Seidmadur. Un'analisi dello sciamano di Maddalena Marcarini

 


Seidmadur (Agenzia Alcatraz, 2023) di Maddalena Marcarini è un thriller soprannaturale ambientato nelle terre estreme dell’Islanda, dove il mondo contemporaneo si intreccia al folklore. L’opera ha avuto la responsabilità di inaugurare la collana Bizarre Off e, stando alle recensioni che circolano nella rete e ai titoli che l’hanno seguita, la scommessa è andata a buon fine.

L’Autrice è una studiosa di filologia germanica, religioni comparate ed esoterismo e l’ambientazione di cui scrive è frutto di una conoscenza diretta dell’Islanda. Il risultato è un libro che presenta un forte realismo antropologico, che tiene conto dell’effettiva ritualità dello sciamanesimo nordico.

Il tono cupo accompagna il lettore fino all’ultima pagina, grazie a un buon equilibrio tra intreccio narrativo e riferimenti culturali mai fini a se stessi.

 

La vicenda ruota attorno a Erlen, una giovane canadese tormentata da un passato doloroso. Fin dalle prime pagine apprendiamo che la donna, rimasta orfana (ha perso la madre molti anni prima e il padre in circostanze misteriose), è giunta in Islanda, terra d’origine materna, con intenzioni estreme. Decisa a farla finita, la protagonista sceglie infatti le gelide acque dell’oceano come teatro per il suo suicidio. Proprio in quel frangente drammatico avviene l’incontro che dà avvio alla storia: Óttar, un enigmatico sessantenne del luogo, interviene appena in tempo e la salva dall’annegamento.

Nel prosieguo della storia, l’uomo si rivela essere uno degli ultimi veri sciamani dell’isola, legato alla filosofia dei guaritori. Ed è così che Erlen, inizialmente riluttante, viene trascinata in un viaggio straordinario.

 

La struttura narrativa segue il percorso di Erlen dalla cupa disperazione iniziale alla graduale scoperta di un mondo occulto che riecheggia curiosamente qualcosa di familiare. Óttar prende a cuore il destino della giovane e assume il ruolo di mentore, avvertendo in lei una sensibilità alle forze nascoste. Erlen lo segue in visita a una famiglia, la cui bambina mostra segni di una strana maledizione. I due si mettono quindi sulle tracce di uno sciamano predatore, che per ingannare le vittime assume le vesti di un’anziana benefattrice.

Erlen vorrebbe fuggire dalla rivelazione di questo mondo sotterraneo, ma esso è dentro di lei sottoforma di visioni terribili e di scene oniriche e orrorifiche. È impossibile scappare e la giovane procede su un percorso iniziatico che la conduce alla prova dello smembramento, un rito sciamanico estremamente rischioso che prevede la morte e la rinascita simbolica del neofita. Un rito che in molte tradizioni simboleggia la disgregazione dell’Io e la ricostituzione con poteri nuovi.

 

Da qui in avanti il romanzo assume i tratti del viaggio dell’eroe e del romanzo di formazione spirituale. Erlen evolve nella direzione di una sciamana guerriera, affrontando prove a poco a poco più impegnative. Vengono alternate fasi concitate – la caccia serrata al Predatore – a momenti più lenti e contemplativi, in cui Erlen approfondisce la conoscenza di sé. Il lettore è dunque sospinto dal thriller, ma è anche invitato a rallentare al termine della corsa.

La caccia soprannaturale conduce Erlen non solo a fronteggiare l’avversario, ma a confrontarsi con un male antico che ha radici nella sua stessa storia familiare. Nel complesso, la trama è ben orchestrata e lineare nel suo svolgimento cronologico, pur includendo flashback sottoforma di ricordi d’infanzia. La narrazione in terza persona focalizzata segue principalmente la giovane, ma talvolta abbraccia anche la prospettiva di Óttar o di altri personaggi, ampliando la comprensibilità degli eventi.

 

Le tematiche: dallo spirito alla psiche

 

Prima ancora dell’intreccio particolare, il tema centrale dell’opera è la spiritualità sciamanica, esplorata nel suo doppio volto: la via dei guaritori e quella dei predatori. Marcarini tratteggia così una netta dicotomia etica all’interno dello sciamanesimo, riflettendo sul dualismo tra magia benefica e magia nera, tipico di molte culture tradizionali.

Nel romanzo il conflitto non è solo teorico ma concreto: il male è raffigurato come un’infezione strisciante, mentre il bene sopravvive nelle antiche pratiche di protezione. La spiritualità viene trattata con estremo rispetto: non si scade nei soliti stereotipi fantasy di rune e d’incantesimi scontati. L’Autrice costruisce un clima a tratti mistico, che non abbandona mai la credibilità: la fede genuina che gli sciamani ripongono nei propri dèi e spiriti è tale che, agli occhi del lettore, la magia diventa reale quanto la quotidianità.

 

Un altro asse tematico fondamentale è quello dell’identità personale e della rinascita interiore. Erlen viene presentata come una donna spezzata; grazie al cammino intrapreso, tuttavia, riscopre parti di sé che aveva messo a tacere. Sotto questo profilo, l’iter sciamanico assume un valore metaforico, ovvero la demolizione del suo io frammentato dalla sofferenza, da sostituire con una nuova costruzione del proprio animo.

Si tratta di una catarsi personale che scaturisce dal recupero delle proprie radici e dei propri talenti. È la terra stessa a chiamarla a compiere un destino familiare irrisolto, riprendendo l’antico topos del viaggio verso Nord (di cui ho parlato varie volte sul blog o su Alchill TV). La natura islandese è aspra e inospitale, eppure intrisa di bellezza e di un fascino magnetico. I vulcani, il mare gelido e i geyser diventano custodi di leggende dimenticate, sussurrate dai venti polari: in un ambiente ostile, la cultura ancestrale può fornire conforto e protezione per l’umanità sperduta del presente. E così il rapporto uomo-natura è quasi sacro: l’essere umano può armonizzarsi con essa solo rispettandone gli spiriti; il male che insanguina quelle terre è invece qualcosa che tende a corrompere l’equilibrio naturale.

 

Un’altra tematica è quella dei rapporti interpersonali, familiari e formativi. Il romanzo mostra quanto profondamente i genitori plasmino (volontariamente o meno) l’identità spirituale dei figli. Erlen sente di aver perso la madre due volte: prima per la morte del padre (evento che ha spezzato la famiglia) e poi per la scomparsa fisica della donna. Il suo viaggio sciamanico assume quindi anche il significato di un ricongiungimento ideale con i genitori.

Il rapporto mentore-allievo tra Óttar ed Erlen si configura invece come un rapporto padre-figlia surrogato: Óttar guida la giovane con pazienza e fermezza, in una forma del modello tradizionale maestro-adepto aggiornata alla sensibilità moderna. La fiducia reciproca cresce e con essa Erlen si accorge di non essere più sola contro il male, in quanto è sostenuta da un’intera comunità alla quale ora appartiene.

 

I personaggi: ciò che esprimono e l’interrelazione

 

Erlen incarna prima il viandante ferito, un’anima persa sul ciglio dell’abisso; eppure, essa è dotata di una forza latente capace di vincere le vulnerabilità. È una ragazza moderna, razionalmente incredula verso il soprannaturale, che però porta nel sangue un antico retaggio magico che si dimostra ineludibile.

In parallelo, Óttar svolge la funzione di narratore interno: è colui che spiega il contesto mitologico a Erlen e a noi, in maniera molto più naturale di uno spiegone calato dall’alto. Non è una guida infallibile e porta con sé alcuni fantasmi del passato: ciò lo rende più vicino ai “maestri” della narrativa contemporanea (un Obi-Wan Kenobi o un Gandalf, per intenderci), che mescolano la sapienza alla fallibilità. Al contempo, non è il consueto mago generico del fantasy odierno, ma un uomo con credenze precise e radicate nella sua cultura.

 

Il Predatore incarna invece l’Ombra junghiana per Erlen: tutto ciò che lei teme di diventare o che cova dentro di sé (la violenza distruttiva; la resa al lato oscuro) è proiettato in questa figura. Un possibile sviluppo – accennato nel testo – è proprio il rischio che Erlen possa essere sedotta dalla via del Predatore: durante la prova dello smembramento, infatti, deve scegliere a quale dio votarsi per ottenere potere.

Il Predatore si riallaccia al classico stregone malefico delle fiabe, con tratti quasi demoniaci: l’uso del tupilaq – una creatura vendicativa costruita con resti di morti – lo allinea alle pratiche occulte più spaventose note nelle culture artiche. La sua divinità protettrice, che richiede vittime innocenti, fa pensare a antiche divinità pagane assetate di sangue, come un Moloch nascosto nelle nevi del Nord.

Dal punto di vista narrativo, il Predatore è il motore del terrore: le scene in cui Erlen percepisce la sua presenza (come la visione nel parco) sono tra le più potenti e spaventose del libro. Non c’è un vero dialogo con lui, solo scontro di volontà e di rituali. Questa scelta rafforza la dimensione mitica del conflitto: è come se il male non avesse volto né voce se non attraverso i suoi atti. Il Predatore non è un cattivo pazzo, ma un fanatico che crede genuinamente nei propri dèi maligni, a tal punto che non è redimibile e la protagonista può solo eliminarlo o soccombere.

 

Tra i personaggi secondari, vorrei concentrarmi sulla bambina vittima del maleficio. Pur comparendo brevemente, ha un forte impatto simbolico: rappresenta l’innocenza in pericolo che spinge Erlen a maturare un senso di responsabilità. La bambina riflette anche Erlen stessa da piccola: entrambe sono vulnerabili di fronte a forze più grandi e aiutarla equivale per Erlen a salvare la bambina interiore, sanando così una ferita psicologica. In maniera speculare, la sciamana anziana, che perfeziona il cammino iniziatico di Erlen, rappresenta una figura matura e indipendente, un modello alla quale la giovane può aspirare.

Infine, meritano una menzione gli spiriti animali o entità naturali che popolano le visioni sciamaniche. Quando si attraversa la prova iniziatica, per tradizione lo sciamano incontra animali guida o spiriti ancestrali. Queste entità sarebbero coadiuvanti magici del racconto, paragonabili a dèi ex machina che intervengono per equilibrare il conflitto. La presenza di elementi simbolici come il falco, l’orso, l’acqua e il fuoco contribuisce a enfatizzare il carattere animista della storia.

 

Dalla tradizione al gusto contemporaneo

 

Seiðmaðr è un termine dell’antica lingua norrena che significa “uomo del seiðr”, ovvero praticante del seiðr, una forma di magia sciamanica diffusa tra i popoli germanico-nordici, attestata nelle saghe e nelle fonti medievali. Dunque non stregoneria genericamente intesa, magari in chiave wicca, ma proprio sciamanesimo norreno.

A ciò si aggiunge l’elemento del tupilaq, che appartiene alla mitologia inuit (Groenlandia): nel romanzo, il Predatore segue la procedura dei racconti inuit. Nelle leggende, il tupilaq veniva creato con ossa e parti di animali marini, animato da incantesimi e scagliato sul nemico; di contro, il rischio era che se il bersaglio era più potente del creatore, il tupilaq poteva tornare indietro e uccidere il suo stesso padrone.

 

Tra gli altri riferimenti mitologici, il libro allude anche a figure leggendarie islandesi: elfi (huldufólk), spettri, troll delle rocce, spiriti protettori dei luoghi (landvættir) e animali guida (fylgjur).

La distinzione tra magia bianca e nera riecheggia poi un rapporto ben noto negli studi sulle religioni comparate: oltre al dualismo zoroastriano tra bene e male, vi è la distinzione tra Angakkuq buono e malvagio presso gli Inuit, o tra lo sciamano tribale benevolo e il brujo (stregone) malevolo nelle culture mesoamericane. Emblematico il discorso sulla percezione di tale magia: gli eventi soprannaturali potrebbero anche essere una “fantasia”, ma ai protagonisti appaiono reali perché essi credono autenticamente nelle loro divinità. Questo dettaglio è importante: in antropologia delle religioni si sottolinea la necessità di comprendere le credenze dal punto di vista emico (interno alla cultura) e non etico (esterno). Questo principio è ripreso da Marcarini: il lettore è quindi invitato a sospendere l’incredulità e a adottare quello sguardo interno durante la lettura.

 

Lo sciamano presenta elementi che richiamano la tradizione del weird fiction e del folk horror. Un parallelo che mi salta alla mente è quello con il film Midsommar (2019) di Ari Aster. Pur ambientato in Svezia e incentrato su un culto pagano fittizio, condivide con il romanzo alcune tematiche: una protagonista segnata da un grave lutto familiare e da fragilità psicologiche che si ritrova in un contesto rurale scandinavo dove si svolgono rituali arcaici; il contrasto tra la sofferenza individuale e la potenza impersonale della tradizione comunitaria; la presenza di cerimonie inquietanti e di un mentore (nel film è il gruppo/culto stesso) che di fatto porta la protagonista a una trasformazione estrema (Dani che diventa la “Regina di Maggio”). Entrambe le opere culminano in una sorta di empowerment disturbante: le eroine trovano un nuovo sé, ma attraverso esperienze traumatiche e rituali sanguinosi. Diverse invece le atmosfere: Midsommar ha un qualcosa di psichedelico, mentre Lo sciamano ha un tono più avventuroso e soprannaturale.

Questo interesse contemporaneo nel riutilizzo del folklore europeo in chiave horror si ritrova ancora nel film The Ritual (2017) di David Bruckner, ambientato in una foresta svedese, in cui un gruppo di amici-turisti viene terrorizzato da una creatura legata alla mitologia norrena (un Jötunn, figlio di Loki). Si potrebbe dire che Lo sciamano esplori che cosa sarebbe accaduto in The Ritual se uno dei personaggi fosse stato uno sciamano locale pronto a combattere la creatura.

 

Sotto il profilo letterario, il romanzo si inserisce nella tradizione del gotico scandinavo e del fantastico mitologico. Mi viene in mente anche American Gods (2001) di Neil Gaiman: certo, l’opera ha un’impronta pop e urbana molto diversa, ma condivide l’idea di portare antiche divinità e pratiche nel mondo moderno, fondendo gli scontri soprannaturali a un più classico road-movie (qui un viaggio iniziatico).

Sul piano delle atmosfere gotiche, Lo sciamano può ricordare opere classiche dove il paesaggio e il soprannaturale si uniscono per creare suggestione. Un testo come The Wendigo di Algernon Blackwood racconta come nella foresta canadese si manifesti uno spirito maligno che ricorda molto il tupilaq per la ferocia e per il legame con la natura selvaggia.

Il romanzo condivide con il gotico classico la cura nel creare un luogo remoto fuori dal tempo, dove il soprannaturale è credibile. L’Islanda delineata da Marcarini, con i suoi silenzi e con una natura primordiale, funziona un po’ come la Transilvania di Stoker o la brughiera di Brontë: luoghi romantici e terribili insieme. Inoltre, la presenza di fantasmi del passato che tornano è tema gotico per eccellenza, qui rivisitato in chiave spirituale: i fantasmi di Erlen sono sia i ricordi dolorosi, sia forse letteralmente gli spiriti degli antenati.

 

Una conclusione

 

Lo stile dell’Autrice combina competenza tecnica (filologica e narrativa) con una buona sensibilità artistica. È un romanzo che soddisfa il lettore in cerca di una storia oscura e avvincente, oppure quello interessato a un approfondimento culturale sullo sciamanesimo e sul mito nordico.

I personaggi sono ben caratterizzati e le tematiche universali non vengono mai banalizzate con facili soluzioni. Il testo traspira passione per gli argomenti trattati e una dedizione assoluta alla storia. Sono certo che l’Autrice abbia ancora molto da raccontare a queste latitudini.

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