Hemingway & Melville. Storie di vita e di ossessioni

Terzo appuntamento psicologico-letterario a cui partecipo sul canale Il bar della psicologia, gestito dal dottor Adriano Grazioli, che potete trovare sui vari social. La rubrica in cui mi inserisco è il Podcast letterario, all’episodio 40. Di seguito, trovate il video su YouTube e qui il link a Spotify: segue una selezione scritta di alcuni interventi centrali.

Per un ulteriore approfondimento su Melville e Hemingway, rimando a un altro post di questo blog: qui.



 

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AS: Per quanto riguarda Melville, siamo di fronte a un autore che non si può ridurre al solo Moby Dick. Allo stesso modo in cui non si può ridurre Dante alla sola Divina Commedia, benché nessuna analisi possa escluderla del tutto. Conosciamo i programmi scolastici italiani… e trattandosi poi di letteratura in lingua inglese, considerando che si tagliano i programmi di letteratura italiana, si capisce che cosa succeda con quella anglo-americana. È già tanto se nelle ore di inglese a scuola si vada oltre l’analisi della lingua di Shakespeare, che non so quanto sia utile in quello specifico contesto.

 

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AG: Mi rendo conto di quanta ipersemplificazione ci sia di certi autori o, all’opposto, di simbolizzazione. Moby Dick mi ha ricordato tanti aspetti biblici, però l’idea è che, certe volte, gli autori vengano esponenzialmente complicati, quando in realtà i concetti che espongono possono essere dati di getto. […] E l’attribuzione di simboli, magari anche giusta, riduce la capacità umana di astrazione.

 

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AS: Abbiamo Melville che fa aperti riferimenti biblici in Moby Dick, e non solo lì. Ci inserisce tanta simbologia: era un lettore di Milton, di Dante, e lo aveva già mostrato nell’opera precedente, Mardi, polpettone simbolista con registri diversi, che fu molto criticato. Fu però un romanzo che gli permise di aprirsi al mondo della fantasia, staccandosi dai primi romanzi, che erano cronache di vita personale rivestite da romanzo. Mardi gli permise di prendere la realtà, accostarla alla fantasia, e produrre Moby Dick. Che è anche lo spirito che anima diversi libri della Bibbia: scritti in periodi differenti, con ispirazioni diverse, passiamo da libri che sono liste di materiali necessari a realizzare edifici o monumenti; poi ci sono le cronache dal taglio storico; infine i libri dei profeti. Questo ritorna in qualche modo in Melville.

Invece, per quanto riguarda l’opera di Hemingway in generale, egli fu un ripudiatore del simbolismo, che definì un “trucco” della critica. Il suo approccio non era simbolista, eppure i simboli non mancano nella sua opera.

 

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AG: Quello che Melville scrive riprende una prima bozza di vita post-apocalittica. In mezzo al mare, in un ambiente ostile, in assenza di divinità. Il fatto che sia stato riscoperto in seguito alla prima guerra mondiale è significativo: ci si è accorti del male che l’essere umano poteva fare. Fu uno dei punti storici cruciali, che ti facevano riprendere in mano un’opera come Moby Dick. […] I nomi impiegati recuperano il testo biblico, in cui l’essere umano si scontra non solo con la natura, ma anche con il divino, un tema otto-novecentesco che ritorna per esempio in Nietzsche.

 

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AS: L’approccio alla critica dei due è molto differente. Melville rimane molto male di fronte alle critiche negative, ma a un certo punto se ne fa una ragione: nella seconda parte della sua vita inizia a scrivere per il puro piacere di farlo, cosciente che la critica a lui contemporanea non lo avrebbe capito. In qualche modo fu anche un provocatore, autopubblicando un testo poetico lunghissimo, Clarel, con contenuti che danno espressione a un suo viaggio in Terra Santa e a tutto il bagaglio interiore che tratteneva da anni.

 

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AG: Parliamo dell’ossessione di Achab. Nasce da un torto subìto: se l’arto perduto è un amore reciso, e io continuo a guardare a quell’amore che è nel passato e non posso più costruirci una relazione, allora il mio dolore continua. Se invece guardo oltre posso sperare in una nuova relazione: Achab è bloccato su quel frame di vita che lo ucciderà. È simile a un PTSD: rivive il loop sperando che qualcosa cambi. Ma non è solo questo, perché qui la parte ossessiva fa da padrona: è la contrapposizione tra l’ossessività umana e la naturalezza delle creature che non hanno bisogno di questo tipo di presupposto. Quando il leone entra in un nuovo branco stermina i piccoli, ma le leonesse lo accettano, perché è un ciclo omeostatico. Il capitano dovrebbe fare un passo indietro; decidere che è giunto il momento di cambiare rotta, invece non lo fa, perdendo paradossalmente in umanità. C’è più umanità – se vogliamo – nella balena che vive la sua vita, che nella paralisi di Achab.

 

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AS: Achab tra l’altro aveva una vita normale, con moglie e figli. Starbuck, il primo ufficiale, cerca di fare appello alla sua umanità, e Achab, in un discorso ispirato, sembra propenso ad ascoltarlo, poi però continua a sentire la balena che sbuffa e questa sollecitazione esterna [condizionamento] lo fa ricadere nell’ossessione. […]

Rispetto a quell’aria post-apocalittica di Melville, non voluta, essa è evocata proprio dalla nave, mondo a sé, che oggi ricorda film come Waterworld (1995, regia di Kevin Reynolds). Uno dei nodi focali dell’opera sono i gam, gli incontri tra navi, con le ciurme isolate che interagiscono. Achab rifiuta anche questo minimo contatto, perché è totalmente concentrato sulla sua folle missione. Folle perché se tu individui un nemico, e questo è reciproco, lo scontro è tra pari, tra persone che ritengono di doversi confrontare. Ma la balena bianca è un animale che non prova rabbia, né interesse verso la nave Pequod, tantomeno verso Achab, rimasto mutilato da un precedente incontro con il cetaceo. E quando Starbuck cerca di farlo ragionare su questo, Achab tira dritto; quando il capitano viene ammonito dalle altre navi, egli taglia i ponti con la ragione, con la piccola società marinaresca che lo circonda, e va dritto per la sua strada. Questo scontro tra il bene e il male che ricerca è solo nella sua testa. Questo scontro con la natura in natura non trova ragione: non esiste il bene e il male, ma il processo chimico-fisico. Se si vuole aggiungere qualcosa di spirituale, il discorso non cambia. Lo scontro titanico ha origine perché Achab lo vuole creare. Se avesse realizzato una normale caccia alla balena, oggi non parleremmo di lui. Moby Dick è anche la storia di come l’umanità si vada a cercare i problemi e si crei un’etica fondata spesso su cose su cui si potrebbe sorvolare.

 

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AG: Da una parte abbiamo un eroe che soffre di titanismo (Achab); dall’altro un pugile (il vecchio di Hemingway), che fatica a difendersi. Il vecchio onora il ring con l’amore dello scontro, senza ossessione per l’esito. Se il vecchio fosse un filosofo sarebbe un grande stoico. In Hemingway i personaggi si spogliano del mantello epico e tragico.

 

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AS: Quella che in Achab è ossessione, nel vecchio di Hemingway è ostinazione. E lo si capisce anche dal finale, quando il vecchio torna verso il villaggio, si compiace della sua modesta imbarcazione; ha perso, certo, ma a testa alta. Ora però è tornato nella corrente che lo riporterà a casa: è sereno; si rende conto di essere andato troppo al largo. Rientrato, si concede un meritato riposo. Perde, ma il romanzo si conclude in positivo: egli fa tutto quello che è possibile fare, dopodiché se ne fa una ragione, non è che torna a fare strage di squali, perché gli hanno divorato il più grande marlin mai pescato. Se ne fa una ragione, cosa che Achab non concepisce.

 

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AG: Hemingway cerca di aprire uno squarcio tra simbolo e realtà, di sfondare il muro che circonda le figure come un manto eroico e sempre più pesante.

 

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AS: Faulkner disse che Hemingway, ne Il vecchio e il mare, aveva scoperto la pietà. Pietà che sembra rivolta verso le creature del mare: più volte il vecchio sembra provare rimorso per quella pesca e si domanda di fronte al grande marlin: chi è davvero degno di mangiarne le carni? Nel mare egli vede amici e nemici, come nella vita di terra. Il mare, come in precedenza la corrida, sono simboli: egli però non li inserisce solo nella forma, perché Hemingway spoglia la forma di quella patina vittoriana e tardo-romantica, la cancella dalle frasi e inserisce un linguaggio volgare. Qui non si parla di simbologia, ma di rappresentare la realtà così come è. Fare una rivoluzione di forma significava spiazzare la critica, formata su ben altri testi, da cui l’incomprensione. La generazione di Hemingway (si pensi anche a Scott Fitzgerald e a come fu isolato per il suo crollo psicologico) dovette davvero smontare una società dogmatica su certi punti. Da un lato c’erano le peggiori cose (criminalità organizzata, etc.), ma se poi ti mostravi per quello che eri pubblicamente, la tua figura veniva demolita. Hemingway, a contrario di Fitzgerald, fuggì la fama: insignito del Nobel, salì sulla sua Pilar con la moglie, lasciando i giornalisti a riva.

 

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AG: La vita di Hemingway ricercava l’eccesso. È molto probabile che soffrisse di una depressione. Il padre era dispotico; la madre aveva difficoltà ad accettare che il figlio fosse maschio, per cui lo vestiva da bambina. All’epoca era un’usanza vittoriana, ma certo ebbe un peso su di lui. Hemingway sceglie tutte attività da maschio alfa (caccia, pesca, camping, guerra), da uomo tutto d’un pezzo: la sua ricerca identitaria lo vede entrare in guerra, tra quei ragazzi che avrebbero fatto parte della generazione perduta.

Riguardo a Melville, nacque in una famiglia con un certo tenore morale e idealistico: e quando l’io ideale non si avvicina all’io reale, cresce quel sentimento di inettitudine. Egli parte per mare, conosce molte nuove realtà, però alla fine il circolo si chiude: scrive, ha un minimo di successo, ma non abbastanza solido da pubblicare con successo un’opera spezza-generazione come Moby Dick. Bisogna proprio aspettare la prima guerra mondiale per la sua riscoperta.

In quell’immagine eroica dell’antichità, che sembra affascinare entrambi, non dimentichiamo che non c’è solo Achille, ma anche Ettore, che scappa di fronte al nemico: scappa. Dopo la prima guerra mondiale, è stato portato avanti un machismo, che, di fronte al trauma dei veterani di una guerra mai vista prima, era destinato a fallire.

 

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AS: Melville era un convinto repubblicano e unionista. In scritti come White Jacket, comunque, cercò di mettere in ridicolo la rigidità con cui venivano trattati i marinai della marina militare. In quell’opera, i marinai vengono frustati per un nonnulla e Melville fa un paragone con gli schiavi americani. In maniera controintuitiva, un marinaio dice a un nero che vorrebbe avere la sua pelle per non prendere quelle frustate.

Nel machismo non c’è solo un aspetto tossico e deleterio, ma anche positivo. Il machismo di Hemingway è certamente positivo: egli diceva che nella vita bisognasse soprattutto resistere. Il padre gli aveva insegnato, nei momenti di dolore e di paura, a fischiare e a cantare. La madre, più oppressiva, lo aveva obbligato a suonare il violoncello e lo aveva vestito da donna, perché voleva fotografarlo con la sorella come se fossero due bambine. D’altra parte, era una consuetudine vittoriana e, anzi, plurisecolare: basta vedere, per esempio, i ritratti di certi monarchi spagnoli del Cinquecento e del Seicento, con abiti che oggi definiremmo femminili, salvo rivederli in ritratti di vent’anni dopo, tutti pomposi a cavallo e in armatura. Forse qui c’è un parallelismo provocatorio con Hemingway.

Emerge poi il tema del suicidio. Il padre si diede la morte e Hemingway non riuscì ad accettare quello che considerava un atto di vigliaccheria. A seguito di numerosi traumi, tuttavia, seguì lo stesso destino. Melville, invece, idealizzò il padre, morto a seguito di una generica crisi nervosa. Il fatto che morì quando era giovane gli permise di evitare quell’uccisione simbolica del padre, ma forse questo si ripercosse sui rapporti con la propria famiglia. Cercò di insegnare ai figli una sorta di stoicismo; era molto ironico, ma di un’ironia che capiva solo lui: si chiuse un po’ nel suo mondo e la famiglia ne risentì.

 

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AG: Il fallimento paterno diventa il fallimento del figlio, proprio con la pubblicazione di Moby Dick. Il padre di Melville muore dopo aver fatto una serie di investimenti sbagliati; lo scrittore dopo aver pubblicato il suo capolavoro. Non è una scienza perfetta, ma è un cerchio che si chiude. Il fatto che Melville avesse adottato un’ironia tutta sua era anche una conseguenza della sua esperienza per mare, stratificata su più livelli di linguaggio. Può però essere anche che, a causa di un sovraccarico dello psichico, ci sia stato un ispessimento di comportamenti di natura borderline, che si avvicinano a comportamenti personali più orientati a una dimensione del ritiro. Crei il tuo mondo, di cui sei l’unico fautore: il borderline più puro, che sfocia nello psicotico, crea un mondo di cui detiene le regole.

Tornando a Hemingway, faccio un parallelo: egli non è il nobile o borghese che si siede a tavola benservito; è l’uomo che sa imbracciare il fucile, ma che sa sedersi tra uomini d’affari.   Che si sa adattare, ma che quando può vive la vita in maniera totalmente diversa: l’opposto di quella figura cervellotica dell’intellettuale che ci si può figurare. È inoltre il modello americano del self-made man: un modello positivo, che non si cristallizza, perché accetta anche l’aspetto emozionale.

 

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AS: La figura di Hemingway è contraddistinta da un machismo che mal si accorda con il tempo che viviamo. Ma è quanto gli ha permesso di fare la letteratura dei libri e la letteratura di vita: l’esistenza stessa di Hemingway è un romanzo. […] Lo scrittore, osando, avendo ardimento, ha potuto non soltanto smantellare l’eredità stantia del suo tempo, ma ha anche costruito il futuro. Perché? Perché senza la sua figura non avremmo avuto quel modello che ebbero gli scrittori della Beat Generation. Hemingway non fu solo la figura da macho che conosciamo, ma il primo scrittore a girare gli Stati Uniti a piedi o con mezzi di fortuna: fece l’hobo, il vagabondo; visse dormendo nei sacchi a pelo con Dos Passos e altri sconosciuti, che gli insegnarono i vari mestieri. Fu un grande bevitore, che non dovette aiutare la sua depressione. Fu una persona in continuo movimento, che ispirò la generazione successiva, che a sua volta creò le basi per la contestazione degli anni Sessanta. Quindi arrivo persino a dire che Hemingway anticipa i vent’anni successivi a Il vecchio e il mare. E non avrebbe potuto farlo senza la sua virilità positiva: Hemingway aveva un senso della giustizia che gli faceva respingere ogni totalitarismo. Fu volontario nella prima guerra mondiale, nella guerra di Spagna contro i franchisti; fu corrispondente nella SGM e si prese una denuncia per aver imbracciato le armi al fianco dei partigiani parigini. Oggi pensiamo al machismo come qualcosa di estrema destra: non è esistito solo questo. Hemingway non era né di destra né di sinistra: aveva un concetto di giustizia, che uno si deve guadagnare con la propria forza, con il proprio sforzo, non lasciando che siano gli altri a fare giustizia al posto tuo, ma mettendoci la faccia, nel bene e nel male.

 

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AG: Chiariamo questa cosa. Oggi parliamo di mascolinità tossica, ma non abbiamo la minima idea di quale sia la differenza tra virilità e questa idea del maschio alfa. Un uomo deve poter esprimere questo concetto, che non esula dall’espressione dei propri sentimenti. Il machismo ha anche una componente emozionale positiva e Hemingway lo dimostra. Ci siamo cullati con il “no” alla violenza degli anni Sessanta, ma all’epoca nasceva da una lunga serie di conflitti ed era condivisibile. Eppure la nostra vita è costellata di violenza, verbale e fisica, e se non ci addestriamo contro tali violenze, ci priviamo di un’arma di difesa. Che non vuol dire aggredire, ma sapersi difendere al momento giusto.


Per un ulteriore approfondimento sui due scrittori, ricordo l'altro post di questo blog: qui.

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