Lo zombie di Oates è un Renfield robotizzato
Il romanzo Zombie di Joyce Carol
Oates, edito in Italia da Il Saggiatore, è stato pubblicato nel 1995.
Il protagonista della vicenda, Quentin P,
cerca di creare uno zombie da una giovane vittima maschile. La storia è
incentrata su questa ricerca: come uno scienziato pazzo, Quentin rapisce e
sottopone a interventi chirurgici le proprie vittime. Inutile dire che gli
esperimenti falliscono miseramente, mentre il protagonista vede crescere in sé
il piacere dell’omicidio fine a se stesso.
Quentin è un ragazzo frustrato sotto ogni
punto di vista, con una famiglia che ha i suoi problemi, certo, ma che lui
finisce per ingigantire oltremisura, quasi a cercare una giustificazione alle
proprie azioni.
L’Autrice ci porta nella sua mente malata
e al lettore viene chiesto un grande sforzo di immedesimazione. Quentin,
infatti, racconta la propria vicenda come se scrivesse in un diario, con frasi
brevi, incisive, in un linguaggio che include molti elementi dello slang.
Il giovane è lucido, ma è incapace di
provare emozioni, tantomeno empatia. Al contempo, non ci dice tutta la verità:
è un manipolatore, persino con se stesso, per cui possiamo solo intravedere tra
le righe i fatti reali, per esempio nei racconti del tribunale. Per il resto,
siamo immersi in un delirante oceano di pulsioni sessuali e omicide.
Oates ha la capacità di veicolare un
contenuto così crudo in uno stile incredibilmente scorrevole, che ti permette
di divorare decine e decine di pagine in poco tempo. D’altra parte, il libro ha
ottenuto un premio Bram Stoker e ha ricevuto un adattamento teatrale, poi
trasformato da Tom Caruso in un cortometraggio.
Ciò nonostante, dopo una ventina d’anni
dalla sua pubblicazione, Zombie mi è parso un poco superato. Il romanzo
è ispirato alla vita del noto serial killer Jeffrey Dahmer, sul quale sono state
create decine tra serie tv, documentari, film e saggi.
La vasta diffusione odierna del true
crime rende ormai Zombie un romanzo prevedibile e privo di elementi
abbastanza forti da farlo spiccare. E questo al netto del fatto che di scene
raccapriccianti ce ne siano parecchie,
Il punto di forza del libro risiede,
invece, nella metafora sociale. Quentin sembra rappresentare in forma iper-individualizzata
il riflesso di una società americana che in effetti, tra gli anni Quaranta e
Cinquanta, ha creato zombie a volontà attraverso la lobotomia, per poi passare
ai farmaci e a una forma di lobotomia più “evoluta”, per così dire. È questa
società delle dipendenze a cui Quentin stesso aderisce, in definitiva, col suo
stile di vita.
Un ultimo elemento che mi ha fatto
riflettere è la contrapposizione tra la figura dello zombie di Oates e il personaggio
di R. M. Renfield, servo nel Dracula di Bram Stoker.
In teoria, tra i due potrebbero
instaurarsi alcuni parallelismi, ma a ben pensarci Renfield è una persona che
alterna fasi di delirio e di lucidità. È dipendente da Dracula e ciò lo
devasta, quando ne è cosciente: il film Renfield (2023), peraltro, ruota
proprio intorno a questo concetto, che oggi decliniamo nella formula della “relazione
tossica”. Nel personaggio letterario, però, tale meccanismo di dipendenza serve
anche ad alimentare, o a giustificare, il desiderio del servo di vivere per
sempre nutrendosi delle anime di altre creature.
Al contrario, lo zombie che vorrebbe
creare Quentin è un servo la cui coscienza è stata del tutto annientata. In lui
non sopravvivrebbe alcun residuo di anima, nessuna sensazione di dolore o di sofferenza:
sarebbe vuoto, senz’anima, più simile a un robot. Non potrebbe davvero amare e,
alla fine, a Quentin verrebbe a noia quel suo stesso giocattolo.
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