Il cane alato del figlio di Tolkien. Roverandom
Roverandom è un romanzo
breve che nasce nel contesto familiare di Tolkien: il professore infatti
inventò la storia nel 1925 durante una vacanza al mare a Filey, per consolare
il figlio Michael che aveva perso il suo cane-giocattolo sulla riva. Nel corso
degli anni fu abbellita dai disegni dell’Autore e infine pubblicata postuma nel
1998.
Come ricorda Priscilla Tolkien, gli anni
in cui si sviluppò la storia furono ricchi di creatività e la scrittura si
intersecò a quella di altre opere come The Hobbit. Il testo è stato
debitamente arricchito da riferimenti letterari; è certo una fiaba giocosa e
immaginifica, ma non priva di significati e nodi simbolici più profondi.
Il tema centrale di Roverandom è la
trasformazione e il percorso di redenzione del protagonista. Rover
(letteralmente “vagabondo”, a cui poi si aggiunge per crasi il termine random,
“a caso”) è un cagnolino vivace e un poco impertinente, che viene trasformato
in un giocattolo inanimato dallo stregone Artaserse, che ne era stato morso.
L’intera trama è organizzata come una
piccola quest: il cane viaggia sulla Luna e nelle profondità oceaniche per
ritrovare lo stregone e riacquistare la propria forma originaria. In questo
lungo cammino, Rover impara a essere più umile e leale, guadagnando in
esperienza. La punizione inflitta è in fondo severa ma temporanea; come in una
fiaba morale, il protagonista ne esce migliore e la normalità viene
ripristinata.
Sul piano simbolico, Roverandom è
costellato di immagini suggestive. La Luna diventa un regno incantato: lì
risiede l’Uomo-sulla-Luna, descritto come il più grande di tutti i maghi e al
tempo stesso astronomo munito di telescopio. Il maestro lunare possiede anche
un cane chiamato Rover, evidenziando il motivo dei doppi, che ritorna anche al
cospetto del cane marino con lo stesso nome. Le “controfigure” agiscono da
specchio dell’Io alternativo del protagonista: in altre parole, gli omologhi
magici di Rover interagiscono con lui e lo fanno maturare.
L’esplorazione della Luna porta il cane a
vivere uno splendido momento, che rappresenta la libertà ritrovata e la gioia
di essere se stessi. A sua volta l’oceano ha un forte valore simbolico: sotto
le acque Rover incontra sirene, un palazzo marino e perfino un leale amico, il
cetaceo Uin. Queste creature rimandano a tradizioni mitiche ben note,
dall’Odissea ad Atlantide, etc.: in particolare, l’Isola dei Cani viene
descritta come un piccolo paradiso canino con alberi di ossi, un’immagine giocosa
che richiama l’aldilà felice degli animali smarriti. Sembra che Tolkien abbia
preso in prestito il nome da una reale isola sul Tamigi, dove Enrico VIII
teneva i suoi cani.
Un ultimo tema che vorrei citare è quello ecologico,
presente tra le righe. L’Autore sottolinea in diversi passaggi il suo fastidio
per l’aumento dell’inquinamento anche in quelle parti del Regno Unito che non
erano state ancora toccate da un’eccessiva antropizzazione industriale. Tolkien
cita quindi le ciminiere dal fumo nero, la vetta Snowdon (la più alta del
Galles) invasa e sporcata dai turisti, così come Artaserse che, ormai in
pensione come mago, si apre una piccola attività sulla spiaggia e si impegna a
tenerla pulita dai rifiuti.
Ma che dire di Roverandom? Il protagonista
è il classico eroe capriccioso, di indole allegra ma irriverente, la cui
burbera disobbedienza scatena il conflitto iniziale. Durante l’avventura,
Roverandom mostra coraggio, curiosità e un sincero desiderio di tornare alla
vita normale (un po’ come in Apuleio). La sua metamorfosi in giocattolo è una
punizione quasi paterna: imparando a fidarsi degli amici fantastici che
incontra, dal gabbiano Mew alla Sirena, il cane cambia. Uno dei sottotesti
ricorrenti è proprio il valore dell’amicizia e della perseveranza come fenomeni
da perseguire e come mezzi per maturare.
Il mago Artaserse è invece un personaggio
grottesco ed esagerato, un anziano stregone persiano con ampio cappello verde e
una pipa, che si arrabbia facilmente. Pur detestando l’insolenza del cagnolino,
in lui non si cela una vera malvagità. In un certo senso, Artaserse agisce da
figura paterna severa: contrariamente agli antagonisti epici di Tolkien, non è
una minaccia cosmica, bensì un adulto burlone e giustiziere. Alla fine si
comprende che il suo ruolo consista nel voler impartire lezioni.
Altro personaggio chiave è il gabbiano
Mew, la prima creatura fatata che Rover incontra e che lo conduce sulla Luna.
Mew incarna l’aiuto provvidenziale, ed è simile a un angelo custode che appare
al momento giusto. Sulla Luna, poi, Rover conosce l’Uomo-sulla-Luna, che vive
in una torre con telescopio, unendo in sé il ruolo di stregone e di astronomo,
come nel Medioevo. L’Uomo-sulla-Luna cura Roverandom come un figlioccio:
l’incontro con lui è decisivo per ribadire il tema del destino e la necessaria patientia
a cui l’eroe deve sottoporsi perché gli “astri”, per così dire, tornino ad
allinearsi.
Comprimari emblematici sono invece
Psamathos Psamathides e Two. Il primo è il sommo mago della sabbia, una
creatura mostruosamente grande che trascorre i giorni sepolto sotto la sabbia
calda. Personaggio comico, sempre assonnato e rimbambito, si rifà
esplicitamente allo Psammead di Edith Nesbit, con un omaggio tolkieniano
all’immaginario infantile. Two è invece il bambino che alla fine ottiene Rover
come giocattolo, in un’esplicita allusione al giovane Michael Tolkien.
Quest’ultimo dettaglio biografico chiude il cerchio: nella finzione, il
giocattolo ritrovato è dato a un altro bambino, segnando il passaggio di
consegne tra due “piccoli Tolkien” e ribadendo che in fondo Roverandom
rimane una storia di famiglia.
Il libro è scritto in uno stile narrativo
chiaro e vivace, con quel tocco arcaizzante tipico del Tolkien per l’infanzia.
L’Autore adotta una voce fuori campo amichevole, simile a quella della fiaba
tradizionale. Non mancano scene di dialogo a effetto, incantesimi descritti con
umorismo (si pensi all’incantesimo puzzolente dell’Uomo-sulla-Luna) e
descrizioni colorite. La prosa è abbastanza lineare da essere letta ad alta
voce ai bambini, ma conserva anche qualche raffinato gioco di parole e rimandi
filologici, per esempio nei nomi di Artaserse o di Psamathos.
Il tono è generalmente leggero e giocoso,
ancora di più rispetto a opere come Farmer Giles of Ham. Nonostante una
generale accessibilità, la lingua conserva l’eleganza degli armoniosi ritmi
tolkieniani e presenta una punteggiatura vivace, sulla quale i curatori hanno
messo talvolta la mano, trattandosi comunque di un’opera postuma mai sottoposta
a una revisione pre-pubblicazione.
Nelle illustrazioni originali di Tolkien l’atmosfera fiabesca trova ulteriore concretezza. Per esempio, in una tavola il Drago Bianco della Luna è ritratto mentre dà la caccia a Roverandom e al suo amico canino lunare. L’immagine dal tratto bizzarro ed esagerato – con la creatura alata dal muso grottesco – sottolinea il carattere mitico ma anche ironico del capitolo. Sebbene i disegni siano stilizzati, e soprattutto impieghino stili diversi, essi sono stati talvolta arricchiti con colori tenui e impossibili, che ne risaltano la dimensione fantastica.
Innestandosi in una lunga tradizione, il
motivo del giocattolo che prende vita riecheggia celebri storie come Il
soldatino di stagno di H. C. Andersen o La bambola di cera di E. Knatchbull-Hugessen.
Allo stesso modo, Tolkien omaggia Lewis Carroll, dall’idioma onirico delle fate
di Sylvie e Bruno alle bizzarre “mosche-spada” di Attraverso lo specchio.
Inoltre, si ritrova un paragone esplicito
con la mitologia tolkieaniana nella descrizione della vegetazione lunare: gli
alberi prefigurano i mallorn di Lothlorien e anticipano così la sua visione
epica di poco successiva. A dire il vero, già in precedenza Howard Pyle aveva
raccontato la storia di un personaggio che percorre un lungo cammino per la
Luna in The Garden Behind the Moon (1895), che potrebbe essere stato
influenzato a sua volta dal Great Moon Hoax di sessant’anni prima.
Un altro riferimento interno alla
bibliografia tolkieniana è il seguente: «Roverandom credette di aver intravisto
la Città degli Elfi su una verde collina ai piedi delle montagne, un bianco
scintillio molto lontano; ma Uin si tuffò di nuovo così all’improvviso che non
ne fu molto sicuro.» Si cita anche un continente sprofondato nelle acque, ma
sembra più un riferimento alla classica Atlantide che a Numenor (un’idea che
comparirà più tardi nella sua mitologia).
Come in The Hobbit o in Smith of
Wootton Major, in Roverandom sono presenti mondi fantastici nei quali
un personaggio ordinario viene coinvolto in qualcosa di magico. Tuttavia non è
un’opera ambientata nella Terra di Mezzo e non partecipa alla storia mitologica
di Arda. È una storia del nostro mondo (è scritto che Rover è un “cittadino
britannico”) rivestita di fatato. Il tono è volutamente lieve, mentre nei
racconti epici dominano temi di grave eroismo e sacrificio. Roverandom è
pensato per intrattenere i bambini con una prosa vecchio stile ed evocativa. Al
posto della complessità di altre opere, qui le parabole sono più semplici e
vicine a scritti come le Lettere da Babbo Natale.
Opera minore ma genuina nella bibliografia
di Tolkien, Roverandom coniuga l’innocenza infantile all’incanto per un
mondo fantastico, che tra le profondità marine e lo spazio può potenzialmente
aprire a un’infinità di nuove avventure.
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