La mia Storia, le mie Ombre nella lente di un libro di Lucio Besana
Scrivo queste parole sul libro Ombre
dei vivi e dei morti (Zona42, 2023) di Lucio Besana ponendole sul
personale, perché la storia è ambientata in montagna e ho un conto in sospeso con
essa. Come il protagonista di questa storia, la cui identità è andata disperdendosi
nelle vie della città, distante dalla Valle in cui è nato e cresciuto.
Non lo definirei un folk horror tout
court, perché è sì presente un elemento ancestrale, ma non viene radicato
in una cultura specifica. Al contempo, sono presenti elementi weird, ma dosati
con parsimonia. Ho percepito il libro più come una cronaca familiare, asciutta
e minimale, che mette in luce una notevole capacità di disporre con cura i
“materiali” narrativi.
Da un lato, sembra che non ci sia tempo da
perdere: osservando attraverso gli occhi del protagonista, le Storie della
Valle appaiono inutili orpelli, potenzialmente pericolosi e quindi da liquidare
come retaggio di un passato ormai superato.
Dall’altro, la sensazione oggettiva è che a
disposizione vi sia tutto il tempo del mondo, se solo si potesse recuperare il
valore della ciclicità della vita, nella forma di una festa annuale dei
minatori o in un cambio di stagione accolto con attenzione e rispetto.
Se solo ci fosse la volontà. Nelle
primissime pagine, ho riportato alla mente le mie prime escursioni in montagna,
sulle spalle di papà. E ricordo quando dovetti proseguire sulle mie gambe,
perché nel frattempo era nato mio fratello e sulle spalle di papà era finito lui,
prendendosi diversi rami in faccia nelle discese fatte correndo.
Ricordo anch’io – come il protagonista –
la non soddisfazione una volta raggiunta la cima, come se a un certo punto si
comprendesse che la montagna vince sempre. Qualsiasi cosa significhi.
Ho memoria dei vecchi della Carnia che
parlano un dialetto incomprensibile. Tuttavia, io appartengo per metà al nord e
per metà al meridione. E, dunque, mi rendo conto che la lingua incomprensibile
travalica le montagne, scende a valle, poi in pianura e sfocia al mare. Del mio
nonno napoletano era difficile comprendere gli arcaismi, persino per i miei
cugini che a Napoli erano nati. La lingua perduta è condizione comune del
nostro tempo.
Grazie al libro di Besana, sono tornato a
riflettere sul mio desiderio di andarmene dalla Valle, proprio in queste
settimane, nelle quali mi sto preparando ad acquistare casa, ovvero a rimanerci
in quella Valle, che voglio intendere qui come l’Heimat tedesco. Il
luogo natio in cui dovremmo sentirci a nostro agio, ma che invece appare come
una terra straniera. Forse perché è arrivata la modernità, a rendere obsolete
le tradizioni; forse perché abbiamo rinunciato all’ambiguità delle Storie, per
paura di affrontarle nelle loro declinazioni più oscure, ma non meno reali.
Mi rendo conto, ora con maggiore
coscienza, che le mie Ombre sono qui, intorno a me, ma che mi ostino a non
volerci parlare. Mi sforzo di non voler soffrire il loro addio e così, credo,
mi attiro il loro disprezzo. Le Ombre del libro di Besana da dispettose
divengono ostili. Le salite in montagna, sulle cime, si fanno sempre più
difficili. I luoghi diventano bugiardi e le persone potrebbero sparire in essi.
Non cadere, ma proprio svanire.
Dormono, dormono sulla collina, cantava il
cantautore nel solco di un poeta di Garnett, Kansas. Nel cimitero di Spoon
River ci sono uomini morti sul lavoro, bruciati in miniera, stroncati dalle
malattie. Quando passo sulle colline, come canta Sibylle Baier, quali immagini
tornano alla mente; come desidero rivivere l’origine dei miei stati d’animo
forti e strani. Ho perso anche io qualcosa sulle colline, e non erano solo Ombre
adirate, ma la sensazione di umana fragilità, quando «una mano indurita dagli
anni» mi accarezzava il capo.
Ho perso la familiarità con le Storie della mia famiglia, con il mio bisnonno che aveva lavorato in miniera nella regione della Lorena, riportandone una lunga cicatrice sulla schiena e lasciandoci mezzo polmone. Ho perso troppo sulle Colline, o nella Valle, a tal punto da essermi convinto di non appartenere a quei luoghi. È questo senso di sconforto e di afflizione che mi è rimasto alla fine di Ombre dei vivi e dei morti. E ora potrei solo continuare a fuggire da quella sensazione; nasconderla sotto il tappeto della frenesia cittadina. Oppure, potrei volgermi indietro, diventare finalmente un archeologo di Storie e, magari un giorno, sperare di aver vissuto abbastanza intensamente da poter raccontare la mia.
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