Untitled. Un viandante nella città di K.
Ungherese di nascita, svizzera d’adozione,
Ágota Kristóf aveva un padre insegnante
di scuola elementare e una madre professoressa d’arte. A ventun anni, a seguito
della rivoluzione anticomunista del 1956, lasciò il suo Paese e giunse, infine,
nella città svizzera di Neuchâtel, dove si trasferì con la figlia di quattro
mesi e con il marito, suo ex insegnante di storia al liceo.
Dopo cinque anni difficili, scelse di
lasciare il marito e il lavoro in una fabbrica di orologi. Studiò il francese e
si diede alla scrittura in quella lingua. Kristóf aveva
già scritto i primi testi in Ungheria, ma fu nel 1986 che si fece notare con Le
grand cahier (Il grande quaderno), principio della Trilogie des
jumeneaux (in Italia nota come Trilogia della città di K.), che
prosegue con La preuve (La Prova, 1988) e Le troisième mensonge
(La terza menzogna, 1991).
Il primo romanzo le è valso il premio
europeo per la letteratura francese; nel 2001, in Svizzera, ha vinto il
Gottfried Keller Award; nel 2008, il Premio statale austriaco per la
letteratura europea.
Il quarto romanzo, Hier (Ieri,
1995), è un’opera vagamente autobiografica, mentre L’analphabète (L’analfabeta,
2004) è un libro di memorie, seguìto da altri testi più brevi, preludio all’allontanamento
volontario dalla scrittura degli ultimi anni.
Nei suoi scritti, ricorre lo strazio della
non appartenenza, di un’identità smarrita e mai ritrovata, l’ipotesi di ciò che
avrebbe potuto essere. Nella trilogia, a ciò si aggiungono altri temi: le
conseguenze della guerra sulla vita quotidiana, la perdita dell’innocenza e il
ricorso costante alla violenza, il rapporto di incomunicabilità tra verità e
finzione.
Primo
atto
Le
grand cahier è la
parte più ispirata della trilogia: è quell’idea che nasce spontanea, di getto,
per raccontare un turbamento interiore in grado di essere condiviso dai più. È la
storia di due gemelli che vivono nell’Europa orientale durante la seconda
guerra mondiale e che vengono affidati alla nonna materna.
I
riferimenti spaziali e temporali sono però vaghi: dal punto di vista interno
alla vicenda, questo dipende dal fatto che è come se vedessimo il mondo dalla
prospettiva dei due bambini, con quella prima persona plurale che a sua volta è
una possibile astrazione, a indicare una gioventù perduta a causa della guerra.
Dal punto di vista esterno, è una soluzione narrativa che consente di rendere
universali le circostanze di una condizione atavica per l’umanità, quella della
guerra.
Accanto
a questo macro-tema, ce ne sono molti altri: la pedofilia, l’abilismo, il
suicidio, l’omosessualità, la genitorialità pressoché inesistente. L’insieme
conduce all’abolizione de facto dell’infanzia, a tal punto che ogni
valore genericamente attribuito a essa – come l’innocenza – viene meno.
Le
gran cahier
potrebbe essere un durissimo romanzo di formazione, ma in realtà è più simile a
una fiaba nera alla Grimm, poiché il cammino di maturazione dei protagonisti
viene annientato sul nascere. Proprio la nota nichilista si fa strada nella
trilogia, fino a pervadere l’ultimo, disperato, capitolo.
I
gemelli studiano da soli, lavorano molto e si sottopongono a esercitazioni
autolesioniste per rendersi più forti. Annotano tutto nel quaderno che dà vita
al titolo.
Dalla
loro scrittura, emerge uno stile caratterizzato da frasi brevi, con periodi che
di rado prevedono subordinate. Non c’è spazio per il lirismo: la prosa di Kristóf
è come la raffica di una mitraglia, che spara singoli colpi all’impazzata e
provoca una carneficina.
A
pagarne le spese, la piccola umanità di cui parla. I gemelli adottano una serie
di tecniche, che prevedono il digiuno, la messa in pratica di azioni crudeli,
l’immobilità, la vita da sordi e da ciechi, l’accattonaggio, l’irrobustimento
del corpo (picchiandosi a vicenda) e dello spirito (insultandosi o persino
dicendosi frasi dolci, quelle che gli diceva la madre).
Ciascun
esercizio ha uno scopo ben preciso: l’accattonaggio, per esempio, serve a
vedere la reazione delle persone alla miseria, in modo tale da capire come
approfittarne con astuzia. L’irrobustimento dello spirito è però la pratica più
de-umanizzante: «A forza di ripeterle, le parole a poco a poco perdono il loro
significato e il dolore che portano si attenua.»
I
due diventano indifferenti sia alle parole d’odio che a quelle amorevoli. Da quel
momento, non esiste codice linguistico che sappia esprimere la verità del loro
vissuto. Tutto si fa potenziale menzogna. Si sviluppa anche un’idea asettica
della scrittura, che descriva i fatti con realismo estremo, senza alcuna
interferenza emotiva, tantomeno moralistica: «Le parole che definiscono i
sentimenti sono molto vaghe; è meglio evitare il loro impiego e attenersi alla
descrizione degli oggetti, degli esseri umani e di se stessi, vale a dire alla
descrizione fedele dei fatti.»
I
gemelli vengono cresciuti dalla nonna materna, che non avevano mai visto prima.
La gente la chiama “la Strega”. E lei chiama i nipoti “figli di cagna”. Il
personaggio rappresenta la tipica babushka: piccola e incurvata, porta
un fazzoletto nero sulla testa, indossa vecchi scarponi militari e il volto è
ricoperto di macchie scure e porri pelosi. Non ha denti, non si lava, parla di
rado, e solo quando beve.
In
un primo momento, i nipoti diventano sporchi e non curati come lei («Puzziamo
come Nonna.»); poi, però, incontrano la fantesca della canonica, che si premura
di lavarli e… di iniziarli al sesso.
Quella
pagina mi ha portato con la mente a una scena de I vitelloni (1953) di Federico
Fellini, quando una negoziante matura stritola ironicamente i giovani in una
metafora dell’iniziazione sessuale. Nel romanzo, però, viene meno quella gioia
vitalistica, perché i bambini sono davvero troppo giovani, non hanno l’età per
comprendere quanto stia accadendo, e il gesto si trasforma in un atto di
sopraffazione. Da parte della fantesca, è anche un moto di disperazione, per
quelle prospettive di vita alterate, forse per sempre, dalla guerra.
Ci
sono poi altri personaggi secondari, tra cui Labbro-leporino, che è forse la
figura più de-umanizzata. Tutti la trattano senza alcuna pietà, alla stregua di
una bestia, e lei finisce per piegarsi al giudizio della maggioranza, non
scorgendo alternative. Solo i gemelli, in uno spiraglio di luce, forse
conseguenza di un’auto-identificazione, si avvicinano a lei e le insegnano come
rendersi autonoma e forte. Lo sviluppo della storia di Labbro-leporino (e di
sua madre) è quella che, più di tutte, fa crescere il magone. È espressione della
barbarie umana verso il prossimo e di come, trasformati in oggetti, gli
individui siano costretti a prendere la forma che l’aguzzino ha scelto per
loro.
Anestetizzato
a sua volta, dopo decine di pagine di brutalità, il lettore non può che
accettare una verità finale cruda e iper-razionale: «Sì, c’è un solo mezzo per
attraversare la frontiera: consiste nel far passare qualcuno davanti a sé.»
Secondo
atto
La
preuve esce due
anni dopo. Le frasi brevissime e incisive del primo capitolo della trilogia
avevano una funzione interna alla narrazione, come riflesso di una scrittura
infantile, ma anche come strumento di descrizione oggettiva e non giudicante.
Il secondo atto prevede un approccio già diverso.
I
periodi tendono ad allungarsi – mai troppo – e la prosa, soprattutto nei
dialoghi, si apre a sfumature emozionali nuove. Kristóf, nei limiti del
possibile, guadagna maggiore sicurezza con l’impiego del francese e i significati
dell’opera cominciano a stratificarsi, edificando quel labirinto mentale che
esplode nel finale della trilogia.
La
preuve è in terza
persona. È la storia del gemello rimasto nella città di K. e che ora ha un
nome: Lucas. Questi si prende cura della giovane Yasmine e del figlio di lei,
Mathias, anche quando la madre li abbandona. Questo rapporto padre-figlio, che
non ha nulla di genetico, è forse la parte più luminosa e positiva, almeno fino
a quando l’Autrice non distrugge ogni speranza per i suoi personaggi.
Un
maestro di Mathias, parlando con Lucas, gli racconta delle crudeltà a cui è
sottoposto il bambino. Femmine che lo prendono in giro con appellativi come “il
gobbo”; maschi che lo picchiano. La diversità fisica e l’intelligenza attirano il
disprezzo e l’invidia dei suoi coetanei. Il maestro invita Lucas a ritirarlo da
scuola e a creare un angolo per i bambini nella cartolibreria che gestisce.
Lucas accoglie il suggerimento e l’angolo diventa un’occasione, per Mathias, di
conoscere altri bambini. Il padre gli dà forza e affetto e la pagina in cui gli
dice che sia tutta la sua vita è il culmine di un’emotività inedita che prelude
alla tragedia.
Nella
parte finale, viene reintrodotto anche l’altro fratello, Claus, di ritorno alla
città di K., dove nessuno lo riconosce. La scrittrice insinua nel lettore una
serie di dubbi o di verità alternative: la madre dei due, scoprendo il
tradimento del marito, avrebbe ucciso l’uomo a colpi di pistola, ferendo Lucas
e rendendolo claudicante. La madre venne rinchiusa in un manicomio; Lucas in un
centro per bambini paraplegici.
Durante
la guerra, venne lasciato a una contadina, chiamata “Nonna”. A causa dei
traumi, avrebbe creato la figura del fratello gemello: il grande quaderno
sarebbe il racconto delle loro vite immaginarie. L’allucinazione non svanisce
con la fine della guerra. Eppure, tutto ciò non è uno spoiler, perché potrebbe
trattarsi di un depistaggio, o di una mezza verità.
Un’altra
storia viene gettata sul tavolo: il vero gemello, Klaus (con la K) sopravvive a
“la cosa”, la tragedia familiare: viene accudito dall’amante del padre,
Antonia, che lo cresce insieme alla sorellastra Sarah, unico amore della sua
vita. Quando la madre viene dimessa dal manicomio, però, Klaus decide di
accudirla fino alla fine, sebbene questa lo disprezzi, paragonandola a una
versione idealizzata di Lucas.
In
questa grande confusione, chi sta dicendo la verità? In un dialogo tra Lucas e
l’amico Peter, segretario del partito al potere, il primo domanda al secondo se
creda in quello che dice nei comizi. Peter dice di essere obbligato a crederci.
Lucas lo incalza; Peter risponde: «Non penso. Non posso permettermi questo
lusso. La paura è in me sin dall’infanzia.» Paure, traumi e dolori hanno
alterato per sempre le coscienze dei personaggi. Tutto ciò che dicono è sempre
vero – per essi – e il puzzle delle loro vite è impossibile da ricomporre in
un’immagine unitaria.
Chi
cerca “il significato” o “la vera storia” dei gemelli nella Trilogia di K.
non ha compreso che è proprio l’impossibilità di ricostruire la realtà il senso
ultimo dell’opera.
L’unica
certezza, accertata dalla polizia della città di K., è che sia esistita “la Nonna”,
una contadina che forse aveva accolto uno o più bambini, magari non tutti suoi
parenti, durante la guerra. È l’unico stralcio di documento “ufficiale” che ci
viene concesso. Per il resto, è un susseguirsi di “loro” e di “quelli”: figure
storiche facilmente identificabili, che qui simbolizzano la violenza
ingiustificata o l’illusione di aver operato per un ideale più grande delle singole
vite.
Al
contrario, guerre e rivoluzioni non coinvolgono i protagonisti sotto il profilo
politico, ma le loro vite vengono prima stravolte da questi eventi e poi
cancellate, fino a far dubitare loro stessi della propria esistenza. Il mondo gli
ha fatto la guerra e loro si sono dichiarati indipendenti, correndo un grosso
pericolo, quello di smarrire la propria umanità in nome del diritto a
sopravvivere. Quante esistenze sono state cancellate dal ricordo, per un
ufficio dell’anagrafe bombardato, per un neonato lasciato tra le mani di una
sconosciuta e mai più ritrovato?
Un
dolore ancora più straziante, però, è quello di chi si è convinto di aver
ritrovato la strada di casa, trovando al suo arrivo un muro di cemento. Dopo
decenni, Claus torna al paese. Incontra Peter, che gli domanda come mai non
abbia scritto prima a Lucas: «Avevamo deciso di separarci. Questa separazione
doveva essere totale. Una frontiera non bastava, ci voleva anche il silenzio.»
Peter chiede come mai sia tornato; Claus dice: «La prova è durata abbastanza.
Sono stanco e malato, voglio rivedere Lucas.»
La
dissociazione è durata abbastanza. La prospettiva della morte chiede a coloro
che sanno la verità, o presumono di saperla, di rinunciare al proprio
isolamento. Si direbbe un’apertura verso il lieto fine, ma è una falsa
speranza. Come dice un personaggio secondario, il vecchio insonne, il dolore
può «Diminuire, attenuare, l’ho detto, sì, ma non svanire.» E Peter,
rivolgendosi a Lucas, dice: «Ognuno di noi nella vita commette un errore
mortale, e quando ce ne rendiamo conto, è già successo l’irreparabile.» La
prova è durata troppo: le condizioni hanno reso estranei – alieni – i
personaggi.
Un
ultimo elemento che vale la pena segnalare è il ricorrente valore attribuito
alla lettura e alla scrittura. Ne Le grand cahier, oltre alla stesura del
grande quaderno, ci sono i testi che i gemelli leggono con voracità nella
biblioteca del curato. Ne La preuve, Lucas si rivolge a Mathias parlando
del valore preminente dell’intelligenza rispetto alle doti fisiche. Sempre nel
secondo romanzo, Lucas va nella biblioteca del paese per prendere libri in prestito.
La bibliotecaria, Clara, è sorpresa, perché in tanti anni nessuno aveva mai
chiesto un singolo volume. Il suo lavoro, nel frattempo, è diventato
paradossale: anziché conservare e diffondere i libri, è costretta a segnalare
le opere messe all’indice dal partito, preparandole per il macero. Proprio la
lettura è il punto di incontro che avvicina i due, in una relazione amorosa che
mescola nevrosi e ossessioni.
Sotto
il profilo della scrittura, invece, Lucas stringe un rapporto stretto con il
personaggio tormentato di Victor, il quale dichiara: «Ho solo cinquant’anni. Se
smetto di fumare e di bere, o piuttosto di bere e di fumare, potrei ancora
scrivere un libro. Dei libri no, ma un libro solo forse sì. Sono convinto,
Lucas, che ogni essere umano è nato per scrivere un libro, e per nient’altro.
Un libro geniale o un libro mediocre, non importa, ma colui che non scrive
niente è un essere perduto, non ha fatto altro che passare sulla terra senza
lasciare traccia.»
Forse
la scrittura è un’occasione per parlare di sé senza filtri, in una verità che
non è quella scientifica del mondo esterno, ma interiore, in uno spazio-tempo
dal valore bergsoniano. Quando Claus parla con una libraia, questa gli dice: «Sì.
Certe vite sono più tristi del più triste dei libri.» E Claus risponde:
«Proprio così. Un libro, per triste che sia, non può essere triste come una
vita.» Scrittura e lettura sono strumenti per dare sfogo alla solitudine, per
migliorare di un granello l’infelice realtà, nell’illusione che quel dolore non
appartenga solo a noi. È anche un modo per dichiarare: “Sono stato qui.”
Terzo
atto
Le
tre menzogne a cui fa riferimento il titolo del terzo romanzo sono quelle
indicate dal ragazzo che ha attraversato la frontiera, firmando un verbale
della polizia che contiene, appunto, tre bugie: l’uomo con cui ha tentato il
passaggio non è suo padre; il ragazzo non ha diciott’anni, ma quindici; non si
chiama Claus.
Dopo
decenni, Lucas/Claus torna in città. Klaus lo riconosce, ma finge che suo
fratello sia morto, perché non vuole che si avvicini alla madre. Lucas cerca di
rompere il muro costruito dal fratello: «“Io la vita l’ho attraversata e non ho
trovato nulla.” Mio fratello dice: “Non c’è niente da trovare. Che cosa
cercavi?” “Te. È per te che sono tornato.” Mio fratello ride: “Per me? Lo sai
bene, sono soltanto un sogno. Bisogna rassegnarsi. Non c’è niente, da nessuna
parte.»
Qui
il fratello, pur dicendo di essere un sogno, gli sta rispondendo. Prendendo per
buono il contesto in cui avviene il dialogo, l’autodefinirsi un sogno è
metaforico: come a dire che, trascorso così tanto tempo, a parte la biologia,
quella fratellanza ha perso ogni valore concreto. È una pura chimera a cui
aggrapparsi.
Poco
dopo, però, Claus avvia un dialogo mentale con Lucas, pratica che dice di
seguire da molti anni. In questo caso, però, rende esplicito il fatto che si
tratti di un dialogo immaginario: «Gli dico che se è morto, beato lui, e che
vorrei essere al suo posto. Gli dico che gli è toccata la parte migliore e che
sono io a dover reggere il fardello più pesante. Gli dico che la vita è di
un’inutilità totale, è non-senso, aberrazione, sofferenza infinita, invenzione
di un Non-Dio di una malvagità che supera l’immaginazione.»
Lucas/Claus,
dopo l’incontro infruttuoso con l’uomo che reputa suo fratello, va incontro al
suo destino. Chiede a Klaus di essere seppellito accanto ai genitori e viene
accontentato. Racconta Klaus: «Torno al cimitero tutti i giorni. Guardo la
croce dove è scritto il nome di Claus, e penso che dovrei farla sostituire con
un’altra che porti il nome di Lucas. Penso anche che presto saremo di nuovo
tutti e quattro insieme. Morta Mamma, non mi rimarrà nessuna ragione per
continuare. Il treno è una buona idea.»
È
in questo finale che si rende esplicito il pensiero di Klaus sul tornare di
nuovo tutti insieme, sul fatto che sia davvero il fratello che aveva
perduto.
Ora,
non è tutto così limpido. Ci sono parecchie incongruenze, verità alternative
che non potrebbero mai coesistere nello stesso universo. Mi tornano alla mente
le quattro diverse esistenze raccontate da Paul Auster in 4 3 2 1 (2017):
immaginate di prendere quelle vite, narrate in trame separate, e di mescolarle
in un unico mondo. Verrebbe fuori una storia confusa, contraddittoria,
impossibile sotto diversi punti di vista. Come un librogame in cui tutte le
risposte siano giuste o sbagliate.
Lucas
e Claus sono nomi anagrammati: vivono l’uno nell’altro, sono un unico fiume
carsico che scava nel dolore rimosso, senza mai davvero affrontarlo, e che
sfocia, infine, in un oceano di potenzialità inespresse, di vite non vissute.
Ciò in cui decidiamo di credere, o di non credere, è la storia che ci
raccontiamo per andare avanti.
Bibliografia
e consigli di lettura
° Chew M., Cruelty and Resilience. The Notebook Trilogy by Ágota Kristóf, Sidney Review of Books, 31.05.2016
° Consoli C., Un’oscura fiaba contemporanea: “Trilogia della città di K.”, CriticaLetteraria, 07.03.2012
° ElCicco, “Writing is the most important thing”, cannonballread, 28.04.2021
° Grossi R., Papaleo R., Roberto Grossi e Rocco Papaleo consigliano “Trilogia della città di K.” di Ágota Kristóf, Maremosso, 02.05.2023
° Linsmayer C., Ágota Kristóf. “French is killing my mother tongue”, Swiss Community, 05.08.2022
° Riemer A., The Notebook Trilogy review: Ágota Kristóf’s startlingly originalfiction, The Sidney Morning Herald, 09.06.2016
° Risso S., Perché rileggere “Trilogia della città di K.” di Ágota Kristóf, Il Libraio, 07.06.2023
° Sicuro A., Trilogia della città di K.: Ágota Kristóf e la legge della sopravvivenza, Libero Pensiero, 09.11.2022
° C Trombley One, Review of Ágota Kristóf’s “La Trilogie des Jumeaux”, Continuous Variations (CVAR), 11.08.2022
° Turi G., Trilogia della città di K. – Tre scenari di dolore, un solo linguaggio, Vita da editor, 17.03.2021
Commenti
Posta un commento