Oriente e Occidente. Parte III

 

Per la seconda parte, si veda qui.


Maometto incontra i profeti Ismail, Is-hak e Lot in Paradiso;
dall'Apocalisse di Maometto (1436), scritta a Herat, Afghanistan
(Autore della rappresentazione ignoto;
opera conservata alla Bibliotheque Nationale, Parigi)
 

L’incontro tra due fedi

 

Il Corano è scritto in arabo, di norma lingua ufficiale dei Paesi islamici, e il suo stile fortemente melodico lo rende, secondo molti arabisti, intraducibile. Chi lo recita in altre lingue farebbe un torto alla sua bellezza e renderebbe vana, o comunque incompleta, la preghiera.

Pietro il Venerabile (1092-1156), nono abate dell’abbazia di Cluny, si interessò alle traduzioni del patrimonio arabo che avvenivano nella penisola iberica, dove molte erano le fondazioni cluniacensi. La sua idea fu di offrire all’Occidente un testo completo e preciso del Corano, per combattere con il raziocinio quella che era in genere considerata un’eresia cristiana. Affidò il compito a due traduttori, Ermanno di Carinzia e Roberto di Chester, affiancati da collaboratori mussulmani e mozarabi. Ottenuto il testo intorno al 1140, Pietro cercò di coinvolgere Bernardo di Chiaravalle per una confutazione, ma questi – allora occupato con altri impegni – declinò l’invito. Pietro aveva però colto la portata della dottrina islamica e l’influenza che questa esercitava indirettamente sulla cultura che veniva trasmessa all’Occidente. Con ogni probabilità scrisse una propria confutazione, puntando su un dialogo che mirasse a far rientrare l’“eresia” nell’ortodossia cattolica.

In seguito alla prima crociata e prima di questa traduzione, prese vita un discreto interesse per l’Islām, ma di Maometto si raccontavano leggende assurde e denigratorie, basate su dicerie e sulla polemistica bizantina, tutt’altro che imparziale. Sullo sfondo di questo atteggiamento, non era escluso un certo odio etnico, al di là del valore oggettivo della fede islamica. La verità era che fino al principio del XII secolo, le conoscenze occidentali sull’Islām erano praticamente inesistenti e la situazione era reciproca. Non mancavano certo i contatti nella penisola iberica, ma nel contesto della Reconquista si vide negli Arabi un nemico fisico da combattere, prima ancora che una fede. Da parte loro, i mussulmani sapevano qualcosa del Cristianesimo grazie ai contatti con i Bizantini e, al principio, si considerava il patriarca di Costantinopoli (e in parte l’imperatore d’Oriente) come guida del Cristianesimo. In questo senso, le crociate servirono a mettere in contatto diretto le due fedi, in un confronto che raramente non si tradusse in uno scontro. Il fatto era – ed è – che tra la religione islamica e quella cristiana vi è un’incompatibilità di fondo, che analizzeremo trattando solo alcuni esempi significativi.

Prima dell’Islām, l’antica religione della Mecca prevedeva un Dio supremo, ma non era esclusa una schiera di divinità inferiori, che la predicazione islamica considerò come idoli da combattere. Superati i confini della penisola arabica grazie alla forza prorompente del nuovo credo, gli Arabi si trovarono di fronte a due grandi imperi, bizantino e persiano, pronti a limitarne l’espansione.

Nato per una rivelazione e affermatosi parallelamente all’avanzata militare araba, l’Islām ebbe un rapporto diretto con la guerra. Con il termine ǧihād si designò quindi un ampio spettro di concetti, che muovevano dalla lotta materiale (guerra santa) a quella spirituale per il perfezionamento di sé. Sarebbe dannoso per la realtà delle cose affermare che il Corano si riferisca solamente al secondo caso e sarebbe anzi strano pensare che per una popolazione semi-nomade affacciatasi sulla scena mediorientale la guerra materiale non fosse qualcosa di importante. Si può però dire senza difficoltà che il Corano parli per lo più di guerra difensiva e che ricerchi la pace prima che la sfida. «A coloro che sono stati aggrediti è data l’autorizzazione di difendersi, perché certamente sono stati oppressi e, in verità, Dio ha la potenza di soccorrerli» (XXII, 39); «Combattete per la causa di Dio contro coloro che vi combattono, ma senza oltrepassare i limiti, poiché Dio non ama coloro che eccedono» (II, 190). E per fugare le ambiguità sulla “guerra preventiva”: «Se essi rimangono neutrali, non vi combattono e vi offrono la pace, ebbene sappiate che Iddio non vi concede nulla contro di loro» (IV, 90).

Fatte queste doverose precisazioni, i vari contesti storici che hanno riguardato l’Islām hanno messo in risalto la discussione sulla ǧihād a scapito del profondo messaggio spirituale che l’Islām contiene e che cercherò perlomeno di introdurre.

 

La legge islamica (sharī’a) prevede cinque pilastri (arkān al-dīn), o pratiche rituali [1]: la professione di fede, la preghiera rituale, l’elemosina rituale, il digiuno e il pellegrinaggio. La professione di fede (shahādah) è la formula essenziale da recitare per divenire mussulmano: «Testimonio che non c’è divinità se non Dio e testimonio che Maometto è il Suo Messaggero». Formula ripetuta in più occasioni quotidiane, si ritrova anche nella preghiera rituale (ṣalāt[2], che avviene cinque volte al giorno e in occasioni speciali, come il pellegrinaggio (hajj) a La Mecca. Esso dev’essere compiuto almeno una volta nella vita. I riti che lo compongono sono molti, ma tutti mirano a un doppio obiettivo: glorificare Dio [3] e purificare se stessi [4]. Uno di questi riti è la circumambulazione, per sette volte in senso antiorario, della Ka‘ba, il luogo più sacro dell’Islām. Creata prima del mondo, la Ka‘ba fu ricostruita da Abramo dopo il diluvio; Ismaele, tra i materiali rimasti, trovò la pietra nera, che in origine era bianca, quando gli uomini non peccavano:

 

La pietra nera, chiamata «mano destra di Dio», è la pietra angolare dell’universo. Dio la fece scendere quando si decise a creare la terra. Su di essa, pietra su pietra, fu costruito il mondo abitato. Adamo l’avrebbe portata fuori del paradiso terrestre, come pegno dell’alleanza di Dio con gli uomini. Noè l’avrebbe salvata dal diluvio. Gabriele l’avrebbe consegnata ad Abramo quando questi restaurava la ka‘bah[5]

 

L’Islām – come è ben noto – è fortemente contrario all’idolatria e al principio si caratterizzò immediatamente per la lotta contro gli idoli arabi. La devozione alla Ka‘ba si ricollega piuttosto alla storia di Maometto, che la baciò e da lì giunse alla “casa santificata”, in seguito identificata con Gerusalemme, ma che indica propriamente l’ascesi spirituale. Il pellegrinaggio a La Mecca si deve quindi interpretare non come un atto di devozione idolatrico, ma come un’occasione per adorare Dio imitando la via simbolica fondata dal Profeta e rispettandone la tradizione [6]. Vi sono poi elementi del pellegrinaggio islamico che ricordano le esperienze dei pellegrini cristiani. Per esempio, ancora oggi, è possibile delegare il pellegrinaggio ad un’altra persona, se si è impediti dalla malattia [7]. Inoltre, oggi il viaggio verso La Mecca, nonostante i pericoli e le tensioni, si svolge secondo tragitti molto più sicuri del passato, quando la condizione dei viaggiatori era forse persino più precaria di quella dei pellegrini cristiani. Secondo alcune fonti [8], dazi, rapine e malattie erano la norma; ancora nel 1891, il 40% dei fedeli moriva per le epidemie di colera e per i furti e fino al 1902 il 25% di loro non tornava a casa (il 20% moriva, il 5% era ridotto in schiavitù).

Il terzo precetto, l’elemosina rituale (zakāt), è un’altra forma di purificazione, che nel Corano si caratterizza per esempio con il pagamento di una decima: «Preleva sui loro beni una decima tramite la quale li purifichi e li mondi e prega per loro, perché le tue preghiere saranno un sollievo per loro. Dio ascolta e conosce» (IX, 103). Lo scopo di questo prelievo è di sostenere la comunità mussulmana (umma) e di esprimere solidarietà e vicinanza a poveri, orfani e vedove. Come Gesù si scagliò contro la “fede delle apparenze”, così il Corano parla in proposito: «Guai a quelli che pregano e sono incuranti delle loro orazioni, che le compiono per farsi vedere e rifiutano l’elemosina» (CVII, 4-7). Collegato a questi motivi, l’Islām condanna l’usura e invita a fare elemosine e prestare aiuto agli indigenti.

Quarto precetto è il digiuno (ṣawm), da compiersi per trenta giorni nel mese lunare di Ramadan. Il digiuno è uno dei divieti, ma sarebbe meglio parlare di una più generale astensione da cibi, profumi, rapporti sessuali e altro ancora, che riportano quindi il precetto al suo aspetto purificatorio. Ma al di là di queste privazioni, l’Islām non conosce un ascetismo “strutturale” (come è invece per il Cristianesimo) e accetta nella concezione dell’esistenza e dell’aldilà alcuni aspetti che per i cristiani sono indicati come vizi e mondanità.

I sacramenti – come li intende il Cristianesimo – sono rifiutati, poiché interpretati come riti magici che “costringono” Dio all’azione, per cui si seguono i precetti della Legge. Allo stesso modo, il prete è sostituito dal dottore della legge. La sharī’a, quindi, contiene da un lato i precetti per il perfezionamento di coloro che ad essa si affidano e dall’altro rappresenta la gloria e la giustizia di Dio.

È perciò utile analizzare il tema del libero arbitrio, per comprendere quanto la Legge islamica influisca sulle scelte del fedele. Questa la potenza divina: «Dio! Non v’è altro Dio che Lui, il Vivente, l’Assoluto. Non è mai preda del sopore né del sonno. A Lui appartiene tutto ciò che è nei cieli e tutto ciò che è sulla terra. Chi mai potrebbe intercedere presso di Lui senza il Suo permesso? Egli conosce quello che è davanti a loro e quello che è dietro di loro e, della Sua scienza, essi apprendono null’altro di ciò che Egli vuole. Il Suo Trono è più vasto dei cieli e della terra, né lo stanca custodirli o vegliarli. Egli è l’Altissimo, l’Immenso» (II, 256). L’Uomo si rivolge a lui per adorarlo e ricevere in cambio quanto si merita: «Te noi adoriamo e a Te chiediamo aiuto. Guidaci sulla retta via» (I, 5-6). Quella dell’Uomo non è una negativa e passiva sottomissione a Dio, ma dev’essere intesa come una libera scelta di abbandonarsi a Colui che tutto comprende (questo il significato profondo del termine Islām).

In tal senso, non mancano le vie per raggiungere questa integrazione nel puro Essere: è, per esempio, l’umiliazione del monaco cristiano; è la mokṣa della spiritualità indiana, ovvero una liberazione dal contingente, un abbandono all’Eterno Essere. Il teologo e mistico persiano al-Ghazālī (1058-1111) sostenne che vi fossero tre gradi per abbandonarsi a Dio: come a chi risponde ed è apprezzato per la propria sapienza; come un bambino che si affida alla madre; come un cadavere tra le mani di chi lava i morti, incapace di ogni volontà propria. «Lo stadio più elevato è quest’ultimo» [9].

L’essere umano non deve che seguire la via del perfezionamento di sé – così i cinque pilastri assumono significato – che porta sempre al Bene, nel momento in cui se ne conosce l’εἶδος – come predica il Socrate platonico – ovvero la “forma ideale”. «Ogni bene che ti coglie viene da Dio e ogni male che ti coglie vien da te stesso» (IV, 79). Per cui al contrario, il male non è che rinunciare a compiere questa scelta di un cammino di purificazione; esso è assenza del Bene, cioè di tutto ciò che realmente esiste. L’Uomo non deve contestare a Dio la libertà di agire, ma individuare in sé quella libertà che i vizi incatenano:

 

Il bene morale, liberamente compiuto, scaturisce dall’influsso creatore divino, mentre il male morale, che ontologicamente è niente, ma che si inserisce nell’atto che lo compie, deviandolo, non ha altra sorgente che la nullità dell’uomo. Dio non «crea il male»; secondo una espressione classica, egli crea in noi il libero modo di agire. [10]

 

Come ultimo tema funzionale al discorso complessivo, vi è la figura di Cristo secondo l’Islām. Per i mussulmani, Cristo fu uno dei massimi profeti; venuto prima di Maometto (che è «l’Inviato di Dio e il sigillo dei profeti» XXXIII, 40), egli nacque dalla Vergine; compì miracoli per volere divino; non morì in croce, ma ascese al cielo. Una tradizione islamica racconta persino che Cristo si mosse dalla Palestina all’India, morendo alla veneranda età di centoventi anni, nel Kashmir. Considerato umano dall’Islām, Cristo è destinato a ritornare alla fine dei tempi. Sulla sua umanità, il Corano è categorico, riferendosi all’essenza di Dio: «Egli è Uno, Dio è l’Assoluto. Non generò, ne fu generato e nessuno è pari a Lui» (CXII, 1-4). Da cui l’interpretazione medievale dell’Islām come eresia, con particolare riferimento al nicolaismo, al nestorianesimo, al monofisismo e al docetismo [11].

Aggiungo che, a livello concettuale, è più semplice per un cristiano convertirsi all’Islām che viceversa, poiché se i mussulmani riconoscono il Cristianesimo come religione rivelata, pur considerandola “deviata” [12], i cristiani non possono in ogni caso accettare il Corano come rivelazione e Maometto come profeta: «se accettassero questo, i cristiani non avrebbero più motivo di esistere» [13]. Ma, d’altra parte, il Corano invita i fedeli a dialogare con buone maniere con la gente del Libro, a patto che anche loro mantengano un dialogo rispettoso: «Crediamo in quello che è stato fatto scendere su di noi e in quello che è stato fatto scendere su di voi, il nostro Dio e il vostro sono lo stesso Dio e è a Lui che ci sottomettiamo» (XXIX, 46).

 

Alla luce di queste nozioni e riflessioni, che offrono almeno una base di partenza per la conoscenza dell’Islām, concludo ricordando il mistico persiano al-Ḥallaj (circa 858-922), che ritengo abbia offerto a costo della vita un contributo fondamentale alla comprensione della comunione spirituale tra cristiani e mussulmani. Al di là dei discorsi teologici e dei particolarismi, che nulla hanno a che fare con l’universalità dello Spirito.

Il soprannome (per intero: al-Ḥallāj al-astar) significa “cardatore delle coscienze”: nacque a Ṭūr, in Iran, e da giovanissimo imparò a memoria il Corano. Proseguì gli studi presso le scuole dei sufi, ma all’ascetismo preferì la predicazione e il contatto con le persone, che lo spinsero fino in India e in Cina. Inimicatosi le autorità islamiche per l’eterodossia delle sue dottrine, fu arrestato a La Mecca durante il terzo pellegrinaggio e finì in carcere per diversi anni, a Baghdād. Ritornato in libertà, predicò fino al 922, anno in cui fu arrestato: crocifisso e brutalmente torturato, morì a Baghdād e le sue ceneri furono disperse dall’alto di un minareto. Prima di morire, un testimone riportò queste sue parole: «Quelli stessi che sono tuoi servi, si sono riuniti per uccidermi, per lo zelo del Tuo culto e per desiderio di avvicinarsi a Te. Perdonali! Perché se Tu avessi svelato loro quello che hai svelato a me, non avrebbero agito così: e se tu avessi nascosto al mio sguardo quello che hai sottratto al loro, non subirei la prova che devo subire. Sia lode a Te per tutto ciò che fai; sia lode a Te per ciò che decidi!» [14].

In vita, al-Ḥallaj meditò sul Gesù coranico e il suo messaggio fu teso a comunicare l’Amore divino. Egli seguì il cammino che porta a superare le apparenze e le codificazioni della fede – e per questo dovette affiancare all’amore la sofferenza – per dimostrare in prima persona la perfezione che risiede in tutte le cose. Egli si abbandonò a tal punto a Dio, da poter affermare: «Sono divenuto Colui che sono e Colui che amo è divenuto me. Siamo due spiriti infusi in un solo corpo» [15]. E il Sufismo, che influenzò gli studi di al-Ḥallaj, altro non è che una via di ricerca mistica interna all’Islām, ma anche in questo caso, per le sue posizioni estreme rispetto alla fede esplicita, ancora oggi non è sempre accolto con favore dagli stessi mussulmani [16].

Pur restando nell’alveo dell’Islām, al-Ḥallaj trasmise un messaggio universale. Se è vero che vi è un’incompatibilità di fondo tra Cristianesimo e Islām, in realtà lo Spirito di entrambe è il medesimo. Al di là delle forme, rimangono i concetti, che sono molto più veritieri; e al di là dei concetti l’Eterno Essere, che semplicemente è: «Una inclinazione molto frequente dello spirito umano, o meglio della natura umana ferita dal peccato, ci porta infatti, con più o meno consapevolezza da parte nostra, a considerare chi non ha le nostre idee o la nostra stessa fede come un avversario che occorre convincere d’errore e, di conseguenza, forzare ad abbracciare la «nostra» verità» [17]. Questa è la causa effettiva di contrasto, ovvero, di fronte all’onnipotenza divina, non accettare comunque un disegno che sia fatto a misura di un uomo, e anzi nominalizzare tutto il Creato per evitare questa esclusione: «Chi pretende appropriarsi della verità, proprio per questo ne oscura l’irradiazione» [18].

Il mondo materiale è evidentemente segnato dalla molteplicità delle forme e dei concetti. L’errore sembrerebbe risiedere nell’interpretazione di una determinata forma o concetto come verità assoluta, senza considerare che escludere l’esistenza delle altre possibilità del reale significa affidarsi a un Dio limitato nel tempo e nello spazio. Gli antichi credi – pur conservando una parte di verità – finirono nell’oblio anche per questa ragione; le grandi religioni odierne, invece, sono di fronte a una sfida epocale nel confronto con un tempo e uno spazio multiculturale e globalizzato. La realtà è che il problema non esisterebbe se si guardasse oltre la forma e oltre i concetti, ma è evidente che questa via non possa costituire un “sistema di massa”, poiché – come disse Gesù – «stretta invece è la porta e angusta la via che conduce alla vita, e quanto pochi sono quelli che la trovano!» [19], come a dire che Dio, nelle sue manifestazioni, ha sempre conosciuto la debolezza umana.

L’intellettuale siriano Muḥammad Rashīd Riḍā (1865-1935), di tradizione islamica salafita, dichiarò che la salvezza non nasceva per forza dalla religione di appartenenza, ma era frutto «di una fede autentica e della sua azione sull’anima, come pure delle opere che migliorano la condizione degli uomini» [20]. E il Corano non è affatto estraneo a questo concetto: «Ad ognuno di voi abbiamo assegnato una regola e una via. Mentre se Iddio avesse voluto, avrebbe fatto di voi una sola Comunità. Vi ha voluto però provare con quel che vi ha dato. Gareggiate dunque in opere buone perché tutti tornerete a Dio e allora Egli vi informerà a proposito delle cose per le quali ora siete discordi» (V, 48).

Una simile coscienza dello Spirito Universale, tuttavia, è ancora molto lontana dall’essere accettata, tanto in Oriente quanto in Occidente. Nel frattempo, i particolarismi, gli interessi privati e ideologici provocano conflitti oggettivamente insanabili, poiché sono le fondamenta stesse ad essere inadeguate.


Nota: per la prima parte di questo articolo si veda qui. Su questo blog si trovano anche altri articoli di storia medievale, p. es. Il pellegrinaggio nel Medioevo (qui), Effetti e sviluppi delle crociate (qui), Il monachesimo e gli ordini cavallereschi in Friuli (qui). Per un approfondimento sul tema di questo post, incentrato però sul Confucianesimo, si veda Oriente e Occidente. Filosofia e globalizzazione (qui).


Bibliografia


° Alighieri D., La Divina Commedia, Rizzoli, Milano, 2009
° Cahen C., Oriente e Occidente ai tempi delle Crociate, Il Mulino, Bologna, 1986
° Gardet L., L'Islam e i Cristiani. Convergenze e differenze, Città Nuova Editrice, Roma, 1988
° Il Corano, Crescere Edizioni, Varese, 2012
° La Sacra Bibbia, Edizione ufficiale della CEI, Roma, 1983
° Montanari M., Alimentazione e cultura nel Medioevo, Laterza, Bari, 1988
° Schipperges H., Il giardino della salute. La medicina nel Medioevo, Garzanti, Milano, 1988
° Schuon F., Unità trascendente delle religioni, Edizioni Mediterranee, Roma, 1997
° Tescaroli L., Islam e Cristianesimo secondo i musulmani, E.M.I., Bologna, 1996
° Tyerman C., Le guerre di Dio, Einaudi, Torino, 2012
° Wolff P., Storia e cultura del medioevo dal secolo IX al XII, Laterza, Bari, 1973
° Haskins C. H., La rinascita della scienza, in del Torre M. A. (a cura di), Interpretazioni del Medioevo, Il Mulino, Bologna, 1979


[1] Secondo interpretazioni minoritarie, i precetti sarebbero sei, con il ǧihād.

[2] Ritenuta obbligatoria, al contrario delle preghiere volontarie, legate a particolari richieste.

[3] Il nome di Allah è quello con cui Dio si definisce nel Corano, la cui radice indica appunto la “divinità”. Secondo la tradizione, Dio avrebbe novantanove nomi e chi li recita va in Paradiso. L’interpretazione potrebbe essere che realizzando (cioè nominando, nel suo significato evocatore) i nomi di Dio, il fedele possa prenderne coscienza e aspirare all’ascensione. Nel Sufismo, p. es., si discute sul centesimo nome, chiave per l’elevazione spirituale.

[4] «Il Pellegrinaggio si fa nei mesi già noti. Chi decide di assolverlo, si astenga dall’avvicinare le donne, dal commettere atti osceni e dai litigi. Iddio conosce il bene che fate. Fate provviste per il viaggio, ma la provvista migliore è il timor di Dio: temeteMi, o voi che siete dotati di sani intelletti» (II, 197).

[5] L. Tescaroli, Islam e Cristianesimo secondo i musulmani, E.M.I., Bologna, 1996, p. 148.

[6] Il mistico persiano al-Ḥallaj parlò a tal proposito dei sette giri da fare intorno alla Ka‘ba del cuore.

[7] «Compite, per amore di Dio, il Pellegrinaggio e la Visita. Ma se siete impediti a ciò, inviate un’offerta di quel che potete e non radetevi la testa prima che l’offerta sia giunta al luogo del sacrificio. Se però siete malati o avete un inconveniente alla testa, vi riscatterete con l’obbligo di un digiuno, con un’elemosina o con un’offerta sacrificale» (II, 196).

[8] Cit. in L. Tescaroli, Islam e Cristianesimo…, op. cit., p. 146.

[9] Cfr. L. Gardet, L’Islam e i Cristiani. Convergenze e differenze, Città Nuova Editrice, Roma, 1988, p. 47.

[10] Ivi, p. 69.

[11] Oltretutto, i mussulmani accettano quanto detto dal Vangelo di Barnaba, un apocrifo – probabilmente di epoca medievale – che attesta la natura umana di Gesù; il suo ruolo di precursore di Maometto; la morte per crocifissione di Giuda Iscariota, al suo posto.

[12] I cristiani avrebbero falsificato il Vangelo, modificandone il testo. E all’interno di un’errata interpretazione del messaggio di Cristo, si dovrebbe aggiungere anche l’altro grande problema, più difficile da accettare, ovvero la dottrina trinitaria, che i mussulmani interpretano come una forma di politeismo. Certamente, una maggiore apertura al dialogo da parte di entrambi aiuterebbe a far comprendere anche questa caratteristica cristiana.

[13] L. Tescaroli, Islam e Cristianesimo…, op. cit., p. 8.

[14] L. Gardet, L’Islam e i Cristiani…, op. cit., p. 154.

[15] Ivi, p. 172. Così Gv 17, 10: «Tutte le cose mie sono tue e tutte le cose tue sono mie, e io sono glorificato in loro».

[16] Le origini del Sufismo, o tasāwwuf, non sono certe: nacque probabilmente poco dopo la morte di Maometto, come via esoterica per imitare il Profeta; non è tuttavia esclusa una sua origine più antica, poi adattatasi alla forma islamica.

[17] L. Gardet, L’Islam e i Cristiani…, op. cit., p. 18.

[18] Ibidem.

[19] Mt 7, 14.

[20] L. Gardet, L’Islam e i Cristiani…, op. cit., p. 26.

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