Con Flaubert non fermatevi a Madame Bovary. Leggete il dizionario!
La stupidità. Un fenomeno quanto mai
concreto, che ha tuttavia risvolti fantastici, resi da Flaubert con
intelligente ironia. La stupidità può essere una forma della superficialità,
che fa uso di frasi fatte e sbrigative.
Il Dizionario dei luoghi comuni è
un non-libro per eccellenza: non è inquadrabile in un genere; non è nemmeno
stato scritto da Flaubert. O meglio: sì, nella maniera in cui Duchamp
trasformava un comune orinatoio in Fontana. Al contempo, il Dizionario è
anche un non-finito, che doveva confluire nella seconda parte dell’incompiuto
romanzo Bouvard e Pécuchet. Flaubert, componendo o assemblando questo
testo, racconta la difficoltà di leggere un’epoca piena di stravolgimenti, tra
la diffusione di ideali democratici e l’evento eclatante della Comune di
Parigi.
Il materiale incompiuto di questo disegno
editoriale, di cui il dizionario costituiva la seconda parte, rappresenta una
satira al sapere enciclopedico e all’erudizione fine a se stessa.
Definito uno «sciocchezzaio», l’obiettivo
manifestato nella prefazione è di ricollegare il pubblico alla tradizione. Come
precedente, si cita non a caso il Manuale di conversazione elegante di
Jonathan Swift. I due testi, pur diversi, colgono la banalità dei gesti e delle
parole, che ripetiamo in maniera meccanica per pigrizia, comodità o
distrazione.
Lo scrittore, tuttavia, ha la capacità di
estraniarsi dalle situazioni e persino, in certi casi, dalla prospettiva della
sua specie: così Flaubert ha potuto cogliere l’ironia di questa meccanica della
ripetizione, che svilisce la lingua e impigrisce l’espressione delle idee.
Il Dizionario è anche un modo per
evitare i luoghi comuni della scrittura. Un esempio si trova alla parola
AMBIZIONE: «Sempre preceduta da “folle”, quando non è “nobile”.»
La semplificazione coinvolge anche gli
individui: alcune personalità eminenti si riducono a una frase che hanno
scritto o pronunciato. Per esempio, DANTON: «“Audacia, audacia sempre!”.». E
ancora, DESCARTES: «“Cogito, ergo sum”.»
Viene da chiedersi: possibile che non si
celi altro che questo dietro una persona? Flaubert non banalizza, bensì mostra
le semplificazioni, ribaltandole con arguzia. Non manca nemmeno un’ironia più
amara, celata dietro i luoghi comuni, come in LETTERATURA: «Occupazione
degli oziosi.» Oppure, ARTE: «Porta
all’ospedale. Le arti sono ormai inutili, dato che vengono sostituite dalle
macchine che fanno meglio e più rapidamente. Arti industriali.»
Non c’è molto da aggiungere per dimostrare
l’attualità di un testo che, è pur vero, in alcuni termini risulta più oscuro
al lettore contemporaneo.
Al di là dei casi particolari, mi piace
pensare che Flaubert abbia iniziato ad annotarsi queste parole come un
esercizio personale contro la ripetizione meccanica. Per certi versi, sono
grato dell’esistenza dei luoghi comuni, più che utili a sopportare i discorsi
dei seccatori ai quali talvolta non possiamo sottrarci. In fondo, sono
strumenti validi, quando non si esagera (ogni malattia o infermità riportata è
un segnale di buona salute, da non curare, stando alle convinzioni comuni).
La sintesi è tutta qui, nel cogliere il confine tra ironia e sciocchezza. Lo stesso Flaubert non si prendeva sul serio nel mettere alla berlina il linguaggio del DIZIONARIO, al cui lemma scrive: «Riderne. È fatto solo per gli ignoranti.»
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