Oriente e Occidente. Parte III
Per la seconda parte, si veda qui.
L’incontro tra due fedi
Il Corano è
scritto in arabo, di norma lingua ufficiale dei Paesi islamici, e il suo stile
fortemente melodico lo rende, secondo molti arabisti, intraducibile. Chi lo
recita in altre lingue farebbe un torto alla sua bellezza e renderebbe vana, o
comunque incompleta, la preghiera.
Pietro il
Venerabile (1092-1156), nono abate dell’abbazia di Cluny, si interessò alle
traduzioni del patrimonio arabo che avvenivano nella penisola iberica, dove
molte erano le fondazioni cluniacensi. La sua idea fu di offrire all’Occidente
un testo completo e preciso del Corano, per combattere con il raziocinio quella
che era in genere considerata un’eresia cristiana. Affidò il compito a due
traduttori, Ermanno di Carinzia e Roberto di Chester, affiancati da
collaboratori mussulmani e mozarabi. Ottenuto il testo intorno al 1140, Pietro
cercò di coinvolgere Bernardo di Chiaravalle per una confutazione, ma questi –
allora occupato con altri impegni – declinò l’invito. Pietro aveva però colto
la portata della dottrina islamica e l’influenza che questa esercitava
indirettamente sulla cultura che veniva trasmessa all’Occidente. Con ogni
probabilità scrisse una propria confutazione, puntando su un dialogo che
mirasse a far rientrare l’“eresia” nell’ortodossia cattolica.
In seguito alla
prima crociata e prima di questa traduzione, prese vita un discreto interesse
per l’Islām, ma di Maometto si raccontavano leggende assurde e denigratorie,
basate su dicerie e sulla polemistica bizantina, tutt’altro che imparziale.
Sullo sfondo di questo atteggiamento, non era escluso un certo odio etnico, al
di là del valore oggettivo della fede islamica. La verità era che fino al
principio del XII secolo, le conoscenze occidentali sull’Islām erano
praticamente inesistenti e la situazione era reciproca. Non mancavano certo i contatti
nella penisola iberica, ma nel contesto della Reconquista si vide negli Arabi un nemico fisico da combattere,
prima ancora che una fede. Da parte loro, i mussulmani sapevano qualcosa del
Cristianesimo grazie ai contatti con i Bizantini e, al principio, si
considerava il patriarca di Costantinopoli (e in parte l’imperatore d’Oriente)
come guida del Cristianesimo. In questo senso, le crociate servirono a mettere
in contatto diretto le due fedi, in un confronto che raramente non si tradusse
in uno scontro. Il fatto era – ed è – che tra la religione islamica e quella
cristiana vi è un’incompatibilità di fondo, che analizzeremo trattando solo
alcuni esempi significativi.
Prima
dell’Islām, l’antica religione della Mecca prevedeva un Dio supremo, ma non era
esclusa una schiera di divinità inferiori, che la predicazione islamica
considerò come idoli da combattere. Superati i confini della penisola arabica
grazie alla forza prorompente del nuovo credo, gli Arabi si trovarono di fronte
a due grandi imperi, bizantino e persiano, pronti a limitarne l’espansione.
Nato per una
rivelazione e affermatosi parallelamente all’avanzata militare araba, l’Islām
ebbe un rapporto diretto con la guerra. Con il termine ǧihād si designò quindi un ampio spettro di concetti, che muovevano
dalla lotta materiale (guerra santa) a quella spirituale per il perfezionamento
di sé. Sarebbe dannoso per la realtà delle cose affermare che il Corano si
riferisca solamente al secondo caso e sarebbe anzi strano pensare che per una
popolazione semi-nomade affacciatasi sulla scena mediorientale la guerra
materiale non fosse qualcosa di importante. Si può però dire senza difficoltà
che il Corano parli per lo più di guerra difensiva e che ricerchi la pace prima
che la sfida. «A coloro che sono stati aggrediti è data l’autorizzazione di
difendersi, perché certamente sono stati oppressi e, in verità, Dio ha la
potenza di soccorrerli» (XXII, 39); «Combattete per la causa di Dio contro
coloro che vi combattono, ma senza oltrepassare i limiti, poiché Dio non ama
coloro che eccedono» (II, 190). E per fugare le ambiguità sulla “guerra
preventiva”: «Se essi rimangono neutrali, non vi combattono e vi offrono la
pace, ebbene sappiate che Iddio non vi concede nulla contro di loro» (IV, 90).
Fatte queste
doverose precisazioni, i vari contesti storici che hanno riguardato l’Islām
hanno messo in risalto la discussione sulla ǧihād
a scapito del profondo messaggio spirituale che l’Islām contiene e che cercherò
perlomeno di introdurre.
La legge
islamica (sharī’a) prevede cinque
pilastri (arkān al-dīn), o pratiche
rituali [1]: la
professione di fede, la preghiera rituale, l’elemosina rituale, il digiuno e il
pellegrinaggio. La professione di fede (shahādah)
è la formula essenziale da recitare per divenire mussulmano: «Testimonio che
non c’è divinità se non Dio e testimonio che Maometto è il Suo Messaggero».
Formula ripetuta in più occasioni quotidiane, si ritrova anche nella preghiera
rituale (ṣalāt) [2], che
avviene cinque volte al giorno e in occasioni speciali, come il pellegrinaggio
(hajj) a La Mecca. Esso dev’essere
compiuto almeno una volta nella vita. I riti che lo compongono sono molti, ma
tutti mirano a un doppio obiettivo: glorificare Dio [3] e
purificare se stessi [4]. Uno
di questi riti è la circumambulazione, per sette volte in senso antiorario,
della Ka‘ba, il luogo più sacro
dell’Islām. Creata prima del mondo, la Ka‘ba
fu ricostruita da Abramo dopo il diluvio; Ismaele, tra i materiali rimasti,
trovò la pietra nera, che in origine era bianca, quando gli uomini non peccavano:
La pietra nera,
chiamata «mano destra di Dio», è la pietra angolare dell’universo. Dio la fece
scendere quando si decise a creare la terra. Su di essa, pietra su pietra, fu
costruito il mondo abitato. Adamo l’avrebbe portata fuori del paradiso terrestre,
come pegno dell’alleanza di Dio con gli uomini. Noè l’avrebbe salvata dal
diluvio. Gabriele l’avrebbe consegnata ad Abramo quando questi restaurava la ka‘bah. [5]
L’Islām – come è
ben noto – è fortemente contrario all’idolatria e al principio si caratterizzò
immediatamente per la lotta contro gli idoli arabi. La devozione alla Ka‘ba si ricollega piuttosto alla storia
di Maometto, che la baciò e da lì giunse alla “casa santificata”, in seguito
identificata con Gerusalemme, ma che indica propriamente l’ascesi spirituale.
Il pellegrinaggio a La Mecca si deve quindi interpretare non come un atto di
devozione idolatrico, ma come un’occasione per adorare Dio imitando la via
simbolica fondata dal Profeta e rispettandone la tradizione [6]. Vi
sono poi elementi del pellegrinaggio islamico che ricordano le esperienze dei
pellegrini cristiani. Per esempio, ancora oggi, è possibile delegare il
pellegrinaggio ad un’altra persona, se si è impediti dalla malattia [7].
Inoltre, oggi il viaggio verso La Mecca, nonostante i pericoli e le tensioni,
si svolge secondo tragitti molto più sicuri del passato, quando la condizione
dei viaggiatori era forse persino più precaria di quella dei pellegrini
cristiani. Secondo alcune fonti [8],
dazi, rapine e malattie erano la norma; ancora nel 1891, il 40% dei fedeli
moriva per le epidemie di colera e per i furti e fino al 1902 il 25% di loro
non tornava a casa (il 20% moriva, il 5% era ridotto in schiavitù).
Il terzo
precetto, l’elemosina rituale (zakāt),
è un’altra forma di purificazione, che nel Corano si caratterizza per esempio
con il pagamento di una decima: «Preleva sui loro beni una decima tramite la
quale li purifichi e li mondi e prega per loro, perché le tue preghiere saranno
un sollievo per loro. Dio ascolta e conosce» (IX, 103). Lo scopo di questo
prelievo è di sostenere la comunità mussulmana (umma) e di esprimere solidarietà e vicinanza a poveri, orfani e
vedove. Come Gesù si scagliò contro la “fede delle apparenze”, così il Corano
parla in proposito: «Guai a quelli che pregano e sono incuranti delle loro
orazioni, che le compiono per farsi vedere e rifiutano l’elemosina» (CVII,
4-7). Collegato a questi motivi, l’Islām condanna l’usura e invita a fare
elemosine e prestare aiuto agli indigenti.
Quarto precetto
è il digiuno (ṣawm), da compiersi per
trenta giorni nel mese lunare di Ramadan. Il digiuno è uno dei divieti, ma
sarebbe meglio parlare di una più generale astensione da cibi, profumi, rapporti
sessuali e altro ancora, che riportano quindi il precetto al suo aspetto
purificatorio. Ma al di là di queste privazioni, l’Islām non conosce un
ascetismo “strutturale” (come è invece per il Cristianesimo) e accetta nella
concezione dell’esistenza e dell’aldilà alcuni aspetti che per i cristiani sono
indicati come vizi e mondanità.
I sacramenti –
come li intende il Cristianesimo – sono rifiutati, poiché interpretati come
riti magici che “costringono” Dio all’azione, per cui si seguono i precetti
della Legge. Allo stesso modo, il prete è sostituito dal dottore della legge.
La sharī’a, quindi, contiene da un
lato i precetti per il perfezionamento di coloro che ad essa si affidano e
dall’altro rappresenta la gloria e la giustizia di Dio.
È perciò utile
analizzare il tema del libero arbitrio, per comprendere quanto la Legge
islamica influisca sulle scelte del fedele. Questa la potenza divina: «Dio! Non
v’è altro Dio che Lui, il Vivente, l’Assoluto. Non è mai preda del sopore né
del sonno. A Lui appartiene tutto ciò che è nei cieli e tutto ciò che è sulla
terra. Chi mai potrebbe intercedere presso di Lui senza il Suo permesso? Egli
conosce quello che è davanti a loro e quello che è dietro di loro e, della Sua
scienza, essi apprendono null’altro di ciò che Egli vuole. Il Suo Trono è più
vasto dei cieli e della terra, né lo stanca custodirli o vegliarli. Egli è
l’Altissimo, l’Immenso» (II, 256). L’Uomo si rivolge a lui per adorarlo e
ricevere in cambio quanto si merita: «Te noi adoriamo e a Te chiediamo aiuto.
Guidaci sulla retta via» (I, 5-6). Quella dell’Uomo non è una negativa e
passiva sottomissione a Dio, ma dev’essere intesa come una libera scelta di
abbandonarsi a Colui che tutto comprende (questo il significato profondo del
termine Islām).
In tal senso,
non mancano le vie per raggiungere questa integrazione
nel puro Essere: è, per esempio, l’umiliazione del monaco cristiano; è la mokṣa della spiritualità indiana, ovvero
una liberazione dal contingente, un abbandono all’Eterno Essere. Il teologo e
mistico persiano al-Ghazālī (1058-1111) sostenne che vi fossero tre gradi per
abbandonarsi a Dio: come a chi risponde ed è apprezzato per la propria
sapienza; come un bambino che si affida alla madre; come un cadavere tra le
mani di chi lava i morti, incapace di ogni volontà propria. «Lo stadio più
elevato è quest’ultimo» [9].
L’essere umano
non deve che seguire la via del perfezionamento di sé – così i cinque pilastri
assumono significato – che porta sempre al Bene, nel momento in cui se ne
conosce l’εἶδος – come predica il Socrate platonico – ovvero la “forma ideale”.
«Ogni bene che ti coglie viene da Dio e ogni male che ti coglie vien da te
stesso» (IV, 79). Per cui al contrario, il male non è che rinunciare a compiere
questa scelta di un cammino di purificazione; esso è assenza del Bene, cioè di
tutto ciò che realmente esiste. L’Uomo non deve contestare a Dio la libertà di
agire, ma individuare in sé quella libertà che i vizi incatenano:
Il bene morale,
liberamente compiuto, scaturisce dall’influsso creatore divino, mentre il male
morale, che ontologicamente è niente, ma che si inserisce nell’atto che lo
compie, deviandolo, non ha altra sorgente che la nullità dell’uomo. Dio non
«crea il male»; secondo una espressione classica, egli crea in noi il libero
modo di agire. [10]
Come ultimo tema
funzionale al discorso complessivo, vi è la figura di Cristo secondo l’Islām.
Per i mussulmani, Cristo fu uno dei massimi profeti; venuto prima di Maometto
(che è «l’Inviato di Dio e il sigillo dei profeti» XXXIII, 40), egli nacque
dalla Vergine; compì miracoli per volere divino; non morì in croce, ma ascese
al cielo. Una tradizione islamica racconta persino che Cristo si mosse dalla
Palestina all’India, morendo alla veneranda età di centoventi anni, nel
Kashmir. Considerato umano dall’Islām, Cristo è destinato a ritornare alla fine
dei tempi. Sulla sua umanità, il Corano è categorico, riferendosi all’essenza
di Dio: «Egli è Uno, Dio è l’Assoluto. Non generò, ne fu generato e nessuno è
pari a Lui» (CXII, 1-4). Da cui l’interpretazione medievale dell’Islām come
eresia, con particolare riferimento al nicolaismo, al nestorianesimo, al
monofisismo e al docetismo [11].
Aggiungo che, a
livello concettuale, è più semplice per un cristiano convertirsi all’Islām che
viceversa, poiché se i mussulmani riconoscono il Cristianesimo come religione
rivelata, pur considerandola “deviata” [12], i cristiani
non possono in ogni caso accettare il Corano come rivelazione e Maometto come
profeta: «se accettassero questo, i cristiani non avrebbero più motivo di
esistere» [13].
Ma, d’altra parte, il Corano invita i fedeli a dialogare con buone maniere con
la gente del Libro, a patto che anche loro mantengano un dialogo rispettoso:
«Crediamo in quello che è stato fatto scendere su di noi e in quello che è
stato fatto scendere su di voi, il nostro Dio e il vostro sono lo stesso Dio e
è a Lui che ci sottomettiamo» (XXIX, 46).
Alla luce di
queste nozioni e riflessioni, che offrono almeno una base di partenza per la conoscenza
dell’Islām, concludo ricordando il mistico persiano al-Ḥallaj (circa 858-922),
che ritengo abbia offerto a costo della vita un contributo fondamentale alla
comprensione della comunione spirituale tra cristiani e mussulmani. Al di là
dei discorsi teologici e dei particolarismi, che nulla hanno a che fare con
l’universalità dello Spirito.
Il soprannome
(per intero: al-Ḥallāj al-astar) significa “cardatore delle coscienze”: nacque
a Ṭūr, in Iran, e da giovanissimo imparò a memoria il Corano. Proseguì gli
studi presso le scuole dei sufi, ma all’ascetismo preferì la predicazione e il
contatto con le persone, che lo spinsero fino in India e in Cina. Inimicatosi
le autorità islamiche per l’eterodossia delle sue dottrine, fu arrestato a La
Mecca durante il terzo pellegrinaggio e finì in carcere per diversi anni, a
Baghdād. Ritornato in libertà, predicò fino al 922, anno in cui fu arrestato:
crocifisso e brutalmente torturato, morì a Baghdād e le sue ceneri furono
disperse dall’alto di un minareto. Prima di morire, un testimone riportò queste
sue parole: «Quelli stessi che sono tuoi servi, si sono riuniti per uccidermi,
per lo zelo del Tuo culto e per desiderio di avvicinarsi a Te. Perdonali!
Perché se Tu avessi svelato loro quello che hai svelato a me, non avrebbero
agito così: e se tu avessi nascosto al mio sguardo quello che hai sottratto al
loro, non subirei la prova che devo subire. Sia lode a Te per tutto ciò che
fai; sia lode a Te per ciò che decidi!» [14].
In vita, al-Ḥallaj
meditò sul Gesù coranico e il suo messaggio fu teso a comunicare l’Amore
divino. Egli seguì il cammino che porta a superare le apparenze e le
codificazioni della fede – e per questo dovette affiancare all’amore la
sofferenza – per dimostrare in prima persona la perfezione che risiede in tutte
le cose. Egli si abbandonò a tal punto a Dio, da poter affermare: «Sono
divenuto Colui che sono e Colui che amo è divenuto me. Siamo due spiriti infusi
in un solo corpo» [15]. E
il Sufismo, che influenzò gli studi di al-Ḥallaj, altro non è che una via di
ricerca mistica interna all’Islām, ma anche in questo caso, per le sue
posizioni estreme rispetto alla fede esplicita, ancora oggi non è sempre accolto
con favore dagli stessi mussulmani [16].
Pur restando
nell’alveo dell’Islām, al-Ḥallaj trasmise un messaggio universale. Se è vero
che vi è un’incompatibilità di fondo tra Cristianesimo e Islām, in realtà lo
Spirito di entrambe è il medesimo. Al di là delle forme, rimangono i concetti,
che sono molto più veritieri; e al di là dei concetti l’Eterno Essere, che
semplicemente è: «Una inclinazione
molto frequente dello spirito umano, o meglio della natura umana ferita dal
peccato, ci porta infatti, con più o meno consapevolezza da parte nostra, a
considerare chi non ha le nostre idee o la nostra stessa fede come un
avversario che occorre convincere d’errore e, di conseguenza, forzare ad
abbracciare la «nostra» verità» [17].
Questa è la causa effettiva di contrasto, ovvero, di fronte all’onnipotenza
divina, non accettare comunque un disegno che sia fatto a misura di un uomo, e
anzi nominalizzare tutto il Creato per evitare questa esclusione: «Chi pretende
appropriarsi della verità, proprio per questo ne oscura l’irradiazione» [18].
Il mondo
materiale è evidentemente segnato dalla molteplicità delle forme e dei
concetti. L’errore sembrerebbe risiedere nell’interpretazione di una
determinata forma o concetto come verità assoluta, senza considerare che
escludere l’esistenza delle altre possibilità del reale significa affidarsi a
un Dio limitato nel tempo e nello spazio. Gli antichi credi – pur conservando una
parte di verità – finirono nell’oblio anche per questa ragione; le grandi
religioni odierne, invece, sono di fronte a una sfida epocale nel confronto con
un tempo e uno spazio multiculturale e globalizzato. La realtà è che il
problema non esisterebbe se si guardasse oltre la forma e oltre i concetti, ma
è evidente che questa via non possa costituire un “sistema di massa”, poiché –
come disse Gesù – «stretta invece è la porta e angusta la via che conduce alla
vita, e quanto pochi sono quelli che la trovano!» [19],
come a dire che Dio, nelle sue manifestazioni, ha sempre conosciuto la
debolezza umana.
L’intellettuale
siriano Muḥammad Rashīd Riḍā (1865-1935), di tradizione islamica salafita,
dichiarò che la salvezza non nasceva per forza dalla religione di appartenenza,
ma era frutto «di una fede autentica e della sua azione sull’anima, come pure
delle opere che migliorano la condizione degli uomini» [20]. E
il Corano non è affatto estraneo a questo concetto: «Ad ognuno di voi abbiamo
assegnato una regola e una via. Mentre se Iddio avesse voluto, avrebbe fatto di
voi una sola Comunità. Vi ha voluto però provare con quel che vi ha dato.
Gareggiate dunque in opere buone perché tutti tornerete a Dio e allora Egli vi
informerà a proposito delle cose per le quali ora siete discordi» (V, 48).
Una simile coscienza dello Spirito Universale, tuttavia, è ancora molto lontana dall’essere accettata, tanto in Oriente quanto in Occidente. Nel frattempo, i particolarismi, gli interessi privati e ideologici provocano conflitti oggettivamente insanabili, poiché sono le fondamenta stesse ad essere inadeguate.
[1] Secondo interpretazioni minoritarie, i precetti sarebbero sei, con il ǧihād.
[2] Ritenuta obbligatoria, al contrario delle preghiere volontarie, legate a particolari richieste.
[3] Il nome di Allah è quello con cui Dio si definisce nel Corano, la cui radice indica appunto la “divinità”. Secondo la tradizione, Dio avrebbe novantanove nomi e chi li recita va in Paradiso. L’interpretazione potrebbe essere che realizzando (cioè nominando, nel suo significato evocatore) i nomi di Dio, il fedele possa prenderne coscienza e aspirare all’ascensione. Nel Sufismo, p. es., si discute sul centesimo nome, chiave per l’elevazione spirituale.
[4] «Il Pellegrinaggio si fa nei mesi già noti. Chi decide di assolverlo, si astenga dall’avvicinare le donne, dal commettere atti osceni e dai litigi. Iddio conosce il bene che fate. Fate provviste per il viaggio, ma la provvista migliore è il timor di Dio: temeteMi, o voi che siete dotati di sani intelletti» (II, 197).
[5] L. Tescaroli, Islam e Cristianesimo secondo i musulmani, E.M.I., Bologna, 1996, p. 148.
[6] Il mistico persiano al-Ḥallaj parlò a tal proposito dei sette giri da fare intorno alla Ka‘ba del cuore.
[7] «Compite, per amore di Dio, il Pellegrinaggio e la Visita. Ma se siete impediti a ciò, inviate un’offerta di quel che potete e non radetevi la testa prima che l’offerta sia giunta al luogo del sacrificio. Se però siete malati o avete un inconveniente alla testa, vi riscatterete con l’obbligo di un digiuno, con un’elemosina o con un’offerta sacrificale» (II, 196).
[8] Cit. in L. Tescaroli, Islam e Cristianesimo…, op. cit., p. 146.
[9] Cfr. L. Gardet, L’Islam e i Cristiani. Convergenze e differenze, Città Nuova Editrice, Roma, 1988, p. 47.
[10] Ivi, p. 69.
[11] Oltretutto, i mussulmani accettano quanto detto dal Vangelo di Barnaba, un apocrifo – probabilmente di epoca medievale – che attesta la natura umana di Gesù; il suo ruolo di precursore di Maometto; la morte per crocifissione di Giuda Iscariota, al suo posto.
[12] I cristiani avrebbero falsificato il Vangelo, modificandone il testo. E all’interno di un’errata interpretazione del messaggio di Cristo, si dovrebbe aggiungere anche l’altro grande problema, più difficile da accettare, ovvero la dottrina trinitaria, che i mussulmani interpretano come una forma di politeismo. Certamente, una maggiore apertura al dialogo da parte di entrambi aiuterebbe a far comprendere anche questa caratteristica cristiana.
[13] L. Tescaroli, Islam e Cristianesimo…, op. cit., p. 8.
[14] L. Gardet, L’Islam e i Cristiani…, op. cit., p. 154.
[15] Ivi, p. 172. Così Gv 17, 10: «Tutte le cose mie sono tue e tutte le cose tue sono mie, e io sono glorificato in loro».
[16] Le origini del Sufismo, o tasāwwuf, non sono certe: nacque probabilmente poco dopo la morte di Maometto, come via esoterica per imitare il Profeta; non è tuttavia esclusa una sua origine più antica, poi adattatasi alla forma islamica.
[17] L. Gardet, L’Islam e i Cristiani…, op. cit., p. 18.
[18] Ibidem.
[19] Mt 7, 14.
[20] L. Gardet, L’Islam e i Cristiani…, op. cit., p. 26.
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