Simboli storici e identità
Giovanni Fattori, Lo staffato (1880 ca) |
L’umanità impara
e disimpara a ogni generazione. Storia e memoria non possono, purtroppo o per
fortuna, sostituire l’esperienza umana. Possono fornire un’indicazione e un
modello, ma mai una legge inequivocabile.
Questo è un tema
che mi è molto caro: da anni ne scrivo sul blog (qui, qui e qui) e in questi mesi ci sono
tornato, riflettendo sulla guerra, sulla morte di personaggi storici del
Novecento, sulla crisi della democrazia occidentale (e su come dovremmo essere
meno duri con noi stessi). Penso che la riflessione sulla memoria meriti più
attenzione di quanta non le diamo, in modo superficiale, una volta all’anno.
Il 19 settembre
2022 si è tenuto il funerale della regina Elisabetta II d’Inghilterra. Per
circa dieci giorni, i media italiani hanno parlato della morte della monarca in
via quasi esclusiva. Viviamo in una repubblica, ma certo l’immagine di questa
regina è entrata, in chiave pop, nelle teste di molti italiani, avendo
caratterizzato un’epoca e una nazione. E anche volerne prendere le distanze
indica la prossimità che sussisteva con questa figura. D’altra parte, è
abbastanza usuale parlare di età vittoriana quando ci riferiamo agli anni del
regno della regina Vittoria, anche se in quel momento non ci stiamo occupando
della storia dell’Impero britannico.
Il funerale di
Elisabetta II si è basato su un rituale ricco di dettagli, molto sentito dalla
popolazione e da chi ne ha preso parte. Un popolo – una gran parte di esso – si
è riconosciuto un’ultima volta (?) unito nella figura della regina. Ora lo
scettro è passato nelle mani di Carlo III, che ha un compito di notevole
difficoltà: tenere vivo nei cuori dei britannici il simbolo della corona.
Guardare al modo
con cui in Italia abbiamo dato tanto risalto a una monarca straniera fa
riflettere: non basta dire che sia stata una figura importante del Novecento,
perché per Michail Gorbačëv,
morto appena nove giorni prima, non ci sono state altrettante
attenzioni. L’interesse dei media italiani per la morte della regina ha
valicato di gran lunga il misurato tributo dell’informazione all’evento. E
certo in questo deve aver influito la domanda, ovvero l’interesse stesso delle
persone: si stima infatti che, a livello globale, siano stati superati i
quattro miliardi di spettatori per la diretta sul funerale. È comprensibile il
peso dell’evento storico, ed è normale che se ne parli. Mi chiedo solo: perché
sembra interessarci sempre più la storia degli altri?
Venendo a noi, non ho potuto non pensare, di fronte alle immagini della
cerimonia, come in Italia non vi fosse alcun simbolo tanto forte da muovere in
massa i cittadini. Certo, il presidente della Repubblica funge, in genere, da
perno di equilibrio tra partiti e istituzioni, ma non regge il confronto con la
corona britannica retta fino a questo punto da Elisabetta II.
Con un certo
rammarico, mi sono chiesto quanto sentimento repubblicano ci sia nel nostro
popolo. Abbiamo punti di vista divergenti su tanti fronti, e questo, in una
democrazia, dovrebbe essere un valore, ma il modo in cui ci schieriamo ha più
la forma di una fede cieca verso un’idea pensata da altri, che una convinzione
che si basi sui nostri princìpi fondanti.
Il comune
cittadino conosce poco o nulla della storia risorgimentale e conosce frammenti
di quella del secondo Novecento: in genere, per avvenimenti accaduti quando era
in vita. Non penso valga più il pretesto che quegli ideali furono razziati dal
fascismo e manipolati. Perché gli ideali risorgimentali, e in particolar modo
repubblicani, ci appartengono ancora oggi e sono un simbolo di unità, di storia
condivisa. Su un altro piano, sono l’equivalente della corona britannica. In
mezzo alle lotte politiche, rappresentano l’elemento di incontro, il perno su
cui innestare un dialogo per il nostro bene, comune e personale. Da orfani, in
una società liquida in via di coagulazione, abbiamo il dovere di conoscere chi
siamo, di scoprire l’origine profonda di questa Repubblica, affinché la nostra
esperienza inedita sul mondo sia vissuta da noi nella piena consapevolezza.
La recente campagna elettorale ha rievocato in me il ricordo di un dipinto, Le Sabine, di Jacques-Louis David. L’artista francese aveva preso parte attiva alla Rivoluzione francese, ne era stato un interprete nel bene e nel male, tanto da finire incarcerato quale complice di Maximilien de Robespierre. Quel periodo servì a David per riconciliarsi con la moglie: scarcerato nel 1795, portò a termine la tela. Il soggetto riprende una vicenda della storia romana: le donne sabine, rapite dagli uomini romani, si pongono tra questi e i parenti sabini, venuti a riprenderle. I capi dei due popoli, Romolo e Tito Tazio, sono pronti a battersi, ma le donne impediscono la carneficina ponendosi tra loro. La tela rappresenta non solo, sul piano artistico, un connubio tra la statuaria romana e l’arcaizzante cultura greca, ma è anche un tentativo di conciliazione personale e civile dopo anni di guerra interna. Oggi, abbiamo bisogno di un’amnistia reciproca tra le parti, così che, pur da posizioni divergenti, maturi un dialogo in cui trovi spazio il comune interesse.
Jacques-Louis David, Le Sabine (1799) |
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