapere.
Haraway contesta l’idea che la scienza sia una pura attività di scoperta della realtà. Al contrario, sostiene che essa sia costruita all’interno di reti di potere, ideologie e interessi economici. Analizza dunque il rapporto tra tecnologia e genere, evidenziando come i dispositivi tecnologici e le pratiche scientifiche siano spesso modellati da pregiudizi patriarcali.
In alternativa ai termini “Antropocene” e "Capitalocene", Haraway propone il “Chthulucene” per descrivere un’epoca in cui le relazioni simbiotiche tra specie vengono messe al centro della riflessione, prendendo i rifiuti e la forza distruttiva delle due espressioni precedenti per creare «un ammasso di compost molto più caldo e accogliente per tutti i passati, i presenti e i futuri ancora possibili».
Questo concetto enfatizza l’interconnessione tra tutte le forme di vita e la
necessità di coabitazione. Il termine strizza l’occhio alla creatura creata
dalla penna di Lovecraft, ma la grafia varia per un “h” mancante: il
riferimento primario è al termine greco “khthon”, che indica per estensione il
mondo sotterraneo opposto a Gea.
Il Chthulucene è l’era
dell’iperconnetività, della connessione profonda che sprona il soggetto a
intendere il pianeta come un sistema olistico, in cui l’essere umano è solo una
parte e non l’assoluto. In tal senso, ogni perdita, ogni estinzione va intesa
come un danno che si ripercuote sull’intero sistema.
Contrapposta all’autopoiesi dei modelli
sociali visti fino a questo momento, Haraway propone la simpoiesi, un sistema
in cui gli esseri viventi collaborino e co-evolvano. Nessuno è indipendente
dagli altri e la sopravvivenza è un atto collettivo (esco da una recente
lettura di Douglas Adams e, con una battuta, si potrebbe dire che i delfini di
cui scrive siano simpoietici, almeno con gli umani, ma sono questi a non
capirne i “segnali”).
Secondo Haraway, il pensiero moderno ha
privilegiato la centralità dell’essere umano a scapito delle altre specie.
Propone invece di considerare le relazioni tra umani, animali e tecnologia come
co-creative. Prima ho citato le “specie compagne”, termine che indica gli
animali domestici o altre forme di vita non umana: esse giocano un ruolo
centrale nella comprensione delle relazioni ecologiche e culturali.
Haraway adotta uno stile di scrittura che
mescola saggistica, narrativa e mitologia per creare un discorso che stimola
riflessioni innovative. Invece di cedere al pessimismo sul futuro del pianeta,
l’Autrice incoraggia la costruzione di storie che ispirino la collaborazione e
il cambiamento. Per queste ragioni, ha influenzato molteplici discipline, tra
cui la filosofia, gli studi di genere, la biologia, l’ecologia e la teoria
della tecnologia.
È un autentico peccato che di lei si parli
così poco nel nostro Paese, e perlopiù in àmbito accademico: vi invito quindi a
leggerla con la massima attenzione, soprattutto nei passaggi in cui vi sembrerà
di non condividerne le idee.
Bibliografia
Le citazioni che trovate in questo
articolo sono tratte dalle seguenti opere di Haraway, tradotte in italiano:
1. Haraway D. J., Chthulucene.
Sopravvivere su un pianeta infetto, Produzioni Nero, Roma, 2019.
2. Haraway D. J., Le promesse dei
mostri. Una politica rigeneratrice per l’alterità inappropriata,
DeriveApprodi, Roma, 2019.
3. Haraway D. J., Manifesto cyborg.
Donne, tecnologie e biopolitiche del corpo, Feltrinelli, Milano, 2023.
4. Haraway, D. J., Manifesto delle specie compagne. Cani, persone e altri partner, Contrasto, Roma, 2023.
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