La verità vi renderà irrequieti. Kallocaina di Karin Boye
Siamo alle prime battute della seconda
guerra mondiale, nel 1940, quando la scrittrice svedese Karin Boye pubblica il
romanzo Kallocaina, che, in una certa maniera, ne diviene il testamento
spirituale.
Ambientato in un futuro totalitario, il
libro condivide alcuni temi e le atmosfere di romanzi come Noi (1924) di
Evgenij Zamjatin e Il mondo nuovo (1932) di Aldous Huxley, e anticipa di
otto anni 1984 di George Orwell. Su questa “quartina distopica” mi
riservo di tornare in un prossimo futuro.
La storia di Boye è narrata in prima
persona da Leo Kall, uno scienziato devoto al regime che sviluppa un siero
della verità. Attraverso questa vicenda, l’Autrice indaga i meccanismi del
potere assoluto e le fragilità dell’animo umano sotto la dittatura, toccando
questioni quali la perdita dell’individualità, la manipolazione della verità e
l’anelito alla libertà. Dimenticato a lungo fuori dalla Svezia (la prima
traduzione italiana è arrivata solo nel 1993), Kallocaina è oggi
considerato uno dei capisaldi della narrativa distopica.
Boye adotta una struttura diaristica: Leo
Kall racconta le proprie esperienze sotto forma di memoria scritta in prigione,
ripercorrendo a ritroso gli eventi che lo hanno portato alla prigionia. Questo
espediente conferisce al romanzo un tono più personale, aumentando
l’immedesimazione del lettore e creando suspense attorno alla sorte finale del
protagonista, dipanata pagina dopo pagina.
Di converso, lo stile è sobrio e
analitico, in linea con la mentalità scientifica di Kall, ma nel corso del
racconto si carica di tensione emotiva e di note introspettive a mano a mano
che si sviluppa il dramma del protagonista. L’uso della narrazione in prima
persona con focalizzazione interna permette infatti di osservare da una
prospettiva privilegiata la trasformazione psicologica di Kall: da perfetto
ingranaggio del sistema a individuo tormentato dai dubbi. Ne risulta un testo
che fonde il resoconto quasi clinico degli esperimenti con momenti di intensa
riflessione morale, accentuando il contrasto tra l’apparente razionalità del
regime e il tumulto interiore dell’essere umano.
Nel romanzo si intrecciano tre filoni
tematici principali: il potere totalitario e il controllo sociale; la verità
usata come strumento di oppressione; l’individuo di fronte alla ricerca di
libertà e significato.
Lo scenario di Kallocaina è uno
Stato di polizia in cui non esiste sfera privata: «Capiamo e approviamo che lo
Stato è tutto, il singolo niente. […] Quel che resta è l’istinto di
conservazione, e il conseguente bisogno di un sistema militare e poliziesco
sempre più sviluppato. Questa è l’essenza dell’esistenza dello Stato. Tutto il
resto è marginale.»
Fin dall’infanzia i cittadini sono educati
a vivere per la collettività: i matrimoni servono alla procreazione e i figli
vengono presto sottratti ai genitori per essere allevati dallo Stato in altre
città. Ogni aspetto della vita – lavoro, tempo libero, rapporti interpersonali
– è rigidamente regolato; un nemico esterno permanente viene agitato dalla
propaganda per giustificare la militarizzazione della società.
La sorveglianza è onnipresente:
dispositivi statali ascoltano e osservano in ogni casa, e vige una cultura
della delazione per cui ciascuno è potenzialmente una spia al servizio del
regime. Eppure la maggior parte delle persone accetta volentieri questa situazione,
perché il governo provvede ai bisogni di tutti in modo uniforme e inculca
l’idea che lo Stato sia il principio e lo scopo di vita di ogni cittadino.
Boye ritrae così un sistema oppressivo ma
apparentemente stabile, in cui la repressione diventa quotidiana: «Mi
piacerebbe tanto credere che ci sia nell’uomo una profondità verde, un mare di
forza vegetativa intatta, che possa sciogliere tutti i residui morti per
guarire e creare in eterno… ma non l’ho vista. Quel che so è che genitori e
insegnati malati hanno allevato bambini ancora più malati, finché la malattia è
diventata la normalità e la salute uno spauracchio.»
La trovata più originale di Boye è questa
sostanza, la kallocaina, che, una volta iniettata, induce una trance in cui è
impossibile mentire: il soggetto rivela spontaneamente i pensieri più reconditi
e perfino eventuali intenzioni. Per il regime si tratta dell’arma definitiva
per smascherare ogni dissenso; il modo di colpire il crimine del pensiero alla
radice senza bisogno di torture (una forma ancora più distorta
dell’antropologia criminale alla Lombroso).
Leo inizialmente accoglie con entusiasmo
la propria scoperta, convinto che eliminerà ipocrisie e tradimenti e rafforzerà
l’unità sociale. Ben presto, però, la verità forzata si rivela un’arma a doppio
taglio. Le prime sperimentazioni mostrano che il siero non si limita a
smascherare complotti, ma porta alla luce un profondo malessere dei cittadini.
Persone all’apparenza irreprensibili confessano paure e insoddisfazioni
inconfessabili: un volontario ammette persino di desiderare la morte, tanto è
vuota e priva di speranza la sua vita. Invece di cementare la coesione, la
verità totale distrugge la fiducia reciproca e getta tutti in un clima di
sospetto universale.
Lo stesso Kall, a forza di interrogare
colleghi e conoscenti, precipita nella paranoia e arriva a dubitare perfino di
sua moglie. Diventa egli stesso prigioniero del meccanismo di controllo che ha
contribuito a creare: pur di scoprire un (immaginario) tradimento, non esita a
usare il siero su Linda, ma così facendo si condanna a perdere ogni certezza
affettiva e morale.
Nonostante la cappa oppressiva, Kallocaina
inscena l’inesauribile anelito dell’individuo verso la libertà emotiva e la
ricerca di significato. I sogni che affiorano grazie al siero rivelano non
tanto mire rivoluzionarie, quanto desideri personali a lungo repressi: c’è chi
fantastica di vivere nella natura fuori dalle città; chi vorrebbe dedicarsi ad
arti proibite come la musica (assai antiplatonico!); chi sogna di crescere i
figli nell’affetto familiare.
Emblematica è la figura ricorrente di una
mitica “Città della felicità” fuori dal controllo statale, simbolo della
speranza utopica di un rifugio dove ritrovare emozioni autentiche. Anche il
tormento di Linda – che ammette di sentirsi infelice e vuota nonostante abbia
apparentemente tutto ciò che lo Stato le impone – sottolinea come, pur ridotti
a ingranaggi, gli esseri umani continuino a aspirare all’amore, alla fiducia
reciproca e a una vita dotata di un senso che l’individuo si è costruito.
I personaggi creati da Boye sono pochi ma
incisivi, e i loro rapporti riflettono le tensioni psicologiche e morali di
quel mondo distopico. Prendo a esempio i tre personaggi più rilevanti: Linda,
Leo e il suo collega Rissen.
Leo Kall è un chimico quarantenne
fedelissimo allo Stato Mondiale. Ambizioso e idealista, agisce per buona parte
del romanzo con cieco zelo in nome del regime. Tuttavia, l’esperienza diretta
con la kallocaina inizia a incrinare le sue certezze: la fiducia nello Stato si
sgretola lentamente, gettandolo in una crisi di coscienza. Kall giunge persino
a trasgredire le regole che venerava (ad esempio disattivando i dispositivi di
sorveglianza domestica e parlando apertamente con Linda) e finisce con il
mettere in dubbio quei valori sui quali aveva basato tutta la sua vita.
Tuttavia la sua presa di coscienza arriva troppo tardi: arrestato e fatto
prigioniero da uno Stato nemico altrettanto oppressivo, si ritrova vittima del
medesimo sistema di controllo che lui stesso aveva perfezionato.
Linda rappresenta il volto dell’infelicità
sotto il regime. In superficie è una cittadina modello, che ha sempre compiuto
il suo dovere di moglie-soldato secondo i dettami dello Stato. Dentro di sé
però cova una sofferenza profonda, che esplode durante un drammatico
interrogatorio a base di kallocaina. Linda confessa di aver persino pensato di
uccidere il marito – non per odio, ma perché vede in lui (e nello Stato che lui
incarna) la causa principale della propria infelicità, di quella mancanza di
senso che la tormenta.
Linda rivela di aver sperato un tempo che
l’amore le portasse libertà e calore, ma di aver scoperto tragicamente che nel
loro mondo la felicità sia solo un’illusione. La premessa di Kall era: «Neanche
i nostri pensieri più intimi ci appartengono più, come a torto abbiamo creduto
per molto tempo.», ma Linda rivendica invece l’impossibilità dei regimi di
condizionare l’anima (o l’intima coscienza) dei suoi cittadini.
Rissen, infine, funge da contraltare
critico al protagonista. Inviato come supervisore agli esperimenti, si dimostra
da sùbito più scettico e riflessivo: è lui a insinuare, ad esempio, che nessun
cittadino adulto possa avere la coscienza veramente pulita in una società del
genere. Questa visione disincantata fa di Rissen una sorta di coscienza esterna
per Leo, una presenza che lo affascina e inquieta allo stesso tempo.
Leo arriva a sospettare che il collega
abbia una relazione segreta con Linda, proiettando su di lui le proprie
insicurezze. In sostanza, è proprio Rissen, con la sua empatia e lucidità, a
instillare in Leo il seme del dubbio verso la disumanità del sistema.
In apertura ho citato la “quartina
distopica”: aggiungo qualche breve nota al riguardo. In Noi di Zamjatin,
la storia è narrata da un cittadino inizialmente ligio che a poco a poco si
risveglia; anche Leo è uno scienziato al servizio dello Stato e il suo diario
testimonia il conflitto tra dovere collettivo ed emozioni personali.
Con Il mondo nuovo di Huxley, Kallocaina
condivide la critica a un sistema che manipola la vita e i legami umani, ma
differisce nel tono: Boye descrive un mondo oppressivo e militarizzato, più
vicino all’incubo di Orwell che alla satira di Huxley. Il paragone più
immediato resta proprio con 1984: anche qui ritroviamo propaganda,
polizia segreta e guerra perpetua che annientano la fiducia reciproca. Boye
però insiste in particolare sulla violazione dell’Io privato tramite un mezzo
scientifico.
Venendo al cinema, THX 1138 (1971)
di George Lucas e Brazil (1985) di Terry Gilliam offrono parallelismi
interessanti con il romanzo. Nel primo viene rappresentata una società futura
in cui i cittadini sono sedati con farmaci per annullare emozioni e volontà
individuale: un controllo chimico non troppo distante da quello esercitato in Kallocaina,
sebbene nel romanzo la droga serva a estorcere la verità anziché a sopprimere i
sentimenti. Il protagonista del film di Lucas, interrompendo la cura
farmacologica, riscopre l’amore e l’umanità perdute, innescando la sua
ribellione, in un percorso che richiama il risveglio emotivo di Leo.
In Brazil, invece, l’accento è
posto sull’oppressione burocratica e sulla sorveglianza totalizzante,
tratteggiate con toni da farsa grottesca. Il protagonista Sam Lowry evade dalla
realtà sognando di volare via con la donna amata, a dimostrazione che perfino
in un mondo soffocante la fantasia resti l’ultimo baluardo di libertà
interiore. Una visione che rispecchia il messaggio di Boye secondo cui nemmeno
la peggiore distopia sia capace di privare l’individuo della capacità (qui
“onirica”) di evadere dal potere.
Karin Boye scrisse la sua opera in
un’epoca segnata dall’ascesa dei regimi totalitari in Europa. Le paure del
periodo confluiscono nella storia, a partire dalla politica del terrore e dalla
propaganda di stampo nazista o staliniano.
Nata nel 1900, l’Autrice fu
un’intellettuale impegnata: aderì da giovane al movimento pacifista Clarté e
viaggiò in Unione Sovietica e nella Germania nazista. La sua vita privata fu
segnata da profondi conflitti interiori. Dopo un matrimonio fallito, grazie
alla psicoanalisi trovò il coraggio di accettare la propria omosessualità, fino
ad allora vissuta come un peso in conflitto con le convenzioni sociali. Non
sorprende che uno dei temi impliciti di Kallocaina sia proprio la
costrizione a conformarsi a un modello sociale contro la propria natura, un
conflitto che Boye stessa aveva vissuto sulla propria pelle.
Poco dopo aver terminato il romanzo, nell’aprile 1941 l’Autrice si tolse la vita. Il suo tragico destino aggiunge un’aura ancora più intensa all’opera, che può essere letta anche come un grido d’allarme esistenziale: «[…] e non posso, no, non posso sradicare dal mio animo l’illusione che, malgrado tutto, partecipo ancora alla creazione di un mondo nuovo.» Forse fu la miserabile realtà storica a farle cambiare idea.
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