La refrattarietà della strada di fango giallo. Un libro di Can Xue

 

Una strada fangosa ai limiti di una grande città, circondata da abitazioni fatiscenti. Perché il fango è giallo? Saranno le polveri che piovono dal cielo o è il fondo sabbioso? A ben guardare, è l’ultimo dei nostri problemi.

Gli abitanti del luogo si conoscono tutti; conducono vite ignare del mondo esterno e del loro stesso destino. Si parlano sopra l’uno con l’altro; pongono domande che non trovano soluzioni, nemmeno provvisorie. Un giorno, la comparsa del misterioso Wang Ziguang anima la strada, tra teorie del complotto, preoccupazioni per l’avvenire e incurante ironia. Forse Wang non esiste nemmeno: è uno spauracchio, una fantasia per dare significato ai cambiamenti in atto. Cambiamenti calati dall’alto, dai rivoluzionari maoisti e post-maoisti che tuttavia rimangono figure oscure, astoriche, che non toccano davvero le vite di questi derelitti: «Penso che se tutti credono che esista un Wang Ziguang inviato dalle autorità sia perché hanno paura, così hanno creato questa voce sull’arrivo di Wang Ziguang e fanno finta di credere che Wang Ziguang sia il suo nome e che tutti l’abbiano visto.»

 

Nel frattempo, il degrado della strada si accentua. Gli animali impazziscono, le persone mangiano qualsiasi cosa, il cibo imputridisce al sole, che tutto sembra seccare tranne il fango. Gira voce che i funzionari vogliano dislocare i residenti, ma nessuno organizza vere proteste o dibattiti pubblici. Le preoccupazioni quotidiane sono ben altre, non c’è tempo per le semplici ipotesi.

L’essere umano raccontato dalla candidata al Nobel Can Xue viene inserito in un ambiente in cui la natura, inesorabile, si sta riappropriando dei suoi spazi. È questo – a ben pensarci – a creare disagio o sorpresa, abituati come siamo a vivere in un contesto che pretende di aver abolito se non la mortalità, perlomeno i segni più marcati del deperimento fisico e della malattia.

La scrittrice ci porta ben lontano da questa prospettiva. Bisogna armarsi di buona pazienza e ci si sentirà all’improvviso in una storia di Kafka nella Cina post-maoista, con la mano invisibile delle autorità che vuole cambiare la vita di una piccola comunità che tutto desidera, tranne cambiare: «Si sono diffuse molte strane malattie dopo che hanno costruito questa terribile discarica, chi aveva mai sentito parlare di cancro alla lingua un tempo? Ieri pomeriggio hanno trovato nella mondezza il cadavere di un neonato, ormai ci gettano di tutto, e quando non c’è più posto scaricano per strada. Qualcuno ha aperto la porta della casa di Zhang Miezi la scorsa settimana, ci fanno dentro i bisogni, meglio che farla per strada, sostengono.»

Dopodiché l’Autrice ha uno stile personale, tanto che ogni analogia rischia di essere fuorviante. Il legame tra le parole nel testo sarebbe stato più comprensibile in cinese, ma credo che nemmeno per i cinesi, dopotutto, risulti intelligibile. Se prendiamo l’esempio dei dialoghi, ho notato come in una pagina sia possibile scambiare l’ordine dei paragrafi e il senso-non-senso rimane invariato.

 

Il risultato è che abbiamo una comunità che parla e straparla, ma non si ascolta; che al primo accenno di discorso sensato la butta in caciara. Creano e disfano casi irrisolti; vaneggiano complotti, che altro non sono che ciò che “viene da fuori” e su cui loro non hanno il controllo, ma alla fine rinunciano a ogni presa di posizione per cambiare le cose. La strada di fango giallo è come un fiume rattrappito: nessuno riesce ad attingere nulla di sano da quel flusso disorganizzato e tutto scorre per inerzia in un tempo senza fine (a un certo punto si domandano sorpresi che anno sia, e nessuno risponde).

Ho letto gli orrori di Lovecraft e ho incontrato il pessimismo di altri scrittori, ma questa Autrice mi ha davvero messo a disagio, perché – è una mia lettura – in questa storia ho visto un brutale nichilismo, non alleggerito da supreme entità cosmiche o dal conforto dell’orrore (che è pure un modo di sentirsi vivi, di esistere): qui regna il marciume, il degrado fisico e intellettuale, la rinuncia a ogni possibilità di offrire un nuovo corso all’esistenza. Can Xue (sembra che lo pseudonimo di Deng Xiaohua significhi “neve che non si scioglie/sporca”) è riuscita senz’altro a infastidirmi e a mettermi a disagio. E non è una critica, ma un pregio.

 

Can Xue ha una scrittura orripilante, in senso positivo e senza con questo aderire al genere horror. A dire il vero, qui non ha senso parlare di generi: la scrittura è sperimentale. Che cosa significa?

Il discorso sarebbe molto lungo e probabilmente controverso: mi limito a dire che si tratta di uno stile che demolisce lo storytelling e che fa di tutto per andare di traverso al lettore. La storia si apre con un narratore alla ricerca della strada scomparsa, non è chiaro per quale ragione. Dopo poche pagine, inizia la lotta tra il lettore e il testo, alla ricerca di una logica degli eventi che – dovrà accettare – non esiste.

Se la storia è frammentaria o persino inesistente, che cosa viene trasmesso in queste pagine? Io ho tentato una forzatura, provando a uscire da quel labirinto nichilista. E ci ho trovato un flusso ininterrotto di stati d’animo contrastanti, ma sono certo che qualcun altro potrebbe leggervi qualcosa di molto diverso, perché il fiume di fango scorre e ciascuno può rivelarne solo un momento, passeggero.

L’esperimento – e ciò vale anche per la scrittura sperimentale – non è un fine in sé, ma un campo di lavoro, da cui trarre informazioni per altro, una sistemazione teorica o una nuova indagine esplorativa.

 

Che cosa ha davvero importanza allora, nella vita umana e in quella naturale? La propria narrazione, il personale storytelling? Can Xue sembra suggerire di no.

Il suo libro è un grande circo dall’ironia involontaria e dalla tragedia strisciante. È un pezzo surreale più che di realismo magico. Più dalle parti di Kafka che di Márquez, sebbene Can Xue abbia uno stile originale e del tutto personale: «Quando la gente è stanca di vivere, le accadono cose strane. […] Un mio parente, che si era stancato di vivere, si sedeva tutti i giorni sul tetto di casa e sputava sui passanti. Poi è diventato un maestro taoista!».

Non c’è trama, non c’è sviluppo dei personaggi. È uno stile irritante e inconcludente. Potresti invertire persino le pagine e il senso-non-senso sarebbe lo stesso. È così delirante e iperbolico, così sfidante nei confronti del lettore medio, che tutto il fastidio che ne ho ricevuto si è trasformato in inspiegabile gioia. Gioia di aver letto qualcosa che non credevo potesse esistere e la cui esistenza è un miracolo di per sé, in Cina e nel resto del mondo. Persino in Italia, grazie all’occhio attento di Utopia.

 

Mentre leggevo il libro, mi domandavo che cosa avrei potuto dirne e che cosa mi stesse lasciando. Ero molto interdetto, quando non infastidito. Eppure, scrivendo queste righe, mi sono accorto che le parole sono uscite come un fiume in piena, di getto, come se l’ingorgo di fango giallo fosse finalmente giunto a valle. Laggiù non saranno contenti, ma da questa lettura ho tratto il balsamo benefico delle infinite possibilità del reale. È quello che avviene nella citrinitas, la fase alchemica della combustione associata alla luminosità del Sole, l’energia che dà consapevolezza dopo la putrefazione e la purificazione. Questa sembra essere la ragione del colore giallo, oppure no, o forse, come insegna la figura evanescente di Wang Ziguang.

Commenti

Post popolari in questo blog

Arnolfo di Cambio e il ritratto di Carlo I d'Angiò

Orwell. Terrore, controllo e memoria

Ivan Illich. Vita, opere e un compendio di 'Descolarizzare la società'