Guerra, tempo e umanità in Mattatoio n. 5
Copertina della prima edizione |
A Dresda, durante la seconda guerra
mondiale, i prigionieri americani vennero condotti allo Schlachthot-Fünf, il Mattatoio
n. 5 (Slaughterhouse-Five, 1969) di Kurt Vonnegut.
Un titolo alternativo dell’opera allude
alla crociata dei fanciulli dell’epoca medievale, con giovani che finirono in
schiavitù o che morirono di stenti in nome di una profezia truffaldina.
Vonnegut paragona i soldati a uomini-bambini, gettati in qualcosa di più grande
di loro – la guerra – tanto tragica da risultare inesprimibile, se non
attraverso la maschera dell’ironia.
Nel romanzo ci sono elementi
autobiografici: a ventidue anni, l’Autore venne fatto prigioniero nella
battaglia delle Ardenne e condotto proprio a Dresda. Era presente quando avvenne
il bombardamento che rase al suolo la città nel febbraio 1945, provocando circa
venticinquemila vittime civili.
La voce del narratore – come dice egli stesso
– può essere associata a quella dello scrittore. Il protagonista, Billy
Pilgrim, è stato modellato su Edward “Joe” Crone, un soldato morto a Dresda,
conosciuto da Vonnegut. E Edgar Derby, il militare giustiziato per aver
saccheggiato una teiera, richiamava Mike Palaia, compagno di prigionia dello
scrittore, a cui toccò per davvero quella fine.
Per la sua critica all’insensatezza della
guerra, l’opera conobbe un notevole successo nei circoli sessantottini. La figura
di Vonnegut è però difficile da inquadrare in uno specifico contesto socio-politico.
Come ogni persona, viveva le sue contraddizioni: dopo aver sposato le tesi
isolazioniste di Charles Lindbergh, partì volontario per la seconda guerra
mondiale, per poi diventare un antieroe del conflitto in Vietnam. Pacifista,
aveva investito nelle azioni della Dow Chemical, l’azienda produttrice del
napalm (a sua insaputa, secondo il suo manager, Donald C. Farber).
Stando al parere di alcuni biografi,
inoltre, Vonnegut soffriva di disturbo post-traumatico da stress (PTSD),
affrontato attraverso la scrittura. E la civiltà aliena presente nel romanzo
potrebbe essere intesa proprio come un’allucinazione post-traumatica. All’epoca
in cui scrisse Slaughterhouse-Five, non si parlava ancora di questo
disturbo, ma una delle figlie, Nanette, ha ricordato alcuni sintomi del padre:
continui flashback (simili ai salti temporali del personaggio di Billy,
incapace di rimanere ancorato alla realtà), insonnia, episodi dissociativi,
forte emotività. Nanette affermò: «Stava scrivendo per salvarsi la vita, e nel
farlo penso che abbia salvato molte vite.»
Romanzo semi-autobiografico, storico,
fantascientifico, filosofico, ma anche pamphlet satirico e operazione di
self-authoring: tutti questi elementi concorrono a definire la natura esclusiva
e indipendente di Slaughterhouse-Five.
All’epoca della sua pubblicazione, il
libro ottenne, in generale, buone recensioni. Fu nominato come miglior romanzo
per i Nebula e gli Hugo Awards, ma perse contro The Left Hand of Darkness
di Ursula K. Le Guin.
Negli anni, l’opera ha conosciuto anche diverse
censure nei corsi di letteratura e nelle biblioteche scolastiche, per il tono
irriverente e i contenuti ritenuti osceni.
A livello di critica, molti si sono
soffermati sul carattere “quietista” del romanzo, dato che per Billy Pilgrim,
influenzato dal pensiero tralfamadoriano, il libero arbitrio rappresenterebbe
una stranezza tipica dell’essere umano. A suo dire, le cose vanno come devono
andare («So it goes.» è un mantra ricorrente nel libro) e non ci resta
che accettarle. Questo aspetto è presente e pervasivo, ma più che una
convinzione filosofica dell’Autore, mi è sembrata l’espressione di un uomo addolorato,
in cerca di una spiegazione e di un briciolo di pace.
L’antiguerra
Il vecchio mattatoio di Dresda |
È vero: c’è tanta ironia in Slaughterhouse-Five,
mescolata a bizzarrie e stranezze. Ma anche tanto realismo: «[…] i carri merci
rimanevano ben chiusi. Nessuno doveva uscire finché non fossero arrivati a
destinazione. Per le guardie che là fuori andavano su e giù, ogni vagone
divenne un singolo organismo che mangiava e beveva ed evacuava attraverso le
prese d’aria. Che parlava, e certe volte urlava, sempre attraverso le prese
d’aria. Vi entravano acqua, forme di pane nero, salsicce e formaggio, e ne
uscivano merda, piscio e parole.»
Questo è solo uno dei tanti brani dal
forte impatto visivo, che trae ispirazione da un dato reale, particolare, per
estenderlo a una condizione di degrado complessivo.
È a seguito di tali esperienze che Billy
inizia a chiedersi “perché”. E rende esplicita la domanda quando viene rapito dalla
razza aliena dei tralfamadoriani: «Perché proprio io?» E gli alieni non
capiscono il problema: non c’è un motivo specifico, perché «questo momento
semplicemente è» e ogni essere vivente non è che un insetto
intrappolato nell’ambra. «Non c’è nessun perché.» conclude l’alieno.
Leggendo questi passaggi e il modo in cui
Billy si fa condizionare dal pensiero tralfamadoriano, non ho potuto non
pensare al protagonista di Cat’s Cradle – capolavoro di Vonnegut – che
trova conforto nel culto di Bokonon, una dichiarata bugia a cui gli adepti
scelgono di credere per non dover affrontare la cruda (e inevitabile) realtà.
In tutto ciò, non riesco a convincermi che
l’Autore fosse una persona rassegnata. Certo combatteva contro se stesso, ma, a
differenza di quegli scrittori che cercarono conforto nella spiritualità
orientale (J. D. Salinger, Jack Kerouac, etc.), Vonnegut trovò una personale
chiave di lettura. Per assurdo, il pensiero tralfamadoriano e il bokononismo finiscono
per avvicinarsi a concetti indù come karma, dharma, prakṛti e al rapporto tra azioni
e guṇa.
Un abitante di Tralfamadore dice a Billy: «Siamo
dove dobbiamo essere in questo momento, […]», un po’ come Arjuna, nella Bhagavadgītā,
si trova sul campo di battaglia a dover fronteggiare i propri familiari. Al
condottiero non viene chiesto di provare piacere a combattere quella guerra, ma
di accettare la necessità (anánkē avrebbero
detto i greci, o Hugo). Una necessità che talvolta ci catapulta in situazioni assurde
o inenarrabili e in cui la nostra azione deve tendere a essere il più possibile
consapevole.
I tralfamadoriani sanno persino come
finirà l’universo: sarà a causa loro, per un esperimento fallito sui combustibili
dei dischi volanti. Tutto verrà deciso da uno starter. La domanda sorge
spontanea al protagonista: perché, allora, non impedirlo? L’alieno risponde che
ciò accadrà per sempre: «Il momento è strutturato così.»
Billy prova a rapportare questa esperienza
alla vita umana e si rende conto di quanto sia stupida l’idea di voler impedire
le guerre sulla Terra. Eppure, i tralfamadoriani ci sono riusciti,
semplicemente contemplando i momenti piacevoli: «C’è una cosa che i terrestri
potrebbero imparare a fare, se davvero si sforzassero: ignorare i brutti
momenti e concentrarsi su quelli buoni.»
La risposta però non sembra convincere lo
scrittore e l’ineluttabilità torna a prevalere. Vonnegut cita uno dei libri dello
scrittore immaginario Kilgore Trout, in cui un uomo viaggiava in una macchina
del tempo fino all’epoca di Gesù. Il viaggiatore vide il dodicenne Gesù mentre
lavorava nella bottega del padre falegname. Due soldati romani portarono il
progetto di una croce, pensata per l’esecuzione di un agitatore. La costruirono,
soddisfatti di aver ricevuto una commissione, e il condannato morì su quella
croce: come a dire che nessuno può sapere dove ti porterà una decisione. O puoi
saperlo, accettandolo alla maniera di Gesù, una sorta di tralfamadoriano nelle
vesti di uomo.
Letta in questa maniera, è vero che Vonnegut
mette in luce la natura ridicola della guerra, ma non abbraccia nemmeno un
pacifismo troppo facile. Attraverso il personaggio di Harrison Starr, un
produttore cinematografico, Vonnegut è chiaro: «Quello che voleva dire,
naturalmente, era che ci saranno sempre guerre, che impedire una guerra è
facile come fermare un ghiacciaio. E lo credo anch’io. E poi, anche se le
guerre non fossero come i ghiacciai, ci sarebbe sempre la morte, la morte pura
e semplice.» In una parola: anánkē.
Tutto ciò ha una conseguenza importante:
il bene e il male non sono mai termini assoluti. Il padre di Billy, prima di
morire, dice al figlio di non aver mai letto un suo racconto con un cattivo. E
Billy risponde che era quanto aveva imparato dopo la guerra, alla facoltà di Antropologia
dell’Università di Chicago.
Questo non significa che si debba
accettare tutto in maniera apatica: la guerra rimane uno schifo e Vonnegut
prende le distanze da quella letteratura e da quella filmografia che,
attraverso personaggi e attori eroici come John Wayne, finiscono per far
sembrare la guerra «qualcosa di meraviglioso».
Dove l’umanità osa
Un tralfamadoriano (crediti incerti) |
Il protagonista di Cat’s Cradle
afferma di essere stato cristiano, prima di convertirsi al bokononismo. Billy,
invece, non era cattolico, per quanto fosse cresciuto «con uno spaventoso
crocifisso appeso al muro». Il padre non era religioso, mentre la madre
era alla ricerca di una chiesa giusta per sé, senza peraltro mai trovarla: «Ma
le venne una gran voglia di un crocifisso, e se ne
comprò uno in un negozio di regali di Santa Fe durante un viaggio che la
famigliola fece nel West al tempo della Grande Crisi. Come tanti altri
americani, cercava di costruirsi una vita che avesse un senso con le cose che
trovava nei negozi di regali.»
Come abbiamo potuto capire, a Vonnegut le
risposte facili non piacciono. A contatto con il pensiero tralfamadoriano,
Billy apprende che la morte di una persona sia solo apparente e che essa
continui a vivere altrove, poiché «Passato, presente e futuro sono sempre
esistiti e sempre esisteranno.» Ma i tralfamadoriani sono dotati di un
superpotere: hanno la capacità di osservare il momento specifico di una
determinata esistenza. In questo modo, niente trascorre mai per essere
dimenticato.
Inoltre, questi alieni comunicano attraverso
simboli che, visti insieme, producono «un’immagine della vita che sia bella,
sorprendente e profonda. Non c’è principio, parte di mezzo o fine, non c’è
suspense, né morale, né cause ed effetti. Quello che amiamo nei nostri libri è
la profondità di molti momenti meravigliosi visti tutti in una volta.»
L’umanità, però, non conosce questi superpoteri,
degni di un grande mistico, e Vonnegut ne è conscio. La civiltà di Tralfamadore
è ideale, nel vero senso della parola, ma non per forza utopistica. L’umanità
ha altre caratteristiche che la rendono unica.
Lo scrittore riprende la storia biblica di
Sodoma e Gomorra. Lì viveva «gente spregevole» e il mondo sarebbe stato «meglio
senza di loro». Alla moglie di Lot fu detto di non voltarsi, ma
disubbidì e – come dice Vonnegut – «per questo io le voglio bene: perché fu un
gesto profondamente umano.» Un misto di curiosità e di pietà.
Il pregio della sua scrittura è che ti
libera dalla tentazione di cedere ai libri facili del gurismo in stile Tolle: basta
Vonnegut per comprendere tutto il valore del momento vissuto qui e ora.
I gesti di umanità in Slaughterhouse-Five
compaiono come perle nel fango del mattatoio dei maiali. Un altro grande
esempio è la ribellione del soldato Derby, professore di liceo in prigionia,
che si rifiuta di prendere parte al corpo di soldati americani che avrebbe
dovuto combattere dalla parte dei nazisti contro i sovietici. Per tutta l’opera,
Vonnegut ci ammonisce sul fatto che in guerra non ci siano eroi, ma solo tanta miseria:
«Uno dei principali effetti della guerra è, in fondo, che la gente è
scoraggiata dal farsi personaggio. Ma il vecchio Derby diventò un personaggio
in quel momento.» Alzatosi in piedi, «Derby parlò con entusiasmo della
forma di governo americana, della libertà, della giustizia, delle opportunità e
del fair play che garantiva a tutti. Disse che non c’era un uomo, fra loro, che
non sarebbe stato contento di morire per quegli ideali.»
Il romanzo è impregnato in ogni pagina
dalla compassione di Vonnegut. E l’indagine sul libero arbitrio che conduce
rende giustizia all’approccio frammentario del postmodernismo, che aveva
smarrito ogni coordinata esistenziale. Per certi versi, molte opere di Vonnegut
presentano i contorni di un gioco: sono come un librogame ante-litteram, in cui
più che esplorare le alternative si viaggia nel tempo e nelle possibilità, e
non si giunge mai, per davvero, a una conclusione.
C’è poi, soprattutto, speranza. Nel
finale, nella primavera nel cuore del protagonista, che è la testimonianza di
come la malvagità non sia il tratto distintivo di ogni essere umano. Gli
uccelli emettono quel suono, «Poo-tee-weet», che suona come una
parodia del canto dei pinguini lovecraftiani. Non ci sono più divinità da evocare,
solo versi inadeguati con cui cerchiamo di dare un senso alle nostre sciagure.
Bibliografia e consigli di lettura
° Ackerman E., Did Kurt Vonnegut have PTSD? And Does Slaughterhouse-Five Prove It?, The Washington Post, 07.01.2022
° Crescenzo M., Kurt Vonnegut, l’assurdità e l’ironia della vita raccontata anche alla sua morte, La Voce di New York, 28.01.2022
° Jack M., From Dresden on the 50th Anniversary of ‘Slaughterhouse-Five’, The New York Times, 21.03.2019
° Powers K., The Moral Clarity of Sluaghterhouse-Five’ at 50, The New York Times, 06.03.2019
° Manera L., Il conservatore Vonnegut padre ideologico della sinistra americana, Corriere.it, 28.11.2011
° Redazione, The First Reviews of Slaughterhouse-Five, Book Mark, 11.11.2020
° Rushdie S., What Kurt Vonnegut’s “Slaughterhouse-Five” Tells Us Now, The New Yorker, 13.06.2019
° Wordsworth C., Slaughterhouse-Five Review. Archive 1970, The Guardian, 19.03.2019
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