Teratocene attraverso gli archetipi. I racconti di Zona 42



Teratocene (2025) è un’antologia di racconti pubblicata da Zona 42, un titolo che fonde téras (“prodigio”, ma anche “mostro”) con il suffisso geologico -cene, in un neologismo che si fa manifesto programmatico. Ci troviamo oltre l’Antropocene, in un’era in cui l’umano provoca alterazioni – la teratogenesi appunto – e si trasforma in un essere mostruoso.

I racconti ci parlano di un’umanità sopravvissuta alla propria catastrofe materiale e morale, ma incapace di immaginare un’autentica rigenerazione. Se la fantascienza classica guardava al futuro come frontiera, Teratocene lo guarda con repulsione, tanto che l’elemento fantascientifico finisce schiacciato sotto al peso dell’orrore e del raccapriccio.

 

Se nel mondo de La strada di McCarthy ci fosse vita animale, sarebbe certamente quella descritta da David Fragale in Preludio: la spiaggia di Zeta. L’invito è esplicito: «Vieni sulla spiaggia di Zeta dell’anno tremilaventisette, una distesa di sabbia grigia e untuosa punteggiata da ogni tipo di relitto dell’epoca dell’uomo tecnologico […].»

Durante la lettura ho individuato alcune coordinate, che trovo passino anche per il pensiero junghiano. Non a caso il volume è dedicato a David Lynch, che per Jung aveva quasi un feticcio. Al cuore della raccolta pulsa un’arcaica ossessione: la Madre. Ma la maternità, in questo contesto, non equivale a salvezza. Essa è negata, rimpianta, o inseguita con disperazione e a tutti i costi. È un’assenza che si fa buco nero simbolico. In più racconti, la genitorialità non è dono ma infezione, mutazione o inganno genetico. Nella psicologia analitica di Jung, la Madre è un archetipo duplice: può essere fonte di vita o di morte, di protezione o soffocamento. È l’oceano da cui tutto nasce, ma anche la palude da cui non si esce. In Teratocene, l’acqua – elemento che Jung associa proprio alla Madre – non è mai feconda. Mari e oceani appaiono, ma sono acque inquinate, portatrici di vita mutante e disturbata. Si potrebbe dire “non individuata”: l’acqua è il simbolo dell’inconscio, della psiche differenziata, uterina. Come scrive Fragale: «Il mare è un crogiolo di storie.» Qui, tuttavia, l’acqua non genera, bensì contamina e assorbe: «[…] dove il mare non è più un mare, ma una distesa di inganni.», scrive l’Autore alcune pagine dopo.

 

Come è facile dedurre, la dimensione familiare raccontata in Teratocene è devastante: i personaggi di Giulio e Greta, in Invito di Stefano Cucinotta, mostrano una completa incapacità di affrontare il lutto e si nascondono dietro una ritualità culinaria borghese che impedisce loro di affrontare il trauma, ma in maniera decisamente più grottesca e meno da black comedy rispetto a prodotti come The Menu (2022), il film diretto da Mark Mylod.

Il tema, in una declinazione diversa, torna nel racconto successivo di Maico Morellini, Sarò abbastanza forte, dove regna il principio di nascondere i problemi sotto al tappeto («Le cose andavano come dovevano andare e prima si accettava questa verità, prima si poteva continuare con la propria vita.»). Nel frattempo, la natura alterata procede nel suo processo di inglobamento e il protagonista sembra esplorare un ritorno junghiano all’utero, nell’incertezza se questo processo fungerà da elemento di rigenerazione o di soffocamento («Farà male. Eppure, mi sento al sicuro.»).

Elisabetta – la protagonista di Colostro di Maddalena Marcarini – si rifiuta a sua volta di affrontare il trauma che ha vissuto, anche a causa di un ex compagno assente ed egoista. È un personaggio che cerca di allontanare in ogni modo la contaminazione e che farebbe impallidire qualsiasi Chuck McGill. La maternità negata viene sostituita da Elisabetta con varie ossessioni, favorite (anziché tenute a bada) dall’assunzione di farmaci, a tal punto che la donna decide di voler riconquistare la propria forza in maniera indipendente. È una sorta di antieroina la cui tragedia trasfigura in un dramma quantomai umano.

 

In alcuni racconti la trasformazione è quasi metaforica, benché abbia risvolti carnali ben precisi. Penso per esempio a 3DOME di Paolo Di Orazio, dove la radio del titolo sembra veicolare l’idea di una contaminazione delle parole e dei contenuti, che conduce a un abbrutimento degli individui prima sul piano psicologico («[…] contagiandosi l’un l’altra di pensieri vili e risentimento.») e poi della violenza fisica. Apro poi una breve parantesi sulla (ben nota) capacità dell’Autore di mescolare alcuni stilemi di genere a una certa ricerca linguistica («Il rumore rosa della radio dal fondo della gola.»; «Nel sonno profondo, la mente si era prodigata nella decriptazione di un ordigno semantico.»; etc.).

Un altro tema ricorrente, forse più astratto, è il rapporto tra periferia e città, affrontato in particolare in San Vermilio di Marco Malvestio: è un racconto più allusivo, forse persino metaforico, rispetto alla teratogenesi, perché qui è la grande città a essere la sede prediletta della trasformazione (in negativo), rispetto a una realtà rurale ciclica, quasi monotona, ma che offre a chi la vive una certa pace. È un luogo dimenticato dal presente e dalla modernità, ma forse sarebbe meglio dire risparmiato: «Nessuno sapeva chi fosse San Vermilio, non compariva in nessun catalogo dei santi o nel calendario, e anche il prete gli aveva detto, tanti anni prima, che l’etimologia era incerta. […] Quello nuovo veniva la domenica dalla pianura a dire messa, e se ne andava il più in fretta possibile.»

 

Eppure, non è questo il luogo da temere; è semmai la città, quella descritta da Francesca Tassini in Tempio, il racconto successivo, straziante per ogni persona che abbia un minimo di empatia verso il prossimo. Qui la città ha seppellito letteralmente una natura florida, ma accanto a una tematica ecologista ce n’è una storica, legata a una generazione devastata dalla droga, di cui l’Autrice ha scritto in altre opere.

Tassini tratteggia un parallelismo tra un antico culto (il quale a sua volta è stato sottoposto a una teratogenesi culturale) e la dipendenza, in alcune descrizioni che sono tra le più atroci che abbia letto: «Avanzano a quattro zampe, le siringhe strette al petto come candele da accendere sotto gli ex voto; si tastano in cerca della vena buona, la trovano nell’inguine, nel collo, tra le dita dei piedi, ghignano folli di eccitazione, non possono più perdere tempo, potrebbero uccidere o morire.» E, poco più avanti, la descrizione di un ragazzo che compendia tutta l’illusione di quella fuga disperata: «Ha un’espressione beata e priva di emozione.»

 

Dal racconto di Morellini a quello di Tassini, l’idea dell’occultamento di un fenomeno traumatico, o negato dalla società, ritorna anche in Schiuma di Linda De Santi. Non dirò che cosa accade alla protagonista, e vi invito a scoprirlo, ma il testo contribuisce a portare la mostruosità in una dimensione tutta umana, e non come spazio remoto, relegato magari all’inconscio, ma come evento concreto che rischia di travolgerci per sempre, o che può essere assorbito come una mutazione, impedendole di distruggerci.

In queste epifanie non ci sono soltanto le altre persone, ma anche la malattia, raccontata in Elettrodotto di Flavio Dionigi come forma di punizione, di vendetta, o come limite antropico da trascendere. Nel testo ritroviamo certo il discorso sulle dinamiche familiari, segnate da una stanca routine («L’orgasmo un dolore irradiato dalle natiche. Svuotato. Smarrito.») e da una diversa volontà di affrontare la malattia del figlio («Padre si voltò. Teneva i pugni serrati lungo i fianchi. Passi pesanti lo portarono fuori dalla cameretta.»). In questo racconto si interseca anche un altro tema, quello della fusione, o unione, che mi porta al discorso conclusivo.

 

L’ambiente, devastato dalle industrie e dalla chimica, diventa a sua volta un corpo: le masse – umane, animali, ibride – tendono a fondersi, a inglobarsi in un’oscura nostalgia dell’unità perduta. Ma questa non è certo una fusione armonica; è una simbiosi nichilista, in cui l’unità significa dissoluzione. Corpo estraneo di Federica Leonardi è una storia d’amore gore, con un insegnamento tragicomico tra le righe, ovvero che le paranoie, talvolta, possono essere giustificate. Vi si trova anche l’idea dell’unione: «E in quel risucchio c’era un invito lussurioso, una promessa di fondersi in un’unità indissolubile.»

Nel racconto In Nigredo, Elena Giorgiana Mirabelli integra il concetto di fusione con l’acqua, che qui non rappresenta un simbolo della Madre, ma la disintegrazione della forma in materia liquida e scomposta. L’acqua che da culla della vita diviene principale contaminante, in un testo che affronta anche la tematica di quei procedimenti legali a tema ambientale che non portano a giustizia. Il lettore si trova di fronte a corpi molli, privi di confini biologici, ma quello che potrebbe essere letto come un ritorno panico alla natura si trasforma nel degrado dei sensi: «Non ho più coscienza della rabbia, né della paura, non ci sono ansie né tenerezza. Gli stati d’animo mi paiono interpretazioni prive di una qualche realtà.»

 

La perdita dell’identità vissuta da molti personaggi è ben lontana dalla liberazione, ed è a tutti gli effetti una “condanna sistemica”. Penso soprattutto al protagonista di Oro di Elia Gonella: immaginatevi Santiago di The Old Man and the Sea, un vecchio segnato dal proprio lavoro, l’unico che riesca veramente a svolgere perché in qualche modo si convince che in esso vi sia qualcosa di più, un qualche significato nascosto; bene, ora proiettatelo dalla superficie dell’oceano in una miniera, disumanizzatelo come una macchina e creategli un vincolo sentimentale che gli impedisca di andarsene (ammesso che possa davvero farlo). Avrete così la devastante figura creata da Gonella, una specie di umano robotizzato, ma che nel proprio cuore ha una marea di emozioni che né la figlia, né gli anonimi dirigenti hanno interesse a far emergere.

È comunque nel racconto finale della raccolta, Litosoma di Francesco Corigliano, che il tema della fusione diviene una metafora eziologica (ed escatologica) che descrive dove stiamo andando come umanità, in un’apocalisse che annulla ogni consolazione nell’aldilà (è la sorte del personaggio dell’eremita nel Sahara). In un passaggio, in particolare, ho trovato delle analogie con la pila di cadaveri descritta in Atti Umani di Han Kang, con le anime delle vittime ancora coscienti e incapaci di farsi giustizia da sé. La sfera raccontata da Corigliano è però ancora più feroce, una vera e propria Configurazione del Lamento, un luogo in cui la carne è rimestata senza fine o pietà.

 

Ribaltando le leggi naturali, ogni materia tende all’informe; ogni organismo sguazza nel suo pantano esistenziale. Il risultato è un orrore della mescolanza, dove il confine tra sé e l’altro è infranto non per amore, ma per necessità o follia. In questa cupa visione, l’umanità non è più un soggetto agente, ma parte di un meccanismo tossico; è un gregge che si stringe sempre più vicino al burrone.

Teratocene, nel suo complesso, mi è sembrata una parabola sul desiderio di unità, di comunione, che tuttavia, in un mondo irrimediabilmente rotto, non può che risolversi in una farsa grottesca. Zona 42, sotto lo sguardo esperto dei curatori – Lucio Besana, Andrea Gibertoni, Luigi Musolino – ha confezionato un’opera disturbante, nella quale l’immaginazione letteraria pone le basi di una visione mitologica: una mitologia del futuro prossimo, che attinge al caos delle possibilità per riformulare la realtà.

 

Nota a margine. Per gli aspetti editoriali e per la genesi del libro, vi invito a recuperare il video del canale YouTube Scrivere di notte, di Emanuela Cocco, intitolato Speciale Teratocene.

Di seguito, invece, vi indico in ordine alfabetico le scrittrici e gli scrittori coinvolti nel progetto: Francesco Corigliano, Stefano Cucinotta, Linda De Santi, Flavio Dionigi, Paolo Di Orazio, David Fragale (anche autore dell’immagine di copertina), Elia Gonella, Federica Leonardi, Marco Malvestio, Maddalena Marcarini, Elena Giorgiana Mirabelli, Maico Morellini, Francesca Tassini.

Si tratta di una rosa di nomi di un certo spessore, come saprete o scoprirete nelle note biografiche. Scrittori e scrittrici che avevo già letto in un romanzo o racconto, o che ancora non avevo esplorato; in alcuni casi, come con il racconto di Francesca Tassini, non vedo l’ora di poter leggere altri titoli. Oltre a essere un progetto indipendente e autonomo, Teratocene ha anche il pregio di stimolarti a leggere altre opere del genere.

Il mio invito è di immergervi in questa materia viscida, sia che siate appassionati di weird e dintorni, sia che ne siate estranei. In fondo, come avrete capito, qui ci troverete esattamente il vostro quotidiano, ma raccontato con una lente impietosa che potrebbe farvi uscire dal torpore dell’iper-razionalità, l’altro volto del sonno della coscienza.

Commenti

Post popolari in questo blog

Qual è l'album più compiuto di Fabrizio De André?

Un discorso sulle band. Costi, compensi, opportunità

Arnolfo di Cambio e il ritratto di Carlo I d'Angiò