Pupille di Musolino e la mia personale esperienza a Idrasca

 


Talvolta tendiamo a generalizzare qualcosa quando in realtà siamo di fronte a un fattore generazionale. Per esempio, io ho ricordi d’infanzia abbastanza forti: avventure inenarrabili con gli amici nei campi di grano del paese in cui sono cresciuto; risse e vere e proprie faide tra gruppi di undicenni; discorsi e dialoghi a dir poco espliciti per la nostra età. Eppure, tra alti e bassi, mi sono divertito e ne “sono uscito tutto intero”.

Ora, sono abbastanza certo che le generazioni che mi hanno preceduto (io sono del ‘94) abbiano vissuto infanzie molto più estreme delle mie. Viceversa, ho la sensazione che quelle che sono venute dopo di me siano cresciute in una sorta di bolla, avvolti da una pellicola protettiva che ha finito per soffocare qualcuno. Di generazione in generazione, c’è una domanda che penso ossessioni padri e madri: che cosa fanno i bambini quando i genitori non vedono?

 

Questo preambolo è una delle considerazioni finali nate dalla lettura di Pupille (Zona42, 2021) di Luigi Musolino. Nel paese immaginario di Idrasca, in Piemonte, sopravvive il Signore di Polvere, un essere più antico della civiltà umana, uno «spettro del futuro perduto».

Sopraffatto dalla solitudine, infesta la scuola elementare e inizia a scrivere un libro magico per “aprire gli occhi” ai bambini sulla devastazione che verrà. In metafora, i bambini assorbono il degrado e il marciume del mondo, e lo rimettono nella forma di migliaia di occhi. Occhi che gettano una nuova consapevolezza in loro e che forse li migliorano, lasciando invece i genitori nell’incertezza più assoluta. La bolla viene meno; la pellicola protettiva si lacera. Quel senso di controllo maniacale, sfociato in egoismo e possesso, si riduce a impotenza. E, costretti all’angolo, i genitori sfogano una natura violenta a lungo repressa con le buone maniere.

 

Il Signore di Polvere è un genius loci, temibile in quanto legato all’oscuro mondo soprannaturale, ma può anche essere un alleato, se si è capaci di scendere a patti con lui.

Al contrario, Sofia, madre di una delle bambine, mira a ripristinare lo status quo precedente all’arrivo nella scuola del Signore di Polvere. La donna è mossa da una paura atavica, proiettata a una visione del futuro che nasce dalla lettura del Libro di Polvere.

Gli occhi inglobati nei bambini insegnano loro ad accettare la morte, mentre gli adulti si rifiutano categoricamente di riconoscerla. La favola diventa nera a causa loro: Ratti è il cognome di Sofia, che tuttavia non si fa ammaliare dal novello pifferaio di Hamelin e prende la strada di una ribellione nichilistica, insensata, come l’opera umana quando è mossa da manie di grandezza o dal semplice panico.

 

Chiedersi se il Signore di Polvere sia buono o cattivo è una domanda sciocca, mal posta. Dire “dipende” è altrettanto sbrigativo. Se è vero che stiamo parlando di uno spettro del futuro perduto, esso è una proiezione di ciò che potrebbe ancora essere evitato. La minacciosa configurazione dell’Antartide Nera – immagine di un futuro raccontato nel Libro di Polvere – ha la capacità di atterrire l’animo degli adulti, distruggendo ogni volontà di comprensione e di messa in discussione di sé.

Per quanto Musolino non inserisca elementi moraleggianti nel testo, il lettore può sviluppare un proprio discorso sui concetti di colpa e di responsabilità. E, soprattutto, su come quelle colpe ricadranno sul destino dei figli. In termini classici, tornando con la mente ai miei studi sulla civiltà greca, i figli non sono innocenti a priori, ma ereditano i conti in sospeso del passato e i debiti verso il futuro.

 

In certi momenti, leggendo Pupille, ho percepito l’altra medaglia di Dino Buzzati. Io non so che rapporto abbia Musolino con Il segreto del Bosco Vecchio (1935): qui i geni della natura si combattono per sostenere l’ottuso colonnello Procolo oppure il giovane nipote Benvenuto. A pagarne le spese, in questo subdolo intrigo umano, è la natura, minacciata di distruzione; tuttavia, Buzzati sviluppa un processo capace di concludersi in un lieto fine. Egli crea una favola quasi edificante, pur riconoscendo la crudezza della vita. Al contrario, Musolino fa prevalere le forze nichiliste, come se nell’adulto non ci possa essere altro che menzogna. In Buzzati, il tema dell’attesa e della solitudine è propedeutico alla “grande occasione”, quel momento dell’esistenza che permette di dare un significato al proprio cammino. Per l’umanità tratteggiata da Musolino, invece, la “grande occasione” è stata perduta. Gli adulti di Idrasca sono solo un esempio di un’umanità senza speranza, che non ha bisogno di fattori esterni per decretare il proprio annientamento.

 

Ritorno così al quesito iniziale: che cosa fanno i bambini quando i genitori non vedono? Ragionano su domande scomode, alle quali i genitori non vogliono rispondere. Per esempio: perché ci avete messo al mondo? E poi, in segreto, esplorano il bene e il male; fanno cose assurde, a volte ai limiti della legalità e della decenza. Qualcuno non è mai tornato dai campi; altri hanno rimosso il trauma. Questo, almeno, nell’Idrasca di provincia in cui sono cresciuto io, vent’anni fa.

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